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Il processo Geronzi e le gravi colpe di Csm e magistrati

Il Fatto Quotidiano, Domenica 7 Luglio 2019

Il processo Geronzi e le gravi colpe di Csm e magistrati

GIORGIO MELETTI

Non viviamo in un Paese dove si verificano sempre le cause e non gli effetti. L’aforisma di Italo Calvino (Il barone rampante, 1957) va aggiornato: viviamo in un Paese dove la classe dirigente litiga sulle cause per nasconderne gli effetti. Così può minimizzare le sue porcate e continuare a officiare la sua liturgia: scandalo, propositi di rinnovamento, individuazione del capro espiatorio, autoassoluzione, oblio. I cittadini non devono sapere la verità. Gran parte della stampa obbedisce all’imperativo categorico e non dice nemmeno chi ha dato l’ordine: il Quirinale. Il gioco è pericoloso perché sappiamo che il presidente Sergio Mattarella è animato dall’etica del bene comune, ma “un fatto è un fatto” (Leonardo Sciascia, C a ndido, 1977) e occultarlo incentiva incredulità e sospetti, a tutto vantaggio dell’e v e rsione da cui il Quirinale è circondato. Così dello scandalo che travolge la Giustizia si raccontano solo le cause: magistrati che si intercettano tra loro; le avventure del dottor Luca Palamara; il faccendiere Fabrizio Centofanti accusato di corrompere tutti quelli che frequenta fuorché quello con cui andava a cena più spesso, l’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone; l’ex ministro Luca Lotti che vuole scegliersi il magistrato che deve indagare su di lui.

MA PARLIAMO DEGLI EFFETTI. Tre giorni fa la Cassazione ha condannato definitivamente Cesare Geronzi, ex banchiere più potente d’Italia: quattro anni e sei mesi di reclusione per bancarotta fraudolenta. Con lui è stato condannato (tre anni e sei mesi) Matteo Arpe, ex amministratore delegato di Capitalia, la banca di cui Geronzi era presidente. Hanno contribuito al crac da 14 miliardi della Parmalat costringendo il patron Calisto Tanzi a strapagare l’acqua Ciappazzi a Giuseppe Ciarrapico per alleggerire il debito dell’imprenditore amico di Giulio Andreotti verso Capitalia. Geronzi ha commesso il reato a 67 anni, ora ne ha 84 e la sua carriera è finita da tempo: è stato fatto fuori con pochi giorni di processo dalla giustizia privata (in nome del più ricco) del potere finanziario, molto più efficiente di quella in nome del popolo italiano. Al re dei banchieri il sistema giudiziario ha concesso un bonus di 17 anni da presunto innocente, durante i quali, servito e riverito, ha pilotato la fusione di Capitalia in Unicredit, voluta per lui dalla Banca d’Italia per nascondere le voragini dei prestiti agli amici degli amici; è diventato presidente di Mediobanca e poi presidente delle Assicurazioni Generali; ha detto la sua in ogni partita di potere, compresa la nomina dei direttori del Corriere della Sera. E potremmo seguitare. Che il bancarottiere, vista l’età, non vada in carcere è un rammarico da miserabili. Dopo il servizietto che gli ha fatto la cupola di cui fu leader, Geronzi è un’altra persona e ha già pagato prezzi per lui molto più amari di qualche visita all’ospizio di Cesano Boscone. Ma la sua storia processuale è un effetto delle cause di cui sopra e pone il vero problema: a che cosa serve questa giustizia se non alle carriere di magistrati ambiziosi e/o amici degli imputati? La lentezza dei processi è frutto solo di inefficienza o anche della malafede di magistrati corrotti? Quanti imitatori di Geronzi, durante questi 17 anni, hanno spolpato le loro banche vedendo che il sistema giudiziario, male che vada, ti presenta il conto quando sei vecchio e fuori dai giochi? E quanti magistrati sono stati scoraggiati dal fare il proprio dovere vedendo che gli insabbiatori seriali e scientifici facevano carriera mentre gli onesti venivano infangati come rompicoglioni o, nella migliore delle ipotesi, come don Chisciotte un po’coglioni? Di questo dovrebbe discutere il Csm, anziché cercare vendette sui suoi complici del giorno prima.