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Il potere politico misurato attraverso il numero di followers (e di condivisioni)

 

di Carlo Scognamiglio

Molti commentatori non riescono a comprendere fino in fondo il significato della spasmodica ricerca di followers da parte degli attori politici, e spesso ironizzano su un certo iper-presenzialismo virtuale. Dal più piccolo comune italiano agli Stati Uniti d’America, un nuovo dovere per ciascun candidato, ma anche per qualunque ruolo di governo, è definito dalla presenza capillare e costante sui social media. Dichiarazioni, battute, risposte e fotografie vanno molto oltre quello che una volta era costituito dall’ufficio stampa, e non si deve neanche ridurre il fenomeno all’idea di “cura della propria immagine pubblica”, a una forma sterile di narcisismo. Il punto è un altro. Si tratta di una questione di potere. Per comprendere secondo quale criterio l’aumento dei followers sia correlato all’incremento del potere politico, dobbiamo interrogare un filosofo del Seicento, che analizzò a fondo il tema. Mi riferisco a Thomas Hobbes.

Il capitolo 10 del Leviatano è probabilmente uno dei più belli e fruttuosi dal punto di vista filosofico, ed è dedicato al tema del potere. Hobbes lega questo concetto alla struttura aristotelica della potenza, e lo definisce come possibilità di ricercare il piacere, o meglio, di ridurre agevolmente la distanza tra il desiderio e la soddisfazione dello stesso, o anche di comprimere lo scarto tra la necessità di evitamento di un dolore, e l’effettiva elusione di quello. Esiste il potere fisico, determinato da qualità “esteriori”, come la prestanza atletica o la buona salute, ma anche il potere conoscitivo, favorito da una buona disposizione intellettuale e una costante applicazione. Esso è però arricchito da altri fattori, primi fra tutti le amicizie e la buona reputazione. Solo secondariamente, e con qualche eccezione, anche la ricchezza può essere fonte di potere.

Leggiamo Hobbes:

Il potere di un uomo (preso in senso universale) sono i mezzi che ha al presente per ottenere qualche apparente bene futuro; esso è o originario o strumentale. Il potere naturale è l’eminenza delle facoltà corporee o mentali, come la forza, la bellezza, la prudenza, l’arte, l’eloquenza, la liberalità, la nobiltà quando sono straordinarie. Sono strumentali quei poteri che, acquisiti per mezzo dei primi o della fortuna, sono mezzi e strumenti per acquisirne di più, come le ricchezze, la reputazione, gli amici, e quel segreto operare divino che gli uomini chiamano buona sorte. Infatti la natura del potere è, in questo punto, simile alla fama: cresce nel procedere; o è simile al moto dei gravi, che, quanto più s’avanzano, vanno sempre più in fretta”.

Perché avere amici costituisce una forma di potere? Nella vita di ciascuno, poter godere di una buona rete sociale significa per un verso ottenere delle facilitazioni per accedere a situazioni piacevoli, ma anche garantirsi un probabile aiuto di fronte al rischio della sofferenza. Da un punto di vista politico, invece, avere delle buone e diffuse relazioni interpersonali significa garantirsi il sostegno elettorale. Vuol dire poter fare e ricevere dei favori.

Per avere molti amici è fondamentale il riconoscimento del proprio potere da parte degli altri (quello che Hobbes chiama “onore”), che induce le persone a cercare l’amicizia proprio di chi ha più potere o può vantare molti amici. Una buona reputazione per un verso è legata alla propria etica personale o professionale, ma per un altro è legata alla percezione pubblica del proprio potere. In altri termini, chi ha molti amici ne attira altri, e chi ha amici importanti o autorevoli appare come depositario di maggiore potere, e quindi innalza il livello della propria reputazione. Una rete relazionale ampia intreccia il numero dei contatti con la solidità della reputazione (due fattori che, soprattutto in Rete, si si autoalimentano vicendevolmente). Scrive Hobbes: “la fama di avere potere è essa stessa potere perché porta con sé l’adesione di coloro che hanno bisogno di protezione” (p. 89). Ma è funzionale a questo obiettivo anche l’ostentazione dei propri risultati positivi: “il successo è potere perché genera fama di saggezza, di fortuna, procurando il timore o la fiducia altrui” (p. 89). Sul piano più strettamente politico, la reputazione di prudenza nel governo, l’affabilità e l’eloquenza, la bellezza sono forme di potere.

Ma in quale altro modo occorre rappresentare sé stessi per incrementare il numero dei followers? Hobbes suggerirebbe: “è potere la fama di amare il proprio paese” (p. 89). Questo lo possiamo riscontrare nei post di qualunque dirigente o candidato (in Italia, soprattutto in quelli di Renzi), per sottolineare l’ ethos della propria azione politica.

Seguendo Hobbes, la cultura non è una forma di potere, e infatti a nessun politico conviene ostentare particolari conoscenze scientifiche o un’eccellenza culturale. La scienza è infatti un valore solo per alcuni (la gran parte della collettività è indifferente alla scienza), e anzi può generare diffidenza tra gli ignoranti.

Avere amici e avere una buona reputazione sono dunque fonti di potere più importanti del denaro (lo hanno dimostrato i Cinque Stelle affermandosi politicamente senza risorse economiche, ma solo attraverso la loro “Rete” sociale). La ricchezza genera potere solo se è unita alla liberalità, poiché in tal modo fa acquisire amici e servi (le vecchie “clientele” hanno ancora il loro valore, ma oggi come oggi i soldi sono pochi, e le forze politiche chiudono giornali e licenziano dipendenti). Senza liberalità l’uomo ricco è debole, perché esposto a invidia, e considerato una preda. Invece della speranza di ottenere vantaggi economici dai politici, i cittadini (magari gli stessi che furono una volta assunti in un ente pubblico grazie a un parente ben affiliato) tendono a manifestare odio per i privilegi dei parlamentari e ad alimentare le invidie anti-casta.

L’assenza di potere è debolezza, e la coscienza della propria debolezza genera passioni meschine.

Si comprende bene allora per quale motivo i politici, come tutti gli uomini, percepiscano il bisogno di potere come una pulsione inarrestabile, che rinvia al concetto di felicità, per sua natura – secondo Hobbes – mai appagabile:

Un uomo, i cui desideri abbiano raggiunto un termine, non può vivere più di un altro in cui si siano fermate le sensazioni e l’immaginazione. La felicità è un continuo progetto del desiderio da un oggetto ad un altro, dove il raggiungimento del primo non è altro che la via per il conseguimento del secondo”

 

Ma questo non avviene perché si desideri una soddisfazione maggiore rispetto a quella presente, bensì per un motivo più sottile: perché il potere presente non è mai assicurato, se non ci si muove per ottenere un potere maggiore. Vale lo stesso, e ancor di più, per la sfera virtuale. Eclissarsi dalla Rete significa scomparire, perdere amici e perdere la reputazione. Questi fattori invece hanno bisogno di accrescersi costantemente, in virtù della loro stessa precarietà.

Come tutte le forme di potere, anche questa è legata al riconoscimento. Per privare un politico di potere virtuale, basterebbe togliergli l’amicizia su facebook, collettivamente.

L’articolo è stato inviato e pubblicato anche a La Città Futura

3 settembre 2017

fonte:contropiano.org