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Il pentito e il racconto sulle false assunzioni: «I soldi delle disoccupazioni divisi col boss Bagnato»

Domenico Iaquinta al processo: «Gallo era la mente di tutto. Me lo presentarono come intoccabile. Voleva passare per vittima di mafia»

Pubblicato il: 19/12/2022 – 10:57

di Alessia Truzzolillo

CATANZARO Domenico Iaquinta, 38 anni, collaboratore di giustizia da giugno 2019, è stato affiliato fin dai primi anni 2000 al clan Bagnato di Rocca Bernarda. Era un uomo di fiducia del capo locale Santo Antonio Bagnato. Nel locale di Rocca Bernarda i personaggi si spicco erano, ricorda il collaboratore, «Rosa Tommaso, detto pure Tom lo Zio D’America, Salvatore Marrazzo, Michele Marrazzo, Giuseppe Marrazzo, Giuseppe Bagnato, Antonio Cianfrone, Bilotta Maurizio, Valenti Garcia Emanuele». La cosca Bagnato aveva buoni uffici anche con altre consorterie come con i Trapasso, i Mannolo, gli Scerbo, i Falcone, insomma «avevamo rapporti con tutti i paesi limitrofi, tutti i paesini piccini, con la cosca di Cotronei, con Petilia Policastro, con Leonardo di Cutro, con Cutro, con San Donato Marchesano, con tutti i paesi limitrofi», dice Iaquinta.
Il 3 giugno 2019 Iaquinta ha deciso di collaborare e subito si è autoaccusato dell’omicidio di Rocco Castiglione, avvenuto nel 2014, puntando il dito anche su mandanti e complici. Infatti il 31 marzo 2021 la Corte d’Assise di Catanzaro ha comminato tre ergastoli nei confronti di Antonio Bagnato, Antonio Marrazzo, e Antonio Cianflone, 30 anni a Michele Marrazzo e 12 anni a Iaquinta.
Domenico Iaquinta è stato anche condannato nel processo, con rito abbreviato, “Basso Profilo” a 10 mesi di reclusione.
È accusato, in concorso con Antonio Gallo, Tommaso Rosa e Concetta Di Noia di avere emesso, attraverso la ditta “Global Service Di Iaquinta Domenico”, fatture relative ad operazioni inesistenti per evadere l’Iva e assicurarsi un indebito rimborso. Avrebbero emesso fatture per un totale di 626.805,40 euro.

La nascita della ditta e Antonio Gallo «l’intoccabile»

Nel corso del processo con rito ordinario Iaquinta ha ammesso: «La società era intestata a me, si chiamava Global Service di Iaquinta Domenico». Iaquinta spiega, rispondendo alle domande del sostituto procuratore della Dda di Catanzaro, Paolo Sirleo, che tra gli uomoni di fiducia del boss Antonio Bagnato c’erano Tommaso Rosa che era «un affiliato nel nostro clan di Rocca Bernarda, però è una persona molto intelligente, una persona acculturata, aveva studiato. Bagnato decise, tramite i Trapasso, di farlo scendere giù (a Botricello, ndr), in quanto Rocca Bernarda è un paesino povero, diciamo che non ci sta niente a livello economico, e lo mandò là e abbiamo iniziato a lavorare con i Trapasso aprendo ditte, prestanomi, queste cose qua, e poi restò là, però ha portato sempre i soldi a Rocca Bernarda».
Il primo interlocutore a Botricello, dice Iaquinta, erano Pier Paolo Caloiro, «affiliato del clan Trapasso». Rosa e Caloiro propongono a Iaquinta di aprire una ditta: «“Ci facciamo i soldi, tutto pulito, non andiamo in galera”», propongono a Iaquinta, che accetta e fornisce i suoi documenti. Dopo una settimana Caloiro lo chiama  «e andammo a trovare il signor Antonio Gallo». «Antonio Gallo – racconta Iaquinta – a me lo presentarono la famiglia Trapasso, sia Tommaso che Pier Paolo, me lo presentarono come intoccabile, che gli dissi io: “Pier Paolo, ma questo chi è?”, “Domè, questo qua è un amico degli amici, è un intoccabile”, così, lo chiamavano “Il Principino”». Pier Paolo Caloiro «mi raccontava che ci stava lui in mezzo alle ditte, che lui finanziava i soldi, che lui gestiva tutto», dice il collaboratore.
Antonio Gallo, 42 anni, viene considerato il perno dell’indagine Basso Profilo, colui che, da imprenditore «fungeva da riferimento operativo delle organizzazioni ‘ndranghetistiche insistenti nell’area geografica di Sellia Marina, Catanzaro, Botricello, Mesoraca, Roccabemarda, Cutro e Ciro Marina»

Le false assunzioni

«Ma questa società che doveva fare?», chiede il pm Sirleo.
Iaquinta spiega che i Trapasso prendevano in gestione delle strutture turistiche in cui facevano comparire Antonio Gallo come fornitore di materiali «perché lui era uno più pulito a confronto della famiglia Trapasso e dava meno all’occhio».
Ma chi lavorava e in che termini, in queste società?
«Dottò – risponde Iaquinta –, ma là era tutto falso, era tutta una simulazione, ma chi ci lavorava?! Loro prendevano l’appalto, ma poi alla fine c’erano quei quattro o cinque dipendenti che mandavano, però alla fine assumevamo persone, 50-60 persone, tutte così, solamente i documenti e basta, tutte false assunzioni».
Le false assunzioni non si sarebbero limitatate a 50-60.
«Praticamente, dottò – prosegue Iaquinta rivolgendosi al pm –, mi proposero di trovare documentazione di gente comune per assumerla. Allora io ho iniziato a trovare questa gente. Però che è successo? Da 50 persone arrivavamo a 500 persone. Che succede? Mi disse Pier Paolo con Antonio, dice: “Dome’, questi qua noi li assumiamo e poi arriva automaticamente la disoccupazione all’industria. Tu che fai? Ti metti d’accordo, che dobbiamo dividere l’incasso della disoccupazione, il 10 per cento va a te, il 10 per cento va a Totò – che loro Antonio Bagnato lo chiamavano Totò – e il resto ce la vediamo noi”, e così fu, assumemmo 500 – 600 persone di tutti i paesi della Calabria…».
La cosa funzionava così, dice il collaboratore, le persone da assumere le trovavano gli uomini del clan di Rocca Bernarda. A questa persone Iaquinta spiegava che si trattava di una assunzione finta e che quando arrivava la disoccupazione andava divisa con chi aveva organizzato il tutto. I soldi a Totò Bagnato glielo portava Tommaso Trapasso
Nell’organizzazione di queste assunzioni fittizie, dice Iaquinta, «Gallo era tutto là, Gallo era la mente di tutto ciò, loro si appoggiavano su Gallo, era l’organizzatore quando dovevano aprire una ditta, che poi abbiamo aperto altre ditte, gli abbiamo presentato altri ragazzi di Rocca Bernarda, che li abbiamo trovati noi con Bagnato e abbiamo aperto ditte, siamo andati avanti così».

«Compravano, compravano e poi dichiaravano fallimento»

Un’altra attività che la consorteria aveva messo si consisteva nel comprare merce attraverso queste società fittizie, non pagarla e poi fare fallire la società e fare anche sparire la merce.
«Vi spiego un’altra cosa, per esempio aprivano un magazzino di prodotti per lavare, “ste cose a ca”, detersivi, cose, accumulavano… praticamente compravano da tutti, compravano, compravano e poi dichiaravano fallimento. Per esempio una volta mi ricordo un capannone a Catanzaro Lido, stava pieno zeppo di roba, dopo una settimana non ci stava niente!».

«Il malloppo lo teneva sempre Gallo»

«I soldi principali, u malloppo lo teneva sempre Antonio, Antonio Gallo! Lui era… per esempio, se dovevi aprire una ditta, tu andavi da Antonio: “Anto’, abbiamo trovato questo soggetto qua, è una persona in difficoltà economica, gli diamo un tot e ti fa di presta nome” e lui anticipava i soldi. Lui era il finanziatore», racconta Domenico Iaquinta.
Pier Paolo Caoloiro aveva detto al collaboratore che Antonio Gallo «era un personaggio potentissimo, attaccato con tutte le famiglie di ‘ndrangheta, specialmente con Mario Ferrazzo (capo locale di Mesoraca, ndr), era un intoccabile, era protetto da Mario Ferrazzo e da tutti, era stimato da tutti, perché lui, come diceva Pier Paolo, faceva mangiare a tutti. Hai capito? Faceva affari con tutti!». Iaquinata racconta di regali di Natale inviati alle varie consorterie, «doni di alta classe», panettoni artigianali e scarpe di marca, racconta di prosciutti della Rovagnati mandati agli Arena tramite Tommaso Rosa.
«”Tommy To’, ma che facciamo da questi?”», gli chiede Iaquinta. «“Dome’, Antonio li stima tantissimo agli Arena”», la risposta di Rosa.

«Devo trovare un escamotage per fare capire che io sono vittima della mafia»

Iaquinta descrive Gallo come un uomo accorto, uno che non dava mai appuntamento nel suo ufficio e che si presentava sempre con macchine  “scassate” prese in prestito dai suoi dipendenti. Anche se nella realtà, dice il pentito, aveva una «struttura bellissima» dove vendeva scarpe e abiti da lavoro e «una casa mai vista» con la piscina sul terrazzo. Ma l’obbiettivo di Gallo era quello di mantenere un profilo basso davanti alla legge. Così in una occasione si trovò a chiedere a Iaquinta «“Mi devi bruciare il furgone”». «“Perché – avrebbe rivelato Gallo a Iaquinta e Rosa – ci ho tutta la legge addosso e devo trovare un escamotage per fare capire che io sono vittima della mafia” e così fu fatto! Però là, in quell’occasione lui ci fece vedere bene dove non ci stavano le telecamere, la stradina da percorrere per fare questo determinato servizio…».
«Che senso aveva accendere un furgone?», chiede il pm.
«E mo’ ve lo spiego io il senso. Lui per fare passarsi dalla parte della vittima, come se tipo dice: “M’appicciano u furgone a me, io sono vittima della ‘ndrangheta” e invece u primu ‘ndranghetista era lui!». (a.truzzolillo@corrierecal.it)

fonte:https://www.corrieredellacalabria.it/2022/12/19/il-pentito-e-il-racconto-sulle-false-assunzioni-i-soldi-delle-disoccupazioni-divisi-col-boss-bagnato/