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Il patto fra poteri per il delitto dell’Epifania

Il patto fra poteri per il delitto dell’Epifania

Per le considerazioni già svolte, deve ritenersi provato che l’omicidio di Piersanti Mattarella fu materialmente eseguito da Valerio FIORAVANTI e Gilberto CAVALLINI.

Dalle fonti di prova esaminate è risultato, altresì, che l’omicidio del Presidente della Regione Siciliana fu un omicidio “politico-mafioso”, attuato in virtù di uno specifico “pactum sceleris” intervenuto fra i detti esponenti della destra eversiva e Cosa Nostra.

Quest’alleanza criminosa può apparire singolare soltanto ad un’osservazione superficiale, poiché risulta ormai, da una pluralità di importanti atti giudiziari acquisiti ex art 165 bis c.p.p., e da atti istruttori specifici compiuti nel presente procedimento, un ampio contesto di non occasionali e articolati rapporti tra ambienti del terrorismo “nero”, della criminalità di tipo mafioso e della criminalità politico-economica.

In tale contesto deve ricercarsi l’origine dell’omicidio dell’On. MATTARELLA, anche se si sono potute attingere risultati processualmente validi solo a livello di “Cosa Nostra” (il che, come ampiamente spiegato e dimostrato, non è poca cosa).

Più particolarmente, per quanto riguarda questo gravissimo episodio criminoso, la genesi logica della scelta, da parte di “Cosa Nostra”, di due esponenti del terrorismo “nero” quali esecutori materiali deve essere individuata nella eccezionalità del crimine, le cui motivazioni trascendevano la ordinaria logica dell’organizzazione mafiosa e coinvolgevano interessi politici che dovevano restare assolutamente segreti nonché nel momento storico che questa criminale associazione attraversava per dinamiche interne.

Secondo quanto risulta dalle indagini (v., in particolare l’analisi delle dichiarazioni rese da BUSCETTA Tommaso e da Francesco MARINO MANNOIA), l’assassinio del Presidente della Regione fu deciso nell’ambito del vertice di “Cosa Nostra”, tanto da non suscitare né immediatamente (v. MARINO MANNOIA) né due-tre mesi dopo

(v. BUSCETTA) alcuna significativa in seno alla stessa.

Un’analisi critica e ragionata di tutte le risultanze, però, porta a ritenere che il momento ed il modo di commettere l’omicidio non furono discussi nella sede formale della “Commissione”.

È certo che tutti i componenti della “Commissione” erano consapevoli dell’esistenza di un “problema MATTARELLA”, il che significava la possibilità di un’azione delittuosa contro l’uomo politico, prestando il proprio assenso.

Il “problema” derivava dal fatto che l’azione dell’uomo politico non era rivolta contro l’una o l’altra delle singole “famiglie” (cosa che avrebbe potuto creargli contrasti con una sola “fazione”) ma, proprio per la coerenza e la completezza del disegno politico che la ispirava, rappresentava un pericolo per gli illeciti interessi dell’intera “Cosa Nostra”.

Orbene, l’esistenza di un “problema” in “Cosa Nostra” nei confronti di qualcuno è sempre foriero di gravi conseguenze per il soggetto che lo ha causato: basti pensare, ad esempio, al precedente “problema” rappresentato dal ten. Col. CC Giuseppe RUSSO.

Tanto che, quando questi venne ucciso nell’agosto 1977 (all’insaputa dello stesso DI CRISTINA, di BONTATE e BADALAMENTI), il DI CRISTINA protestò vivacemente con Michele GRECO proprio per la decisione unilateralmente presa ed attuata dai “corleonesi”.

Viceversa, nessuna traccia di opposizione al “problema MATTARELLA” risulta dalle emergenze probatorie: il che non può significare altro se non il fatto che neppure l’“ala moderata” (e primo fra tutti il BONTATE) aveva motivo di opporsi alla risoluzione del “problema”, anche se questo – al momento in cui se ne parlò – non richiedeva un immediato intervento.

Acquisita l’adesione sull’“an” da parte di tutti i componenti la “Commissione”, i “corleonesi” ed i loto alleati si ritennero in grado – allorché giudicarono maturi i tempi in funzione dei loro interessi – di poter eseguire autonomamente il deliberato assunto in precedenza.

Si deve por mente, però, alla fase storica in cui maturò questo problema, giacché questo spiega logicamente per quale motivo, ad esempio, Stefano BONTATE (leader dell’“ala moderata”) ritenne di non fare scoppiare il “caso” in seno alla “commissione”.

Egli, infatti, non avrebbe potuto eccepire che non vi era stato il suo consenso all’uccisione dell’On. MATTARELLA, in quanto, quando il “problema” si era posto, non aveva speso alcuna parola per dimostrare che l’azione politica di quello non doveva condurlo a morte, in altri termini non si era opposto.

Avrebbe solo potuto far rilevare che non era stato interpellato per decidere il “quando” ed il “quomodo”: ma, questa pur possibile condotta – ostavano due considerazioni.

La prima era che egli aveva capito che l’averlo tenuto all’oscuro di questi “dettagli” significava che i suoi avversari lo ritenevano ormai “fuori gioco”; e, a fronte di questa consapevolezza, l’unico modo per contrastarli era quello di scatenare per primo la “guerra”.

La seconda era verosimilmente che, dopo i fatti connessi all’omicidio di Francesco MADONIA da Vallelunga (per i quali egli era stato “salvato”, mentre i suoi alleati – DI CRISTINA, Giuseppe CALDERONE e BADALAMENTI – erano stati severamente puniti), il BONTATE non si sentiva “legittimato” ad invocare il rispetto delle “regole”, che, peraltro, nella sostanza erano state rispettate.

Capiva che l’unico mezzo per opporsi era affidato alle armi. Ma, evidentemente, non riteneva di essere ancora pronto per fare ricorso ad esse.

Questo spiega perché BUSCETTA ha sempre riferito che BONTATE era stato tenuto all’oscuro dalla decisione di uccidere l’on. MATTARELLA mentre MARINO MANNOIA ha detto che il suo capo – nei giorni successivi all’omicidio – “era contrariato”, ma qualche dopo ritornò tranquillo, tanto che alla sua rielezione della primavera 1980 parteciparono tutti i componenti della “commissione”.

L’equilibrio interno del vertice di “Cosa Nostra” era ormai da tempo in fase di progressiva disgregazione, e già tra la fine del 1979 e gli inizi del 1980, il gruppo “corleonese” aveva deciso di forzare la mano alla fazione avversaria, rispettando sempre, però, le “regole” formali di “Cosa Nostra”.

Per cui, la decisione di procedere all’assassinio fu, quindi, adottata e attuata dal gruppo che di lì a poco avrebbe scatenato la “guerra di mafia”, dopo avere però coinvolto nella deliberazione sull’“an” (intervenuta verosimilmente tempo prima) tutti gli avversari “politici” (BONTATE, INZERILLO, RICCOBONO, PIZZUTO). Tale gruppo, costituito dai “corleonesi” e dai loro alleati, non solo non aveva alcuna remora a realizzare un così grave omicidio politico, ma cominciava a seguire logiche “operative” diverse da quelle tradizionali.

Infatti, mentre la componente di “Cosa Nostra” allora facente capo a Stefano BONTATE proveniva da una antica e collaudata esperienza di complessi ed articolati rapporti con il mondo politico (acquisendo la logica e le tecniche proprie di quell’ambiente, caratterizzato dalla ricerca del potere attraverso la realizzazione di equilibri progressivamente più favorevoli ai propri interessi, con una attenta ponderazione dei rischi e dei vantaggi di ogni azione), al contrario, la componente “corleonese” era animata da una ben diversa “filosofia del potere”.

Si proponeva di realizzare la propria violenta e brutale egemonia non solo nello specifico ambito di “Cosa Nostra”, ma anche (su un “secondo fronte”) nei confronti dello stesso modo politico, considerato come una entità, da sottomettere e dominare anche con l’uso della propria potenza “militare”.

In quest’ottica ed in questo contesto storico, si individua con chiarezza la piena coerenza logica della scelta di soggetti criminali estranei a “Cosa Nostra” per attuare l’omicidio.

Era necessario, invero, raggiungere una duplice esigenza di segretezza:

1) nei confronti dei “vertici” tenuti estranei alla decisione “operativa”, poiché questi, altrimenti, avrebbero potuto opporre riserve e dissensi (quanto meno in ordine ai tempi ed alle modalità dell’operazione) e paralizzare così una determinazione irreversibilmente adottata dal gruppo che si avviava, anche mediante quest’omicidio, a conquistare il dominio totale di “Cosa Nostra”;

2) nei confronti di tutti i membri di “Cosa Nostra” di livello inferiore al vertice supremo dell’organizzazione, ancorché appartenenti alle “famiglie” che quel vertice esprimevano, poiché doveva essere assicurata, anche per l’avvenire, una inviolabile segretezza delle motivazioni e dei mandanti dell’omicidio.

Si deve tener presente a quest’ultimo riguardo, infatti, che una “regola” indefettibile di “Cosa Nostra” è quella – tra “uomini d’onore” – di dirsi la verità su “fatti riguardanti altri uomini d’onore”.

Pertanto, laddove fossero stati utilizzati per l’omicidio dell’On. MATTARELLA degli “uomini d’onore” e – per avventura – altri “uomini d’onore” avessero chiesto a questi ultimi notizie sul delitto, i “killers” non avrebbero potuto tacere la verità ed il fatto avrebbe potuto venire a conoscenza di un numero non definito di appartenenti all’associazione.

Questo rischio, invece, veniva assolutamente evitato con l’utilizzazione di soggetti estranei a “Cosa Nostra”, giacché a quelle eventuali domande i “corleonesi” ed i loro alleati avrebbero potuto non dire la verità, senza tuttavia violare alcuna “regola” dell’associazione.

La garanzia di tale duplice obiettivo non sarebbe stata possibile, evidentemente, se – in conformità alla tradizionale “prassi” di “Cosa Nostra” – fossero stati designati per l’esecuzione del delitto “uomini d’onore” appartenenti alle “famiglie” che avrebbero dovuto essere “rappresentate” nell’operazione in ragione delle motivazioni, degli interessi coinvolti e del “territorio” nel cui ambito il delitto doveva attuarsi.

Alla duplice esigenza ora indicata soddisfaceva, invece, perfettamente la utilizzazione di “esecutori” come Valerio FIORAVANTI e Gilberto CAVALLINI.

Costoro infatti:

1) appartenevano ad una realtà, quella dello “spontaneismo rivoluzionario” di estrema destra, assolutamente estranea ai problemi politici e, ancor più, mafiosi della Sicilia;

2) erano forniti dei necessari requisiti di “professionalità” criminale;

3) potevano essere contattati e utilizzati, senza alcuna necessità di renderli partecipi delle motivazioni e dei mandanti dell’omicidio, grazie all’esistenza, nella capitale, di già collaudati rapporti tra ambienti della destra eversiva, della criminalità comune (la c.d. “Banda della Magliana”) e di “Cosa Nostra” (attraverso il CALÒ).

Di tali rapporti – che hanno avuto implicazioni non soltanto criminali ed affaristiche ma anche politiche, e nei quali ha ricoperto certamente un ruolo centrale Giuseppe CALÒ, “emissario romano” dei Corleonesi e dei loro referenti politici – si tratterà più diffusamente in appresso.

Qui, occorre aggiungere che – oltre al soddisfacimento delle cennate fondamentali esigenze – la scelta di “killers” neri offriva ai mandanti del crimine ulteriori non trascurabili vantaggi, poiché avrebbero potuto determinare:

1) in caso di fallimento dell’“operazione”, la riferibilità del delitto ad esponenti della criminalità politica eversiva, anziché a “Cosa Nostra” (in tal senso non va sottovalutato il significato delle scritte contro MATTARELLA intestate a “Terza Posizione” comparse a Palermo prima dell’omicidio e delle prime telefonate di rivendicazione);

2) nel caso di consumazione del delitto, invece, un depistaggio delle indagini e, comunque, una potenziale confusione investigativa , rendendo, a seconda dei casi e di volta in volta, poco credibile l’una o l’altra delle “piste investigative” (cosa che si è in effetti determinata, almeno per un certo periodo di tempo).

Infatti, basta ricordare i problemi ricostruttivi che hanno reso particolarmente complessa l’istruzione del presente procedimento, determinati proprio dalle difficoltà di “lettura” di una “pista nera” apparentemente contraddittoria perché di fatto non gestita secondo le tipologie “eversive”.

Invero, il delitto non soltanto non presentava adeguate motivazioni a sostegno di una plausibile “matrice terroristica”, ma dopo le prime vaghe telefonate di rivendicazione, non fu in alcun modo “gestito” politicamente, come sarebbe stato altrimenti ragionevole attendersi.

Soltanto una complessa e laboriosa attività istruttoria ha consentito, infine, di individuare la corretta “chiave di lettura” della “pista nera”, qui priva di qualsiasi implicazione terroristica o “rivoluzionaria”, e dimostrativa invece di una nuova complessa realtà, caratterizzata dalla progressiva integrazione di settori della criminalità eversiva nell’ambiente politico-mafioso.

In tale contesto, le due entità criminali finiscono col divenire reciprocamente funzionali, poiché la prima si giova della potenza economica e delittuosa di “Cosa Nostra”, con garanzia di assoluta omertà, e “Cosa Nostra”, a sua volta, acquisisce lo sfruttamento di nuove forze di cui servirsi, quando necessario, per perseguire propri interessi ovvero per colpire e distogliere da sé gli apparti istituzionali dello Stato.

Fonte:http://mafie.blogautore.repubblica.it/