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Il paradosso Reggio: bandiera d’Italia, avamposto di mafia

IL Fatto Quotidiano, GIOVEDÌ 5 SETTEMBRE 2019

Il paradosso Reggio: bandiera d’Italia, avamposto di mafia

GIANNI BARBACETTO

C’ è una parte d’Italia che è nota nel mondo per la sua qualità della vita, per la civiltà della sua organizzazione sociale, per le scuole modello d’e c c e llenza mondiale. Reggio Emilia è considerata una “città esemplare”: buona istruzione, ottimo cibo, la città delle biciclette e del l’integrazione ben regolata. La regione attorno è ricca di storia e di passioni civili, lì nacque il primo tricolore italiano, furono organizzati i grandi scioperi agrari di inizio Novecento, prese forma la Resistenza simboleggiata dalla famiglia Cervi, sbocciò lo sviluppo solidale dell’economia cooperativa. Ebbene: lì si è impiantata una forma di mafia feroce e vorace, quella che ruota attorno alla famiglia Grande Aracri della ’ndrangheta di Cutro. Com’è stato possibile questo “grande trauma”, questo “schiaffo impietoso della storia”? Lo spiegano Nando dalla Chiesa e Federica Cabras nel libro Rosso mafia. La ’ndrangheta a Reggio Emilia (Bompiani). Gli autori smontano subito alcuni luoghi comuni, come quello secondo cui “la vera benzina dell’espansione mafiosa sia (alternativamente o insieme all’i gn o ra nza) la mancanza di lavoro, l’asfissia occup az io na le ”, oppure “il degrado sociale e am bi ent al e”. Che cosa è successo nella provincia reggiana? “Una significativa e interessantissima contesa tra due civilizzazioni”, rispondono gli autori, “da un lato il socialismo emiliano, dall’altro il modello cutrese, la cui anima di ferro sta nella identità ’n d r an g he t is t a ”. Non uno scontro, piuttosto una “coesistenza pacifica o addirittura ibridazione”.

MA NEGLI ANNI, nei decenni, in questa “ga – ra beneducata”, una delle due concorrenti, la più agguerrita, conquista posizioni e vince; l’altra s’arrende e si consegna volentieri ai clan: sullo sfondo, una violenza “di norma a bassa intensità”. “Una civilizzazione svuota l’altra”,“le si sovrappone senza farla s co mp ar ir e”. E succedono cose mai viste prima. I candidati sindaci di Reggio Emilia vanno a tenere i comizi elettorali a Cutro, in Calabria, perché una quota dei loro “grandi elettori” abita là. L’agorà emiliana e la politica “di denuncia contro i padroni” ven – gono sostituite dal silenzio e dall’o me r t à . Cambia perfino la religione: dimenticati gli scontri-incontri a Brescello tra Peppone e don Camillo, la processione più importante diventa quella del Santissimo Crocifisso a Cutro, a cui partecipa, nel 2009, alla vigilia delle elezioni amministrative, l’allora sindaco Pd di Reggio, Graziano Delrio. Viene scardinato il “modello emiliano”. Si afferma gradualmente un modello di economia basato su settori ad alta intensità di manodopera e a basso contenuto tecnologico: edilizia, autotrasporti, movimento terra, smaltimento rifiuti, poi ristorazione e divertimento notturno. La prima, appetitosa opportunità è fornita dall’Alta velocità e dalla costruzione della stazione mediopadana per i Frecciarossa. Le aziende dei calabresi conquistano i subappalti, praticano evasione fiscale, false fatturazioni, assunzioni in nero, intimidazioni. Si integrano bene con le coop emiliane. A dimostrazione che “la vera forza della mafia sta fuori della mafia”, cedono via via imprenditori, professionisti, politici, giornalisti, poliziotti. La grande nemica è il prefetto Antonella De Miro, che sforna misure di prevenzione contro le imprese dei clan. Da lei arriva anche Delrio, accompagnato da alcuni consiglieri comunali di origine cutrese, per convincerla che nella comunità dei calabresi ci sono anche tante persone perbene. Leggere Rosso mafia s ign ifi ca sprofondare nell’incredibile paradosso emiliano della democrazia italiana ed essere presi dalla vertigine di una conquista che, più che militare, è stata culturale, economica, politica.