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“Il giorno di dolore che uno ha”, una toccante nota di Sonia Alfano

Il giorno di dolore che uno ha

Esattamente un anno fa il nostro Paese veniva per l’ennesima volta dilaniato da una tragedia annunciata ed evitabile.
Quando quella mattina mia madre mi svegliò al telefono per chiedermi dove fossi non capii bene il senso di quella telefonata. Dopo qualche secondo mi domandò se fossi ancora in Abruzzo o se fossi a Palermo, e alla mia risposta con la quale le confermavo che ero rientrata dall’Abruzzo, mia madre scoppiò a piangere dicendomi che c’erano morti dappertutto e che un terremoto fortissimo aveva distrutto L’Aquila. Chiusi il telefono senza neanche salutarla e andai ad accendere la tv. Le immagini che i vari tg mostravano erano terrificanti: morte, distruzione, gente più simile a fantasmi che vagavano con addoso delle coperte e lo sguardo perso nel vuoto. Erano le stesse immagini di altri terremoti, perché purtroppo lo scenario è sempre molto simile. La morte è sempre morte, il dolore è sempre dolore e la disperazione è uguale per tutti.

Nonostante le immagini non riuscivo a crederci, anche se in quel momento mi ritenevo molto fortunata: infatti il giorno prima ero stata proprio in Abruzzo per la campagna elettorale e la notte tra sabato e domenica dormii in un albergo che andò parzialmente distrutto. Poi la domenica mattina presi l’aereo per rientrare a casa. Già la domenica mattina mentre pagavo il conto dell’albergo chiesi alla reception se per caso c’era stato il terremoto nelle prime ore del mattino e mi fu confermato dicendo che si stavano quasi abituando dal momento che nell’ultimo mese era una cosa abbastanza frequente.

Mentre le immagini andavano in onda chiamai subito il mio ufficio (Dipartimento regionale Protezione Civile Regione Sicilia) e comunicai la mia disponibilità a partire in caso di necessità.
Il mio dirigente mi disse che stavano già organizzando delle colonne mobili per portare aiuti e mi fece anche notare che ero in aspettativa per motivi personali. Confermai la mia disponibilità e revocai con una nota ufficiale la mia aspettativa. Partimmo qualche giorno dopo con destinazione Centro operativo comunale di Tornimparte, a pochissimi km dall’Aquila. Per me e i miei colleghi era l’ennesima missione e già durante le lunghissime ore di viaggio facemmo diverse riunioni operative per coordinare al meglio gli interventi e le suddivisioni dei compiti. Quando arrivammo a Tornimparte lo spettacolo che si presentò ai nostri occhi era il solito: macerie e luoghi ormai privi di qualsiasi segnale di vita. Prendemmo subito le consegne dai colleghi e cominciammo ad affrontare i problemi e le indicazioni di cui avevamo discusso in viaggio. Finimmo di montare il campo e la cucina e all’ora di cena ci presentammo in mensa per conoscere la popolazione e familiarizzare con tutti. Visi già visti a distanza di centinaia di km, sisma diverso ma le stesse lacrime e la stessa disperazione. Quando si fa quel lavoro, non hai orari per dormire nè tantomeno per mangiare; l’unico obiettivo è quello di rispondere a tutti e soddisfare le loro richieste. Quante mammme in fila davanti al magazzino per chiedere un paio di scarpe per i propri figli o un giubbotto pesante! Quante volte i loro occhi esprimevano rabbia e vergogna perchè si sentivano poveri e costretti ad elemosinare. Una sera in fila c’era persino un poliziotto in divisa che cercava delle scarpette per sua figlia. Eppure nonostante le numerose richieste inviate per via gerarchica dalla sottoscritta, al magazzino continuava ad arrivare sempre merce di pessima qualità e di tagli inutilizzabili.

La rabbia della gente cresceva e così grazie a degli amici contattai dei calzaturifici di S. Elpidio a Mare, i quali nel giro di 48 ore mi fecero recapitare 400 paia di scarpe di ottima manifattura e soprattutto delle taglie richieste. Per i vertici del Dipartimento Nazionale la priorità era organizzare le visite dei Ministri e delle varie autorità, la popolazione serviva per fare da cornice ad uno scenario devastato. Ho visto diversi nuclei familiari ricomporsi solo per il  pranzo della domenica perché dislocati in campi diversi e talvolta distanti anche parecchi chilometri. Con i miei colleghi abbiamo preferito dormire nelle tende non solo per essere vicini agli aquilani ma soprattutto per condividere con loro anche i momenti più “freddi“. La temperatura la sera scendeva a -5° e non ci si riusciva a scaldare neanche con tre coperte. La notte spesso ci si svegliava per il freddo, che ti entrava nelle ossa. La mattina più di 200 persone in fila per lavarsi con l’acqua fredda e 4 wc chimici. E la mattina, già alle 6, la giornata ricominciava tra i sopralluoghi nelle zone non ancora raggiunte dai soccorsi e nel tentativo, a volte vano, di risolvere i problemi più banali.

Molte persone, soprattutto le più anziane, non volevano lasciare le proprie abitazioni e addirittura dormivano in auto o in accampamenti di fortuna. Tra loro mi colpì una famiglia particolarmente anziana, i cui componenti dormivano in una vecchia tenda da campeggio e, non avendo brandine, dormivano sui materassi poggiati sull’anta di una porta. Quando i miei colleghi cercarono di convincerli a lasciare quella tenda, vennero al centro operativo per gridare la loro rabbia nei confronti del Governo (mai lamentela fu così sofferta da digerire) e per accusare la solita raccomandazione persino nell’assegnazione delle tende. La moglie del capofamiglia, disabile, urlando disse che al suo vicino di casa, guardia forestale, non solo era stata assegnata una tenda nuova ma anche brandine e coperte. Lei si mise a gridare proferendo insulti di ogni genere e portandosi le mani al volto scappò fuori. Io la inseguii cercando di calmarla e lei tra le lacrime e con il volto nascosto disse che provava vergogna a dover mendicare un letto. Io in quel momento non solo mi sentii impotente, ma provai vergogna per un sistema che in effetti nulla a che fare con la  solidarietà nei confronti del prossimo; avrebbe dovuto fornire non solo conforto ma aiuto a quella gente e invece loro erano solo un anello di una lunga catena. Così rientrai e chiesi ai colleghi di assegnare un kit a quella famiglia. Non che i miei colleghi non volessero, ma gli ordini gerarchici erano quelli: non rendere troppo confortevole la permanenza nelle tende. “Altrimenti non se ne vanno più questi“, furono le parole proferite da Guido Bertolaso.

Per tutta la mia permanenza ho sempre cercato di alleviare le sofferenze di quella popolazione, di lenire il loro dolore per l’aver perso tutto e talvolta ho anche cercato di consolare chi aveva perso un familiare in quella terribile notte. Conservo ancora lo sguardo smarrito di alcune ragazzine che la sera all’imbrunire si precipitavano al posto medico avanzato del campo di accoglienza per la somministrazione di un calmante. Tutte le sere appena faceva buio rivivevano gli attimi di quella notte e avevano crisi di panico. Per loro attimi di improvvisa paura erano diventati pezzi ordinari della loro vita. Quando dopo due settimane lasciai il campo di Tornimparte perchè giunta al termine della mia missione, salutai tutte le famiglie con molta amarezza e tristezza; ad ogni bambino consegnammo delle uova di Pasqua, i genitori corsero a ringraziarmi perchè avevo destinato una delle tende centrali a ludoteca con tanto di animazione.

Quando mi girai per l’ultima volta verso il campo prima di andarmene provai le stesse sensazioni contrastanti che decine di volte avevo già provato al termine di ogni missione: la voglia di ritornare dalla propria famiglia che si scontrava con il desiderio di restare ad aiutare quelle persone e condividere con loro il dolore. So di aver fatto il possibile e anche di più e con me a lavorare per aiutare queste persone, non solo i colleghi del Dipartimento regionale di Protezione Civile, ma soprattutto i volontari delle associazioni siciliane che arrivavano da tutte le province. Ne ricordo una per tutte, l’Avcs di Siracusa.

Ma consentitemi di ricordare un ragazzo straordinario che lavorava con noi e che adesso non c’è più: Antonio Mistretta; a soli 20 anni sapeva perfettamente cosa voleva dire aiutare chi aveva bisogno. Da lui Guido Bertolaso avrebbe potutto imparare quali sono le motivazioni che ti spingono a fare Protezione Civile. Forse per Bertolaso sarebbe stato incomprensibile, perchè Antonio non gestiva appalti e non faceva soldi, ma ha dato la sua vita per due settimane nel tentativo di aiutare e di alleviare le sofferenze altrui.

Con questo ultimo pensiero vorrei ricordare i 308 morti, le migliaia di vittime di quella furia e che a causa dell’incapacità istituzionale continuano ad essere vittime dell’inefficenza, e anche Antonio che ha donato due settimane della sua brevissima esistenza per aiutare questa gente! Voglio ricordare quei momenti con delle parole bellissime di Luciano Ligabue che in quei giorni mi tuonavano in mente:

Quando tutte le parole sai che non ti servon più
quando sudi il tuo coraggio per non startene laggiù
quando tiri in mezzo Dio o il destino o chissà che
che nessuno se lo spiega perché sia successo a te
quando tira un pò di vento che ci si rialza un pò
e la vita è un pò più forte del tuo dirle “grazie no”
quando sembra tutto fermo la tua ruota girerà.
Sopra il giorno di dolore che uno ha.