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Il figlio che uccide per “onore” la madre

Il figlio che uccide per “onore” la madre

di Ludovica Mazza

Perdunatemi, perdunami”. Le ultime parole, le ultime invocazioni di Francesca Bellocco, prima di essere uccisa la mattina del 18 agosto 2013. “Perdunatemi”. Ma a Rosarno le parole non salvano certe donne, sembrano non salvano nessuno.

Quarantatré anni, nipote di Gregorio Bellocco, ergastolano che fu tra i massimi esponenti dell’omonima ‘ndrina del luogo, sposata con Salvatore Barone, aveva una relazione extraconiugale con Domenico Cacciola, membro del clan rivale della Piana di Gioia Tauro.

I panni sporchi si lavano in famiglia, non si dice così? “Perdunami” lo disse al figlio, Francesco Barone e ai tre sicari da lui assoldati per ammazzarla. Con la consapevolezza che l’onta, a Rosarno, non si cancella con il perdono, ma con il sangue. Conscia di quello che sarebbe successo, sequestrata in casa sua, suo figlio come boia.

Un omicidio che ricalca i dettami della ‘Ndrangheta: i traditori devono morire con disonore e senza pietà, ma che segue anche l’ira di un figlio che permeato dal sistema mafioso, sviscera il ruolo di madre da quello di adultera, rendendola una traditrice senza più volto. Come tante prima di lei e probabilmente dopo di lei, vittime di un sistema fondato sulle regole ferree dell’apparenza, dove la vita è inquadrata da costrizioni e obblighi, dove l’etica diventa etica dell’obbedienza e dell’accettazione. Frammenti di storie, di vite, di donne che vengono ingoiate dall’oblio di una terra che vuole dimenticare, che fa del non-sapere una memoria storica. E quando qualcosa riemerge, rivela l’abisso di orrore che scardina ogni convinzione, ogni valore, fino a recidere il legame più antico, più umano: quello tra madre e figlio.

Cosa rimane, infatti, dell’uomo, se un figlio uccide la propria madre? Nulla resiste, se si è mafia. Nulla esiste se si osa uscire dal tracciato che il clan ha previsto, se si è mafia. Nulla persiste quando il sangue si rivolta contro il sangue.

E una sottile ironia di fondo, nella sua tragica vicenda: le parole che non hanno salvato la sua vita hanno permesso di salvare la sua storia e di strapparla al buio che avvolge le sparizioni senza volto della ‘ndrangheta.

Fu un vicino di casa, ex vigile urbano, ad udire le invocazioni di Francesca Bellocco, quella mattina di agosto. Divenuto testimone di giustizia, fece si che Francesco Barone venisse condannato all’ergastolo dalla corte di Assise di Palmi per l’omicidio della madre. Condanna confermata a febbraio 2019, con il rigetto del ricorso presentato dai suoi avvocati. “Un fatto di una gravità inaudita che dimostra come il tessuto della ‘ndrangheta sia al di fuori di qualsiasi sentimento umano da arrivare a un’eliminazione contro natura come questa”. Così il procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, ha commentato il “matricidio”.

Pensate a “Cetta” Cacciola, “suicidata” due anni prima di Francesca. Pensate a Domenico Cacciola, l’amante di Francesca, di cui si sono perse le tracce lo stesso giorno della sparizione della Bellocco. Nessuno della sua famiglia ne ha mai denunciato la scomparsa.

Un’entropia, questa, che sventra il concetto stesso di famiglia, di radice, di casa. Donne tradite e violate nel loro più profondo senso di appartenenza, in un terribile pareggio di conti che rivela l’orrore profondo nascosto dietro l’omertà.

 

8 marzo 2020

fonte:https://mafie.blogautore.repubblica.it/