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Il coraggio di una donna,di una madre e di una giornalista che non china la testa davanti alla mafia e che l’affronta a viso aperto

Nuove Connessioni

Voglio raccontarvi la storia dello scontro tra legalità e illegalità, tra la giustizia e la mafia, tra una penna e una pistola, parlando della vicenda che ha visto come protagonista Federica Angeli, giornalista de La Repubblica. La realtà malavitosa di Roma è rimasta a lungo celata agli occhi e alle orecchie dei più ed è solo grazie a persone disposte al sacrificio come la Angeli, che possiamo finalmente consegnare alla giustizia quanti costringono tante persone a vivere di soprusi e nella paura. È merito di uomini e donne come lei se la speranza rinasce dalle ceneri e dalle macerie che la mafia lascia al suo passaggio.

Lo scorso 13 aprile presso La Repubblica ho avuto il privilegio di intervistarla. Superati i controlli di sicurezza, emozionatissima, la raggiungo. Dopo i convenevoli, diamo inizio alle danze. Prendo posto davanti a lei e posiziono il registratore. Mi sorride, rassicurante e nei suoi lineamenti percepisco serenità e attesa. Mi schiarisco la voce per sciogliere un po’ della tensione e mi preparo all’intervista ad una redattrice di una delle testate italiane più importanti. Le rivolgo un rapido sorriso nervoso e con un po’ di coraggio inizio il nostro colloquio.

Vorrei esordire con questa mia personale riflessione sulla speranza: “i più potrebbero definirla come l’attesa fiduciosa di un avvenimento che pensiamo possa farci del bene. Così descritta sembra però essere proposta come qualcosa che preveda passività e staticità rispetto a quanto sperato, eppure non è così: la speranza è un sentimento che anzi comporta dinamismo e messa in gioco personale, partecipazione, dunque, all’attuarsi di ciò che ci auguriamo. Gandhi, infatti, diceva che dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere.” Per quanto riguarda lei, qual era la speranza che l’ha portata ad intraprendere questa lunga lotta contro la mafia?

Il forte senso di giustizia, che ho da quando sono adolescente, fa sì che nel mio vocabolario l’arrendevolezza non sia contemplata. La speranza, dunque, che sia possibile sempre cambiare lo stato delle cose, soprattutto quelle negative, è ciò che mi muove a quarant’anni compiuti ad andare avanti e che non mi abbandona mai.

Ora che molti di coloro le cui azioni ha denunciato sono stati processati, può dire di essere riuscita a realizzare la sua iniziale speranza? 

Assolutamente sì, anche se non siamo ancora giunti alla fine. La vera questione a proposito dei clan, è il riconoscimento della loro “mafiosità”, parola che nel vocabolario perfino della magistratura non era contemplata fino a qualche anno fa. Nonostante la paura, l’omertà, l’assoggettamento e il controllo del territorio fossero tutte dinamiche ben visibili, sembrava incredibile che non fossero ammessi dai tribunali, dalla società, dalla politica. Quando da una tua inchiesta giornalistica ne nasce una della magistratura, vuol dire che in parte è stato riconosciuto il tuo lavoro sul campo e di questo posso ritenermi soddisfatta, anche se questa è solo una battaglia di una lunga guerra. Il passo successivo è quello proprio del risveglio delle coscienze. Vedo che in gran parte della società, un po’ per rassegnazione, un po’ per paura, un po’ per pigrizia si accetta questa illegalità come qualcosa di normale. E quando ciò accade, non ci si rende conto che si sta facendo un favore a chi sta giocando tutta la sua partita proprio sul timore e sulla stanchezza dei cittadini di lottare contro di loro. La mia speranza, quindi, sarà realizzata quando a Roma si sentirà il desiderio di sollevare la testa malgrado la paura.

Ha subìto minacce e ricevuto insulti a voce, al telefono e sui social da molti ed ha avuto il coraggio di testimoniare sul conflitto a fuoco tra clan al quale ha assistito, senza mai cedere al timore: c’è stato qualche episodio di scoramento tale che l’ha portata ad una momentanea “perdita della speranza”?

Sì, quando nel dicembre del 2014, a casa da sola con i miei tre bambini hanno bussato e, aperta la porta, mi sono resa conto che avevano lasciato della benzina sul pianerottolo. Il fatto che fossero arrivati fino alla porta di casa a quell’ora, di pomeriggio, mi ha fatto pensare: “basta è tutto inutile, vincono loro, non ce la posso fare”. Però poi mi è passato subito.

Come ha trovato quindi la forza per reagire? 

Pensando che vale la pena comunque di combattere fino alla fine, soprattutto per i miei figli, che non potevano vedere arrendevolezza di fronte ad una tale sfrontatezza. Non si può cedere.

Davvero ammirevole. Molti invece si trovano in una condizione di rassegnazione poiché è diffusa la convinzione che la mafia si sia infiltrata a tutti i livelli, soprattutto quelli alti, cui in realtà spettano i giusti provvedimenti. Lo scioglimento del municipio ed il commissariamento sono stati percepiti come una privazione del diritto di voto, proprio perché si pensa che ai vertici ancora una volta ci siano esponenti legati alla malavita. Che ne pensa?

Sicuramente davanti alla lentezza dei tempi della giustizia e alla rapidità con cui invece permeano il territorio questi clan, lo sconforto c’è. Proprio la settimana scorsa ho pubblicato un’inchiesta in cui denunciavo sei attività commerciali di Ostia estorte dal clan Spada ai legittimi proprietari. Sembra incredibile che costoro continuino i loro loschi affari con tutti i riflettori accesi, le prime sentenze, gli arresti e le inchieste giornalistiche. La mafia non si arrende davanti ad un sequestro, però capisco che vicende del genere siano percepite come un fallimento della giustizia.

Nel 2016 al termine di un secondo processo fu stabilita l’assoluzione degli imputati le cui azioni lei stessa aveva denunciato con la sua penna. In quell’occasione Triassi si prese gioco di lei fuori dall’aula, definendola una “giornalaia” ed invitandola a scrivere “la verità”. Che cosa ha provato quel giorno?

Ho pensato che la giustizia con quella sentenza avesse giustificato i loro “sberleffi”, perché in primo grado erano stati condannati per il metodo mafioso, mentre in secondo grado i Triassi sono stati addirittura assolti da ogni accusa: in questo senso la giustizia ha sdoganato la loro arrogante violenza nei miei confronti e quindi sul momento mi sono sentita abbastanza sconfitta.

Anche un po’ delusa?

Sì, ma non sorpresa, perché a Roma da parte della magistratura il 416bis non è mai stato riconosciuto per ciò che riguarda le mafie autoctone, cioè la mafia romana: mai dai tempi della Banda della Magliana c’è stata una sentenza passata in giudicato per 416bis.

Nello stesso anno però è stata insignita dal Presidente Mattarella con il titolo onorifico di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: cosa ha rappresentato e rappresenta tuttora per lei?

Quando la segreteria della presidenza della Repubblica mi ha comunicato che ero stata insignita di questa alta onorificenza sono rimasta sorpresa, perché mi sento una persona assolutamente normale e nel mio immaginario chi riceve questo titolo è speciale. All’incontro con Mattarella mi sono sentita di dirgli che con quel gesto mi stava dando merito prima di tutto di esserci, ma anche di un impegno e di un sacrificio che non pensavo potesse attirare addirittura la sua attenzione. Però sono stata molto soddisfatta.

È stato un bel feedback. Mettiamo per un istante da parte la figura di intrepida e zelante giornalista al servizio della sua comunità e ricordiamoci che lei è anzitutto donna, moglie e madre: quanto è stato difficile far accettare ai suoi familiari tanti rischi e tante tensioni?

Con i bambini, siccome erano troppo piccoli, abbiamo cercato di far apparire tutto questo come un gioco: il mio scopo ultimo è quello di suscitare in loro un senso non di paura, ma di coraggio. Abbiamo trasformato questa tremenda esperienza, una vita sotto scorta e forti limitazioni alla nostra libertà, in un gioco, sulla falsa riga del film di Benigni “La vita è bella”, spiegando loro che la mamma aveva scritto un articolo talmente bello che il giornale per premiarla le aveva dato degli autisti, che sono poi diventati parte delle nostre giornate, perché ovviamente non posso uscire senza i miei carabinieri, grazie ai quali mi consideravano una vip. Adesso invece, crescendo, hanno capito che non si tratta di autisti ma di forze dell’ordine. Almeno però per il momento, siamo riusciti a dare questa idea del “vinciamo noi”, di uno Stato che protegge chi fa le cose fatte per bene: un messaggio non di paura ma positivo.

Di certo saranno orgogliosissimi e fieri di lei: è diventata per molti un simbolo di speranza nella lotta alla mafia e all’omertà. Eppure alcuni le rimproverano il fatto che le scelte da lei compiute abbiano portato in una situazione di pericolo anche i suoi figli e quanti le sono vicini. Come vorrebbe rispondere a queste critiche?

Le critiche sono legittime, ma piuttosto che rispondere preferisco dire che è una scelta che io ho fatto proprio per i miei figli. La notte in cui io ho assistito alla sparatoria che mi vede unica testimone oculare […], quando comunicai a mio marito che sarei andata dai carabinieri perché avevo riconosciuto tutti i soggetti presenti a quel tentato duplice omicidio, lui mi disse “pensa ai nostri bambini”. E io gli risposi così: “è proprio a loro che penso. Immaginiamo questa stessa scena tra dieci anni quando i bambini saranno ragazzi: tornando da una serata con i loro amici queste persone insanguinate per terra tirano fuori la pistola, sparano e invece di prendere Ottavio Spada colpiscono uno dei nostri bambini. Tra dieci anni cosa potrei dire loro? La mamma quel giorno si è rimessa a dormire perché tanto è sicuro che contro la mafia non si vince e quindi tieniti la pallottola?” Io voglio provare, lottando con tutte le mie forze, a consegnare loro un mondo che sia migliore, anche grazie a quello che noi, persone normali, possiamo fare. Come madre non posso esimermi dal lottare. Con la mia penna ogni tanto torno ad Ostia proprio per far vedere che ci siamo. Non so se abbiano ragione coloro che mi criticano, dicendo che ho messo in pericolo la vita dei miei figli, o se ho ragione io che provo a salvarli per sempre dal pericolo. È ancora troppo presto per dirlo.

Ai posteri l’ardua sentenza. Lei rimane un esempio morale. Senza dubbio ama la condivisione e il dialogo con il mondo dei giovani: prende parte volentieri a conferenze e a tutte quelle iniziative che si realizzano con la sua presenza, educando al coraggio e sensibilizzando sull’argomento “mafia”. Io stessa l’ho conosciuta durate un’assemblea studentesca. Che cosa si sente di dire a questa generazione 2.0?

Esattamente quello che dico quando li incontro – preferisco infatti trovarmi vis-a-vis con una platea di ragazzi, piuttosto che andare cinque minuti in televisione: la celebrità non mi interessa. Sottolineo sempre l’importanza di scegliere di stare da una parte piuttosto che dall’altra, nella consapevolezza che anche la connivenza di chi sta contro la legalità avrà comunque delle conseguenze, pur lente ad arrivare. Chi si illude di vivere in un mondo apparentemente simile a quello dei balocchi della favola di Pinocchio, scoprirà invece che è fatto di ricatti, menzogne e schiavitù. Scegliere e informarsi tantissimo permette a voi giovani di avere consapevolezza, anche se mi rendo conto che attualmente non deve essere facile fidarsi dei mezzi di informazione, spesso attaccati e accusati di condizionamento e minati da fake news. Prendete dei punti di riferimento, cronisti di cui vi fidate, leggete quella realtà e filtratela sempre criticamente.

Prima le sue indagini ad Ostia, poi l’inchiesta di Mafia Capitale hanno permesso di portare alla luce una realtà fino ad allora negata. Questi due “smascheramenti” possono essere definiti un duro colpo alla mafia?

Un colpo sicuramente, duro non lo so. Partendo dal presupposto che le mafie si nutrono del buio e del silenzio, accendere i riflettori è per loro un fastidio, perché li mette nella condizione quantomeno di dover agire non spudoratamente, ma di nascondersi e vergognarsi perché qualcuno li osserva. Arrivano le minacce, perché tu illumini un cono d’ombra all’interno del quale si trovano a loro agio. Molti giornalisti, infatti, che nelle terre di mafia sono stati uccisi, sicuramente erano considerati un pericolo. Eppure non capiscono che il giornalista fa parte di una testata e quindi se smetto io, comincia un altro. Ormai le coscienze sono state risvegliate: tante persone avranno ascoltato la mia storia e tanti sanno chi è il clan Spada. Io punto sul fatto che qualcuno voglia continuare quello che ho iniziato.

Rimaniamo in tema. Secondo lei su cosa deve far leva la profonda rivoluzione culturale che potrebbe favorire la definitiva sconfitta della mafia? Un generico ritorno agli antichi mores o una più capillare educazione alla legalità?

Direi entrambe le cose. È fondamentale l’educazione alla legalità, che non dovrebbe riguardare tuttavia solo i ragazzi: le recenti inchieste dimostrano che anche il potere politico e la pubblica amministrazione si sono piegati ai voleri delle mafie. Dovremmo far capire che la sconfitta della malavita organizzata è un gioco di squadra: ognuno può fare la sua parte, prendendo le distanze, condividendo una certa idea, non contribuendo all’arricchimento dei commercianti mafiosi, ma è ovvio che, se non ci sono magistratura e politica, niente potrà cambiare. Ecco perché è importantissima l’educazione alla legalità, che alimenti i sentimenti della dignità e dell’onestà ed inviti ad accontentarsi di vivere nella normalità, senza cercare quello stile di vita “straordinaria” che la mafia può offrire. È forse più complicato e faticoso, ma quanta soddisfazione c’è a non cedere come chi si genuflette in virtù del dio denaro! Questa è la vera sfida. Quando sali sulla bilancia la sera, ci sali da solo: sei tu a sapere veramente ciò che sei. La dignità, secondo me, non ha prezzo e le persone forse un po’ se lo sono dimenticato.

La voglio salutare così: negli ultimi anni l’elettorato si è dimostrato sempre più disamorato nei confronti della politica, cala in modo preoccupante la fiducia nelle istituzioni e nella classe dirigente. Lei che finora ha dimostrato onestà, abnegazione e spirito di servizio non pensa di poter contribuire in modo ancora più fattivo e concreto alla lotta contro la mafia, intraprendendo la carriera politica? 

È una domanda da cento milioni di dollari. È da quando sono adolescente che voglio fare la giornalista: dovrei avere la certezza assoluta, rinunciando al mio sogno, di trovare qualcosa di altrettanto concretamente utile alla società. Oggi posso dirti che ho visto persone sane e moralmente ineccepibili, una volta entrate in politica, rimanere invischiate nei giochi sporchi su cui la politica si regge. Non si tratta necessariamente di corruzione, ma mi risulterebbe insopportabile anche il semplice compromesso, il far finta di non vedere ciò che è al limite della legalità. Se penso oggi di intraprendere questa carriera? No, a meno che non mi dessero carta bianca, garantendomi di poter fare ciò che voglio nella legalità.

Quindi diciamo che è un no per ora?

È un no per ora nella consapevolezza che la politica attualmente questa è. Lavoro per un giornale che mi permette di raccontare le cose per quello che sono senza omettere nulla – in politica invece magari potresti scontentare la tua coalizione. Non voglio rinunciare a niente di quello che sono. Ecco perché il mio no ad oggi è netto.

Giustamente preferisce la lotta alla mafia rispetto alla possibilità di perdere la sua integrità.

Esattamente. Non dico che nella politica siano tutti disonesti, perché le generalizzazioni sono sbagliate, ma ho conosciuto persone perbene e oneste che una volta entrate in quel contesto hanno dovuto mettere da parte un pizzico della loro onestà. Io ad essa non voglio rinunciare. Poi, per carità, nella vita mai dire mai.

Elisa Scorzoni