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Il clan imponeva l’acqua di mare (inquinata) alle pescherie

Il clan imponeva l’acqua di mare (inquinata) alle pescherie

10 Maggio 2022

Di Redazione

INFORMATIVA CERBERUS – I D’Alessandro prelevavano il «prodotto», dove era vietato, e lo rivendevano a barili

La camorra «dopo aver imposto ai commercianti di tutto, dal pizzo all’acquisto del pesce, mozzarella, caffè e gelati, riesce a vendere anche l’invendibile». Lo scrivono gli inquirenti che hanno indagato sul clan D’Alessandro nell’informativa Cerberus. Invendibile che era rappresentato dall’acqua di mare. E non importava – spiegano ancora- se la provenienza era oscura, se prelevata in acque dove era vietata la balneazione, due degli impiegati della ditta riconducibile al clan rivelavano uno dei luoghi dove veniva prelevata l’acqua di mare che successivamente veniva distribuita a tutti i pescivendoli della zona.

Il «prodotto» veniva prelevato all’interno del porto di Castellammare di Stabia, dove vi è un’ordinanza del capo compartimento del porto e del sindaco che fa divieto assoluto di utilizzare acqua di mare raccolta, e là dove non è neanche consentita la balneazione, per lavare o tenere in fresco i prodotti ittici. «Adesso dove sta andando a riempirla?» chiede un dipendente (in una comunicazione intercettata) all’altro che racconta: «Non lo so. Penso sempre all’acqua della Madonna sempre».

L’acqua utilizzata dalle pescherie

Dall’analisi del conversato gli investigatori hanno scoperto diversi dettagli di notevole importanza su questo tipo di commercio. «Le modalità di prelievo, di richiesta e della distribuzione e finanche del costo al dettaglio di ogni singolo bidone d’acqua di mare (circa 5 euro a bidone) consegnato ai pescivendoli locali che utilizzano giornalmente per ravvivare i frutti di mare e per lo scongelamento del pescato» si legge. Del resto, continuano, la pesca è un settore storicamente sottoposto alle «attenzioni» della camorra, che monopolizza l’intero comparto e ha artigliato tutta la filiera, dalla pesca in mare, passando per la vendita al dettaglio fino al commercio del pesce surgelato.

Dalla valutazione delle conversazioni emerge, inoltre, uno «scenario particolarmente grave» giacché «lede la salute pubblica». Infatti, l’epatite A, quella alimentare viene spesso associata al consumo di frutti di mare, che nella maggior parte dei punti di vendita cittadini, vengono sistemati in bacinelle piene d’acqua marina. «Con questo procedimento, che i pescatori chiamano “rinfrescata”, il prodotto – anche dopo il trattamento di purificazione effettuato in uno stabulario – ridiventa infetto, dal momento che cozze, vongole, tartufi, fasolari vengono immessi in bacinelle piene di acqua di mare raccolta in zone dove è vietata la balneazione».

Fonte:https://www.stylo24.it/il-clan-imponeva-lacqua-di-mare-inquinata-alle-pescherie/