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Il Canada è diventato il paradiso dei mafiosi

L’Espresso, Venerdì 20 gennaio 2017

 

Il Canada è diventato il paradiso dei mafiosi

Lo stato Nordamericano è la nuova zona franca della ’ndrangheta globale. Che ricicla, traffica e spara. Mentre i boss sono  al sicuro dalla legge italiana e godono della massima libertà di movimento

DI GIOVANNI TIZIAN

 

Nel milieu di Toronto era conosciuto come “the Animal”. Quelli del suo clan, invece, al corrente di quanto fosse goloso di pecorini, vini e salumi calabresi, preferivano chiamarlo Ciccio Formaggio. Quale sia stato l’epiteto preferito da don Carmine Verduci è ormai superfluo. Lo è da quando un freddo pomeriggio di aprile di tre anni fa la polizia ha trovato il suo cadavere crivellato di colpi. Ucciso in pieno giorno nel sobborgo di Woodbridge su Regina Road, una manciata di chilometri a nord dell’aeroporto di Toronto. Questo, del resto, è sempre stato il regno del padrino d’oltreoceano.

L’Ontario che fa da sfondo alla saga della ’ndrangheta “international” non è quello dei boschi sconfinati e delle casette in legno affacciate sui laghi ghiacciati. Ma è una provincia canadese che mostra il suo lato più oscuro, un crinale sul quale si intrecciano omicidi, cocaina, riciclaggio, appalti, riti arcaici e complicità insospettabili. Una trama nera, con intense sfumature di grigio, che racconta cinquant’anni di mafia calabrese in Nordamerica. Woodbridge è il nuovo quartiere italiano. Villette a due piani, prati inglesi curati alla perfezione, il tradizionale barbecue in cortile. Ciccio Formaggio viveva da queste parti. In una villetta al 167 di Lio avenue, una stradina che affaccia sul Sonoma boulevard. Tutto attorno un dedalo di strade dal sapore made in Italy: via Carmine avenue, via Montebello, Toscana road e persino Villa antica drive. Regina road, la scena del crimine dell’esecuzione di don Carmine, si trova a nove chilometri da qui.

“Ciccio” Verduci, per quanto si sforzasse di parlare in inglese, si esprimeva quasi sempre in dialetto, quello duro e spigoloso dell’Aspromonte. I suoi parenti, del resto, sono originari di Oppido Mamertina, paesone arroccato sui monti noto alle cronache nazionali per l’inchino “forzato” della statua della Madonna sotto il palazzo del capo mafia durante la processione. Se le origini sono necessarie nel curriculum di un mafioso, la cittadinanza canadese lo è ancora di più. A Carmine Verduci, per esempio, ha evitato la galera. A dimostrazione che i miracoli di San Michele Arcangelo, eletto come proprio patrono dagli ’ndranghetisti, spesso non servono: basta un vuoto normativo per evitare la prigione. Quando la procura antimafia di Reggio Calabria ha spiccato un mandato di cattura nei suoi confronti, don Carmine l’ha fatta franca perché il Canada non ha concesso l’estradizione: nel “Criminal Code” il reato di associazione mafiosa non esiste.

E quindi il boss Verduci, pur ricercato numero uno per le autorità italiane, era un cittadino libero di muoversi in terra canadese. Tanto che i killer non hanno avuto alcun problema a pedinarlo e freddarlo alla luce del sole. Per l’antimafia italiana, però, era ancora un latitante. Salvo dalle patrie galere, ma condannato a morte in Canada. In fin dei conti, forse, se don Carmine avesse previsto il futuro avrebbe scelto di costituirsi e rientrare nel Paese di origine da padrino in manette. Resta da chiedersi come sia stato possibile che gli investigatori dell’Ontario non abbiano predisposto neppure un minimo di sorveglianza su un boss di tale livello.

Domanda alla quale difficilmente verrà mai data una risposta. Ciccio Formaggio è ormai un fantasma. Gli eredi al trono della ’ndrangheta canadese hanno già rimpiazzato “the Animal”. Più giovani di lui, ma come lui ricercati dalle polizie italiane. E che in Canada, ovviamente, godono della massima libertà di movimento. Negli ultimi 6 anni il numero dei “rifugiati” delle ’ndrine è salito a 15: dopo l’uccisione di Verduci e l’arresto di un affiliato per reati minori, la quota è scesa a 13. È come se tra Toronto, Montréal, Thunder Bay e Vancouver, esistesse una zona franca per i mafiosi.

La zona franca
E di zona franca ha parlato in maniera esplicita Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia, che davanti alla commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi ha lanciato l’allarme: «Il rischio concreto è quello di garantire a figure di elevato spessore criminale, ricercate dalla magistratura italiana, la libera permanenza sul territorio come in una sorta di zona franca». Nell’agenda di Roberti la questione “’ndrangheta international” è in cima alle priorità. Lo dimostra un suo viaggio recente a Ottawa. «Abbiamo elaborato e firmato un protocollo con delle linee guida per snellire le procedure di cooperazione tra le nostre autorità e le loro», spiega all’Espresso il procuratore. Queste linee guida non sono però vincolanti.

La strada, dunque, è ancora lunga prima di raggiungere un’armonia necessaria per combattere il crimine globalizzato, di cui la ’ndrangheta è protagonista assoluta. Per questo, pur ammettendo che qualche timido passo avanti è stato fatto, il capo della procura nazionale non ha nascosto le sue perplessità ai parlamentari della commissione antimafia: «Siamo insoddisfatti del livello dell’interlocuzione che ci è stato proposto. Ribadisco: quando un capo delegazione viene il primo giorno e il secondo giorno non si presenta senza giustificare l’assenza e lascia che la sottoscrizione del documento sia fatta da un altro rappresentante di livello minore del suo mi sembra un fatto deludente, che può lasciare adito a qualche perplessità per quanto riguarda l’assunzione di responsabilità che quella sottoscrizione al documento comporta per le autorità canadesi».

Un successo nella cooperazione però c’è stato. Dopo quasi un anno di attesa, la polizia canadese ha inviato ai magistrati dell’antimafia diReggio Calabria le intercettazioni effettuate durante l’indagine denominata Ophoenix che ha portato all’arresto di alcuni criminali per droga, per le autorità italiane pezzi grossi della ’ndrangheta globale. In quei nastri c’è la prova, sostengono gli inquirenti, della capacità dei mafiosi calabresi di dirigere il traffico mondiale dell’organizzazione. Le microspie canadesi avrebbero infatti intercettato riunioni in cui i grandi capi dell’Ontario discutevano di dinamiche internazionali: dalla Locride all’Australia, dall’Olanda fino al nord Italia. E ora che le prime intercettazioni sono arrivate saranno utilizzate nei processi istruiti dall’antimafia reggina guidata da Federico Cafiero De Raho. Con la speranza che arrivi in fretta il resto del malloppo giudiziario.

Ricercati e funerali
Martedì 29 aprile 2014, Ore 9 e 30. Le campane della chiesa di santa Chiara di Assisi a Woodbridge suonano a lutto. La bara di don Carmine Verduci arriva puntuale: ad accoglierlo parenti, amici, soldati e luogotenenti. I funerali, come i matrimoni, hanno sempre rappresentato per i clan calabresi il rito che rafforza alleanze e l’occasione di riunire l’esercito di fedelissimi. Valeva per quelli celebrati in Calabria e vale per quelli che si tengono all’estero. Tra i presenti, così come rivela una fonte autorevole dell’antimafia, c’erano molti dei latitanti che la nostra magistratura, insieme al Servizio centrale operativo della polizia, alla squadra Mobile di Reggio Calabria e al Ros dei Carabinieri, inseguono da anni, scontrandosi con il muro di gomma canadese. Oltre al danno – ripetono molti dei detective impegnati nella ricerca – la beffa: mafiosi per i quali l’Italia attende l’estradizione, quindi a tutti gli effetti latitanti, che ostentano la loro arroganza mostrandosi in pubblica piazza per porgere l’ultimo saluto al padrino ucciso. In effetti, è un fatto che neppure nel più sperduto dei paesi ad alto tasso di mafia accadrebbe più. In Calabria e Sicilia, ma anche in Campania, terre cioè addestrate a combattere le cosche, i funerali dei mafiosi sono ormai blindati, inaccessibili e svolti con un manipolo di familiari alle prime luci dell’alba. Le ordinanze dei questori sono ormai prassi consolidata. Sarebbe strano il contrario, come quanto è accaduto a Roma per la cerimonia show dei Casamonica.

In Canada, in tutte le province dall’Ontario al Québec, funziona esattamente come a Roma: funerali liberi per i mafiosi, con tanto di passerella pubblica per chi dovrà prendere in mano le redini della famiglia. L’ultimo funerale celebrato in grande stile è avvenuto il 3 giugno scorso. Questa volta a Montréal. Territorio ostile alla ’ndrangheta, patria della Cosa nostra americana, quella celebrata in decine di pellicole cinematografiche. Le campane della chiesa erano quelle del quartiere Ahuntsic-Cartierville. Il padrino si chiamavaRocco Sollecito, per gli amici semplicemente “Sauce”, come la salsa di pomodoro. Fuori, ferme ad aspettare il feretro, c’erano tre limousine nere con i vetri scuri. Gli uomini con abiti eleganti portavano le corone di fiori bianchi all’interno. Le donne indossavano grandi occhiali per coprire le lacrime, le signore più anziane attendevano l’entrata della bara sui gradini della chiesa a pochi chilometri dalla “piccola Italia” della città canadese. Duecento persone in tutto, in fila per assistere al funerale di don Rocco, ucciso sei giorni prima mentre guidava il suv bianco marca Bmw. Don Rocco “Sauce” era un underboss, in questo caso del clan Rizzuto, la più potente famiglia di Cosa nostra nel territorio canadese. Underboss, in pratica, vuol dire luogotenente del padrino della famiglia mafiosa di appartenenza.

Il nome di Sollecito è finito sulle pagine dei quotidiani italiani prima di Natale. Don Rocco, infatti, viveva a Montréal ma era originario di Grumo Appula. E proprio in questo paesone pugliese in provincia di Bari il questore aveva vietato i funerali nel giugno scorso. Ma nonostante ciò il parroco di Grumo, don Delle Foglie, a sette mesi dall’omicidio e in occasione dell’arrivo del figlio di “Sauce”, in visita al paese d’origine per le feste natalizie, ha deciso di organizzare una messa per ricordare il padrino che non c’è più. Con tanto di manifesti affissi in paese che richiamavano i fedeli a unirsi alla preghiera. Alla fine però il clamore mediatico ha bloccato la cerimonia. La vicenda di Rocco Sollecito è la sintesi perfetta delle differenze culturali tra l’antimafia canadese e quella italiana. Ciò che qui ormai è vietato, al dì la dell’oceano diventa possibile.

Don Carmine e don Rocco – Ciccio Formaggio e “Sauce” – hanno più cose in comune di quanto possa apparire da una prima lettura superficiale. L’uno rappresentante della ’ndrangheta in Ontario, figlio di uno dei cartelli criminali più potenti al mondo chiamato “Siderno group of crime”; l’altro successore di Vito Rizzuto, che è come dire Bernardo Provenzano in Sicilia. Queste due organizzazioni occupano territori diversi ma non troppo distanti. Gli omicidi degli ultimi anni – una ventina ne hanno contati i nostri detective anti clan – potrebbero essere inquadrati in una guerra tra la mafia calabrese e siciliana, il cui potere non è più lo stesso, granitico, di un tempo. Gli ’ndranghetisti hanno scalato posizioni ai vertici del crimine globale grazie alle loro connessioni con i cartelli della droga messicani e colombiani. Cosche che della cocaina hanno fatto il loro core business, trasformando New York nella piazza affari della coca, e i porti di Rotterdam, Anversa e Gioia Tauro negli scali internazionali del traffico mondiale. Non solo: anche la presenza di broker della polvere bianca nei luoghi dove si produce la merce più preziosa al mondo ha fatto salire il rating di affidabilità dei mammasantissima calabresi. Insomma, nel momento in cui il clan Rizzuto di Montréal è in profonda crisi, i padrini venuti dalla Locride potrebbero aver progettato il colpo finale.

C’è un particolare, di cui i nostri investigatori sono a conoscenza, che delinea meglio i contorni dell’omicidio di Verduci. Ci sono intercettazioni telefoniche agli atti di una monumentale indagine chiamata Acero-Crupi – condotta dalla procura di Reggio Calabria guidata da Federico Cafiero De Raho insieme a carabinieri e squadra mobile reggina – che rivelano quanto l’atteggiamento di Verduci stesse provocando fastidio ad altri due capi ’ndrina canadesi, conosciuti come “i Briganti”, anche loro nella black list dei ricercati e tranquillamente residenti dalle parti di Woodbridge. Frizioni interne ai clan dell’Ontario, di cui parlano due indagati intercettati dalle microspie e che persino gli investigatori della polizia riportano in loro recenti informative.

Dissidi, forse alla base dell’agguato a Verduci, scoppiati dalla scoperta di un inatteso legame tra Ciccio Formaggio e uomini dell’odiato clan Rizzuto. Su questa ipotesi stanno lavorando anche i nostri specialisti antimafia. Che, ora, metteranno alla prova la controparte canadese dopo la firma delle linee guida volute da Franco Roberti. “The Animal”, colpito dal fuoco di due padrini emergenti che mirano a prendersi anche il Québec, cioè Montréal, la città dove Cosa nostra è più forte e il tessuto economico più florido. Ecco cosa scrive in un inedito rapporto il servizio centrale investigativo sul crimine organizzato (Scico) della Finanza: «L’analisi degli eventi criminali accaduti negli ultimi anni porta a ritenere che effettivamente il clan Rizzuto si sia pesantemente ridimensionato perdendo quella posizione di egemonia che aveva ai tempi sulla città di Montréal, capitale dello Stato del Québec che è territorio fiorente e ricco di imprese che potrebbe essere entrato nelle “mire” criminali dei citati ed agguerriti clan della ’ndrangheta, già attestati in posizione egemonica nella provincia canadese dell’Ontario».

Il Cartello
«Non è da escludere che l’organizzazione criminale calabrese possa fare quel salto di qualità che la porterà a estendersi in altre province canadesi, forte della forza militare e dell’enorme disponibilità di denaro di cui dispone il Siderno Group of Crime», è l’analisi degli investigatori italiani impegnati in missioni contro le cosche canadesi. Il Siderno group è un vero e proprio cartello criminale, con rami che raggiungono l’Australia. Al pari del più celebre gruppo di Medellín in Colombia, o del Sinaloa in Messico, la sua storia è per certi aspetti una saga del crimine. Prende il nome da un paese della Locride, Siderno appunto, che tra i record negativi ha avuto quello di trovarsi con un ex sindaco arrestato con l’accusa di essere un capo della ’ndrangheta. Da qui provengono, del resto, i ricercati che per i canadesi ricercati non sono.

I nostri detective hanno in mano una mappa precisa delle colonie di ’ndrangheta nel mondo, in particolare in Canada e in Australia. Nei loro rapporti riservati Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia, concordano su un fatto: «Il livello di infiltrazione è tale che risultano operativi almeno 9 Locali (cosche ndr) di ’ndrangheta nell’area di Toronto con un indice di vitalità da richiedere la costituzione di un “Crimine”, ovvero il più alto livello gerarchico dell’organizzazione al fine di dirigere e pianificare le ramificate attività criminali dei Locali, nonché dirimere eventuali controversie interne». Il Ros dei Carabinieri va oltre e nel documento inviato alla procura nazionale antimafia osserva: «I rappresentanti dei clan canadesi sono dediti a importanti operazioni di riciclaggio e reinvestimento di denaro di provenienza illecita per reati commessi anche nel territorio nazionale».

E aggiungono: «Operano in stretta simbiosi con i vertici delle più importanti cosche della ’ndrangheta della costa ionica della provincia di Reggio Calabria. Costanti, al riguardo, erano gli scambi di comunicazioni che avvenivano attraverso emissari inviati per partecipare a riunioni strategiche». La casa madre calabrese, dunque, è sempre la mamma da cui tornare quando le cose si mettono male, quando qualche testa calda crea disordine nel sistema criminale stabilito dalle ’ndrine. Il reparto speciale della Finanza che indaga sulla criminalità organizzata in un suo recente dossier riporta ulteriori dettagli sugli interessi dei boss calabresi: «Contemporaneamente, queste famiglie hanno investito i proventi di tali attività in diversi esercizi commerciali (principalmente bar e ristoranti), situati nel centro di Toronto, ma soprattutto nell’area di Woodbridge. Bar e ristoranti che vengono utilizzati, non solo per riciclare, ma anche come basi logistiche».

Capaci, anche, di riciclare diversi milioni di euro della cocaina nel paradiso fiscale di Turks e Caicos grazie alla complicità di un noto avvocato di Toronto. Il giro di quattrini è stato scoperto solo dopo la cattura di un importante capo cosca calabrese, un vero “principe” della coca, ospite in un lussuoso appartamento con vista sul lago Ontario. Per i finanzieri però il livello di complicità è più profondo. Si annida persino negli appalti pubblici: «Società e personaggi riconducibili alla ’ndrangheta hanno investito anche nello smaltimento dei rifiuti». Pure in questo caso domina il cartello del Siderno Group. Che ha solo cambiato mare e passaporto ma non metodo: dai paesi della costa ionica ha trovato rifugio nelle terre bagnate dall’Atlantico del Nord.