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IL BUCO NERO DEL RICICLAGGIO

 

IL BUCO NERO DEL RICICLAGGIO

Sessanta miliardi di euro: a tanto secondo la Direzione nazionale antimafia sommano le attività bancarie sospette avvenute nel 2015. A fronte di questa cifra enorme, il Fondo monetario internazionale punta il dito contro il sistema di controlli italiano: “Manca il coordinamento necessario a un’attività di contrasto efficace”. L’anello debole della catena sono soprattutto le banche, che la crisi ha reso più fragili ed esposte al rischio di interferenze mafiose: troppo spesso dagli istituti arrivano segnalazioni confuse che non aiutano le verifiche

Lunedì 28 Novembre 2016

di DANIELE AUTIERI


ROMA – I soldi delle mafie nel sistema finanziario italiano. Una montagna di denaro che entra nelle banche e si mischia con quello pulito guadagnato onestamente da milioni di cittadini. La Direzione nazionale antimafia nel corso del 2015 ha segnalato transazioni a rischio riciclaggio per un valore di 60 miliardi di euro, ai quali si aggiungono 63 miliardi di euro bonificati nello stesso anno su conti correnti aperti nei paradisi fiscali.

L’attività di contrasto parte dall’Uif, l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia che ogni anno riceve le segnalazioni di operazioni sospette da tutte le filiali degli istituti di credito, e viene gestita in collaborazione con le forze di polizia, Direzione nazionale antimafia e Guardia di Finanza in testa. Tuttavia, di fronte al volume e al valore economico delle transazioni analizzate (82mila arrivate alla Banca d’Italia nel 2015 per un ammontare di 97 miliardi di euro), è molto complesso risalire all’origine criminale del denaro.

 

Questo denuncia il Fondo Monetario Internazionale al termine di una lunga ispezione condotta nel 2015 e – pur riconoscendo i passi in avanti compiuti dal nostro paese in termini di antiriciclaggio – evidenzia che il maggiore pericolo è proprio nella carenza di un coordinamento tra tutte le attività messe in atto: “L’Italia non ha ancora messo a punto una strategia di contrasto al riciclaggio di denaro e al finanziamento del terrorismo che sia coordinata a livello nazionale e pienamente basata sui rischi individuati nell’Analisi dei Rischi Nazionali (l’Analisi è stata elaborata in Italia nel 2014 dalle autorità coinvolte nella lotta al riciclaggio ed è la prima azione coordinata che analizza minacce e vulnerabilità del nostro sistema n.d.r.)”.

Questo perché le mafie hanno continuato a muovere i loro soldi e a esercitare la loro influenza dentro gli istituti di credito, passando dal riciclaggio tradizionale alle ipoteche assegnate senza garanzie, dagli scoperti milionari concessi a pregiudicati ai prestiti riconosciuti a imprese intestate a prestanome che non hanno mai depositato una dichiarazione dei redditi. Una tendenza in crescita negli ultimi anni, complice la crisi economica che ha reso le banche più vulnerabili.

Una lotta impari. Nel 2015 le segnalazioni di operazioni sospette passate al setaccio dalla Dia nelle varie regioni italiane hanno coinvolto 165.486 persone e 82.315 imprese per un totale di 279.098 operazioni, l’84,1% delle quali per importi compresi tra i 50mila e il milione di euro. E nell’80% dei casi questi soggetti agiscono attraverso le banche. “Negli ultimi anni – spiega il penalista Roberto De Vita, direttore dell’Osservatorio IT e Sicurezza di Eurispes – il fenomeno ha compiuto un salto di qualità. Complice la crisi di liquidità che ha colpito le banche, gli istituti finanziari italiani sono diventati molto più vulnerabili e i livelli dei controlli si sono abbassati. Inoltre, l’elevato numero di segnalazioni, indiscriminate e confuse, inviate alla Banca d’Italia, rende difficile, se non impossibile, il controllo”.

Nel 2007, anno di istituzione dell’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia, le segnalazioni inviate dagli istituti di credito erano 7mila, e in meno di dieci anni hanno subito un boom arrivando alle 82mila del 2015. Ed è anche per questa ragione che il Fondo Monetario Internazionale, all’interno delDetailed Assessment Report elaborato al termine dell’ispezione realizzata nel corso del 2015, riporta tra le “azioni raccomandate” al nostro paese quella di “riconsiderare le attuali risorse investigative, giuridiche e giudiziarie, e garantire che esse siano commisurate alla natura e alla dimensione dei rischi di riciclaggio identificati”.

Piccole banche e professionisti. Guglielmo Muntoni, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Roma (quella che si occupa dei sequestri dei beni) non ha dubbi: “Nel 90% dei sequestri fatti abbiamo riscontrato che prestiti e mutui riconosciuti dagli operatori bancari a soggetti della criminalità organizzata sono dati in malafede”. Una circostanza confermata da una fonte interna alla Banca d’Italia. “Le maggiori irregolarità nella segnalazione delle operazioni sospette – confessa – emergono proprio dalle banche più piccole. La prassi è simile in molti istituti: viene segnalato quasi tutto, ma in modo stringato e confuso, proprio per rendere più difficile l’attività d’indagine”.

La stessa criticità si ripresenta quando entrano in gioco le categorie professionali. Nel 2015 le segnalazioni arrivate alla Banca d’Italia dai professionisti sono state 5.979, in crescita del 150% rispetto al 2014. In effetti, nell’attività di riciclaggio della criminalità organizzata il ruolo dei colletti bianchi è ormai strategico. “È sempre più comune – dichiara il tenente colonnello Gerardo Mastrodomenico, comandante del Gico di Roma (il Gruppo investigativo contro la criminalità organizzata della Guardia di Finanza) – assistere a fenomeni per cui qualificati professionisti mettono a disposizione delle organizzazioni criminali il loro know how, andando così a costituire una vera e propria borghesia mafiosa”.

Sul tema dei rapporti con l’Unità di informazione finanziaria, ogni categoria ha gestito in autonomia il suo contributo. In forza di un accordo siglato nel 2009, il notariato ha ottenuto che il segnalante fosse schermato. In sostanza le segnalazioni inviate agli analisti dell’Uif sono mediate dall’ordine, senza che venga indicato lo studio notarile di provenienza. Secondo l’Ordine dei notai, l’anonimato riconosciuto al segnalante rappresenta invece un’utile soluzione per evitare condizionamenti e favorire le denunce. “Dal 2009 – spiega il presidente del Consiglio nazionale, Salvatore Lombardo – il Notariato è in prima linea nel settore dell’antiriciclaggio perché è stato il primo ordine professionale italiano ad assumere il ruolo di autorità di interposizione in materia, arrivando a fornire il 91% delle segnalazioni tra i professionisti”.

Porte aperte a tutti. L’incapacità del sistema di generare anticorpi apre le porte alla diffusione del contagio. E mentre dal dicembre 2013 all’aprile 2016 i finanziamenti delle banche alle imprese italiane sono calati di oltre 15 miliardi, i muri continuano a cadere per chiunque abbia del contante da mettere sul piatto, dalle organizzazioni criminali più strutturate ai vecchi ferri in cerca di riscatto.

“Nelle investigazioni di criminalità organizzata – prosegue il colonnello Mastrodomenico – capita sempre più spesso di rilevare rapporti anomali e privilegiati tra pregiudicati mafiosi e istituti di credito che si traducono nell’accensione di mutui o apertura di linee di credito anche per diversi milioni di euro non garantiti, cosa che per un cittadino normale sarebbero impensabili”. A conferma di ciò, il 20 aprile scorso, a Roma, il Gico della Guardia di Finanza ha confiscato il patrimonio di Claudio Cannavò, ritenuto dagli inquirenti un criminale di secondo piano sulla piazza romana, ma con qualche rapporto con alcuni pregiudicati calabresi. Gli uomini della Finanza hanno scoperto che Cannavò ha un mutuo presso la Cassa di Risparmio di Civitavecchia, che decide di intestare alla moglie Floriana Celata, casalinga e senza reddito. In un documento interno alla banca firmato dalla donna si legge: “La sottoscritta si impegna a provvedere al pagamento delle rate residue di mutuo. Il pagamento avverrà per cassa, senza copertura di conto corrente”.

Quando il gruppo criminale si struttura di più, i metodi non cambiano. Tra Roma e Napoli la famiglia Righi ha messo in piedi un impero della ristorazione (circa 30 locali alcuni dei quali con fatturati milionari) e – secondo le ipotesi investigative – ricicla il denaro per conto del clan Contini attraverso una rete di prestanome. Uno di questi si chiama Gennaro Cicio: l’uomo non ha mai presentato una dichiarazione dei redditi, ma le banche non si sono fatti problemi a spalancargli le porte: quattro conti correnti aperti presso il Monte dei Paschi di Siena, un conto deposito alle Poste Italiane e diverse carte di credito. I soldi entrano, e tanti, senza che nessuno faccia mai un controllo sui suoi redditi.

Cambiando punti di riferimento, Ernesto Diotallevi è stato sempre considerato il referente della mafia siciliana a Roma. Un pezzo grosso della Banda della Magliana che ha galleggiato negli anni tra truffe e amicizie pericolose, come quella con il faccendiere Flavio Carboni o con Pippo Calò. Lo scorso anno il Gico della Finanza gli ha sequestrato un patrimonio milionario e in primo grado il tribunale ne ha riconosciuto la pericolosità sociale dei soggetti, disponendo la confisca dei beni. L’operazione ha coinvolto anche i figli, Mario e Leonardo, lasciando emergere rapporti opachi con alcune banche: ipoteche affidate senza garanzie, prestiti non saldati e, addirittura, un mutuo fondiario di 10,7 milioni di euro concesso per coprire uno scoperto di conto corrente da 7,8 milioni. Con i fratelli Diotallevi ad essere particolarmente generose sono state Banca Sella e Banca Carim sebbene, come riporta il decreto di sequestro ordinato dal tribunale di Roma, “i redditi dichiarati dai due fratelli Diotallevi fossero del tutto insufficienti e inidonei a far fronte agli impegni assunti”.

In risposta a fenomeni di questo genere l’Associazione che rappresenta le banche italiane alza un muro tra le responsabilità personali dei singoli soggetti e le istituzioni bancarie. In merito a queste ultime l’Abi ribadisce che “le banche italiane sono in prima fila per la legalità e svolgono costantemente un’azione chiave nel contrasto del riciclaggio. In base agli ultimi dati diffusi dall’Unità di Informazione Finanziaria e relativi allo scorso anno, gli intermediari finanziari hanno effettuato quasi 75mila segnalazioni di operazioni sospette”. Oltre all’invio delle segnalazioni, l’Associazione sottolinea la stretta collaborazione attivata con tutte le autorità coinvolte nel contrasto al riciclaggio, dalla Banca d’Italia alla Guardia di Finanza.

Dalla banca al web. Per quanto sia difficile da contrastare, il riciclaggio bancario lascia sempre una traccia. Lo sanno bene le grandi organizzazioni criminali italiane, e in particolare la ‘ndrangheta che, nelle sue forme più evolute, ha iniziato a calcare la piattaforma più sicura del web. È qui che entrano in gioco i tumbler, intermediari costituiti spesso da gruppi criminali che hanno un ruolo centrale nel riciclaggio attraverso la rete. La loro specialità è acquistare bitcoin (o qualunque altro genere di criptovaluta), spacchettarli in più operazioni e rivenderli a clienti puliti. Il bitcoin è la moneta virtuale inventata nel 2009 con l’idea di sostituire la valuta tradizionale. Si scambia sul web e il suo valore ha raggiunto in pochi anni la soglia dei 600 dollari per unità, trasformandola in una forma alternativa di investimento. O in un prezioso strumento di riciclaggio.

“Il passaggio dal denaro contante alla moneta virtuale – prosegue Roberto De Vita di Eurispes – rende i controlli ancora più difficili. Manca infatti lo scambio fisico e tutto si consuma nella rete dove i flussi di denaro diventano anonimi e garantiscono libera circolazione ai proventi dei traffici di droga e del sempre più ricco mercato della pedopornografia”. Attualmente nascono come funghi aziende che fanno compravendita di bitcoin e guadagnano una percentuale sul valore scambiato. È il caso di coinbit.it, sito online recentemente sequestrato dalla Polizia Postale, o di bitdigital.it, tuttora attivo, con sede a Lecce. Su questo portale è possibile acquistare e vendere bitcoin. Per farlo è sufficiente indicare un indirizzo mail (che può essere creato fittiziamente), l’importo dell’acquisto e la scelta del metodo di pagamento, tramite paypal o bonifico, mentre l’identità di chi fa l’operazione rimane segreta.

Questo genere di servizio negli Stati Uniti è già illegale, ma in Italia sopravvive grazie ad una legislazione arretrata e a controlli poco efficienti. Un’organizzazione criminale può quindi acquistare bitcoin con denaro proveniente da attività illecita e rivenderli sui portali dedicati incassando moneta reale e soprattutto pulita. L’operazione è semplicissima, quasi banale. A spiegarla è Francesco Zorzi, specialista di IT security e cyber intelligence: “La cosca X intesta ad un suo prestanome una o più carte prepagate. Questo incaricato le carica di soldi sporchi con un trasferimento di denaro da una piattaforma sicura, come ad esempio Neteller o anche PayPal, poi si collega dal proprio computer simulando di essere in Costa d’Avorio e compra il corrispondente di quella cifra in bitcoin. A questo punto inizia il gioco: una volta acquistati, i bitcoin vengono divisi e venduti a pacchetti su dieci piattaforme differenti. Il mercato è mondiale e gli acquirenti sono ovunque, così se una transazione viene intercettata le altre 9 passano indenni”.

In questo modo in poche ore l’organizzazione ha piazzato sul mercato decine di migliaia di euro sporchi recuperando in cambio una cifra di poco inferiore, ma assolutamente pulita e irrintracciabile. Tanto irrintracciabile che, fino ad oggi in Italia, non c’è stata una sola inchiesta della magistratura che abbia individuato chi si nasconde dietro gli intermediari della criptovaluta.

fonte:http://inchieste.repubblica.it/