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Ignazio Cutrò, l’imprenditore anti racket: “Lo Stato mi ha lasciato solo”. Ecco come questo Statoi tratta chi combatte contro le mafie!

L’imprenditore siciliano Ignazio Cutrò ha denunciato il racket delle estorsioni e vive sotto scorta.
Ma ora chiede che le istituzioni lo aiutino a lavorare di nuovo: “La mafia mi vuole distruggere senza uccidermi”

“Ho subito gli attentati dei mafiosi. Ho denunciato il racket delle estorsioni. Ma ora mi sento solo perché lo Stato mi ha abbandonato”. Ignazio Cutrò, 43 anni, imprenditore edile a Bivona, nel cuore della provincia di Agrigento, non ha paura delle parole. “L’isolamento, quello invece non lo sopporto” dice “In paese ci trattano come i lebbrosi, anche se insieme a casalinghe, professionisti, studenti, altri piccoli imprenditori abbiamo fondato la prima associazione antiracket della zona, che si chiama “Libera Terra”. Aiutiamo chi timidamente inizia a dire no come ho fatto io, siamo già una sessantina di aderenti. Però, che lo Stato mi lasciasse solo, questo non me lo sarei aspettato”. Le denunce di Cutrò hanno portato in carcere otto esattori delle cosche. Da allora l’imprenditore vive sotto scorta. Ma a lui questo non basta.

Cosa succede a Bivona, nel cuore della provincia di mafia più feroce della Sicilia?
“Avevo una piccola impresa di edilizia e di movimento terra con venti operai. Ho dovuto licenziare tutti. Dopo aver subito un attentato al cantiere per la posa di alcune condutture, il 23 maggio 2006, sono andato a denunciare ai carabinieri quello che mi era accaduto. Ma il peggio doveva arrivare il 23 novembre: mi hanno bruciato i camion e gli escavatori. Nuova denuncia, è ovvio. E devo dire la verità: lo Stato mi ha risarcito i danni, 113 mila euro. Così, adesso, ho dodici mezzi tra camion ed escavatori nuovi, ma da mesi sono fermi perché non ho lavoro. I privati non mi chiamano più. E non posso partecipare agli appalti pubblici perché, non potendo pagare i contributi Inps e Inail, non ho i documenti in regola. Il Durc, il documento unico di regolarità contributiva, non mi è stato rilasciato e questo mi impedisce di prendere parte alle gare pubbliche. Lo Stato, che sa cosa ho rischiato e conosce tutte le mie denunce, non mi ha aperto le porte. Eppure avevo chiesto di poter lavorare alla più grande opera pubblica che è stata appaltata in provincia, la strada statale 640 che collegherà Agrigento a Caltanissetta, perché tutti sanno chi sono. Niente da fare”.

Cosa avrebbe potuto fare lo Stato per la sua impresa?
“Semplice: affidarmi un lavoro, anche minimo, e consentirmi di dare a mia volta lavoro ad altri padri di famiglia. La mia piccola impresa non può sopravvivere se ha la mafia contro e se lo Stato non ci aiuta”.

Così ha preso carta e penna e ha scritto al prefetto di Agrigento, Umberto Postiglione…
“Gli ho ricordato che non sono un eroe, che la mafia ha tanti modi per eliminare un avversario. In questo momento, non potendo procedere alla mia eliminazione fisica, si adopera per fare terra bruciata attorno al mio lavoro e alla mia famiglia”.

Al prefetto, che lei ha sempre detto di stimare, ha chiesto un segnale…
“Ho la sensazione che quello Stato in cui ho creduto, e credo che oggi mi consideri soltanto un peso e un costo, ne abbia abbastanza di me. In tempi brevi resterò solo e senza speranza. Al prefetto, che ha dimostrato sensibilità e grande attenzione verso tutti coloro i quali vivono la mia condizione, ho chiesto di trovare gli strumenti per dare una ragione piena alla mia scelta. Per non far vincere quella strategia occulta che mi vuole distruggere senza uccidermi, che vuole dimostrare che mettersi contro la mafia in ogni caso non conviene. Perché se scampi all’eliminazione fisica, muori di inedia e di solitudine”.

Umberto Lucentini

(Tratto da L’Espresso)