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I ribelli di Palermo che sfidano il pizzo

I ribelli di Palermo che sfidano il pizzo

01 NOVEMBRE 2020

Piccoli imprenditori contro la mafia

DI GIUSEPPE PIGNATONE

“Cosa possiamo fare noi, gente normale?” è la domanda che quasi sempre viene posta da qualcuno del pubblico al termine di un dibattito sulla mafia e sui modi per contrastarla. La richiesta, per nulla banale, rinvia ad argomentazioni articolate, che forse si possono riassumere così: per sbarrare la strada alla mafia, ciascuno deve svolgere bene il proprio ruolo nella società.

Una dimostrazione chiara e concreta è venuta poche settimane fa da Palermo, quando 14 fra commercianti e imprenditori edili di Borgo Vecchio, quartiere popolare ad alta densità mafiosa, hanno denunciato i tentativi di estorsione subiti consentendo l’arresto di 20 persone, tutte affiliate o vicine al clan mafioso della zona. Non è la prima volta che, anche a Palermo, su sollecitazione degli investigatori le vittime denunciano o riconoscono chi aveva chiesto loro il pizzo. Ma – come ha rilevato il Comandante provinciale dei carabinieri – è forse la prima volta che un numero significativo di imprenditori si fa avanti spontaneamente per denunziare gli estortori. Anzi, due di loro hanno addirittura registrato con il cellulare i dialoghi con i delinquenti che, dopo le rituali minacce, erano andati a chiedere il denaro accampando la motivazione di raccogliere offerte per la festa del quartiere. Un imprenditore poi, al termine di un serrato dialogo, ha mostrato al boss un foglio in cui comparivano anche le foto di Falcone e Borsellino, dicendogli in faccia: “Queste sono tutte vittime della mafia. Se lo tenga questo foglio, e si vergogni di chiedere il pizzo”.

L’episodio conferma le difficoltà che vive oggi Cosa nostra a Palermo per la pressione costante di polizia e magistratura oltre che per un significativo cambiamento nei comportamenti della società civile. Va sottolineato anche il fatto che gli imprenditori sono stati accompagnati e assistiti da un’associazione antiracket. Infatti, non essere soli è importantissimo in momenti certo non semplici come quello in cui si accusa in tribunale un mafioso; inoltre riduce il rischio di ritorsioni e incoraggia altri a fare altrettanto. La creazione di un circuito virtuoso tra operatori economici, associazioni, forze dell’ordine e magistratura è essenziale per ottenere risultati in questo settore che è di fondamentale importanza non solo per salvaguardare l’economia, la produzione, il commercio, ma soprattutto perché il pagamento del pizzo significa per le cosche il riconoscimento della loro “sovranità” su quel territorio, in aperta sfida allo Stato. Con tutte le cautele del caso, quello che viene da Palermo è quindi un segnale positivo, dopo gli scandali che in tempi recenti hanno minato, quando non travolto, le speranze suscitate da alcune, tra le maggiori, di queste associazioni.

La stessa vicenda induce però anche ad altre considerazioni. Gli organi di informazione danno periodicamente notizia di arresti e sequestri eseguiti, in varie parti d’Italia, grazie anche alla conferma da parte delle vittime su quanto già emerso dalle indagini sulle richieste ricevute da clan mafiosi. Si tratta sempre di commercianti e piccoli imprenditori. Non si è avuta notizia, per quel che risulta, di denunce presentate da imprese di medie o grandi dimensioni. È possibile che queste non abbiano ricevuto simili richieste, neanche quando operano in territori controllati dai clan, ma sorge il dubbio che, come è stato dimostrato in non pochi processi, realtà economiche anche importanti abbiano preferito trovare un terreno di accordo con i boss considerandone il prezzo alla stregua di un normale costo di impresa. Si ritiene in questo modo di minimizzare il danno, ma in realtà si finisce per arricchire le cosche e, a volte, consegnare loro, di fatto, un pezzo di economia.

Certo è che, come ha più volte denunciato la Direzione Antimafia di Milano, non c’è in Procura la fila degli imprenditori che vogliono presentare denunzie contro le cosche di ‘ndrangheta, pure ben presenti nella regione più ricca d’Italia. Così come non c’è in nessuna Procura del Paese la fila per presentare denunzie per fatti di corruzione. Che dire, poi, di quella rete di professionisti e faccendieri che, come emerge dalle inchieste, fanno da intermediari tra i mafiosi e le altre categorie sociali, fornendo gli strumenti e il know how necessari per schermare e riciclare sia il denaro delle cosche sia quello proveniente dalla corruzione. Un esempio? il recente sequestro di immobili lussuosi nei confronti di un’avvocatessa già condannata a sei anni di reclusione per aver riciclato in Svizzera milioni di euro di un boss della camorra, da tempo attivo in Lombardia.

Sappiamo per esperienza che questi intrecci affaristico-criminali emergono di solito dalle intercettazioni, ma le indagini possono fare un salto di qualità se c’è la collaborazione delle vittime o di chi viene a conoscenza di comportamenti opachi e legami inaccettabili nel proprio mondo economico o professionale. Simili casi sono ancora una rarità anche – fatto grave e inspiegabile – nel centro e nord d’Italia, e tuttavia costituiscono esempi preziosi e segnali di speranza. E sono la risposta giusta alla nostra domanda iniziale.

Fonte:https://rep.repubblica.it/