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I numeri drammatici della giustizia in Italia. Che la riforma della prescrizione non migliorerà  

L’Espresso, 14 febbraio 2020

I numeri drammatici della giustizia in Italia. Che la riforma della prescrizione non migliorerà

Il governo si divide sulla legge Bonafede che avrà effetti solo nel 2025 e incide poco sui veri mali della giustizia. Un esempio? Nell’ultimo anno non c’è stato neanche un condannato in via definitiva per concussione e corruzione

DI PAOLO BIONDANI

Basta impunità per evasori e corrotti, basta prescrizione per inquinatori e banchieri ladri di risparmi. Ma solo a partire dal 2025. Ci voleva tutta la scienza politica e giuridica italiana per rischiare una crisi di governo, spaccando la giustizia, su una riforma destinata a produrre i primi effetti concreti, salvo intese contrarie, tra almeno cinque anni. Nell’attesa, il sistema resterà fermo alle statistiche da favola delle ultime annate giudiziarie. In un paese come l’Italia, ad esempio, non si trova nessuno che abbia cercato di incassare o pagare tangenti. Numero di condanne definitive per tentata corruzione o concussione: zero. E mentre i dati aggiornati dell’Istat e della Banca d’Italia quantificano l’evasione fiscale in oltre 190 miliardi, gli sfortunati che stanno scontando in carcere la pena prevista dalla legge per il reato di «dichiarazione infedele», cioè per aver sottratto al fisco almeno 150 mila euro all’anno, sono soltanto otto. Miracoli della prescrizione. Favorita da un’abnorme durata media dei processi, che punisce gli innocenti e salva decine di migliaia di colpevoli.

La prescrizione, spiegano i giuristi, è la scadenza dei termini massimi di punibilità, che provoca «l’estinzione» del caso. L’anomalia italiana è l’altissimo tasso di mortalità dei processi, solo per alcune categorie di reati. Nella fase delle indagini la prescrizione esiste in tutto il mondo: dopo un certo numero di anni, stabiliti in ogni nazione in base alla gravità dei fatti, lo Stato smette di sprecare tempo e risorse per giudicare reati troppo vecchi. Gong, tempo scaduto. Per fatti gravissimi, in tutti i paesi civili esistono reati dichiarati «imprescrittibili», sull’esempio del genocidio: un criminale nazista, se è ancora vivo, si può processare sempre. Ma non si può reclamare la galera a spese dello Stato per un furto del secolo scorso. È una regola di efficienza, non di giustizia: magistrati e forze di polizia devono concentrarsi, nell’interesse di tutti, sui reati più recenti e sui criminali più pericolosi. In Italia, nell’ultimo anno giudiziario (dal luglio 2018 al giugno 2019), questo primo tipo di prescrizione ha azzerato oltre 50 mila fascicoli delle procure, il 42,7 per cento del totale: indagini archiviate in partenza, senza fare i processi, quindi senza troppi rimpianti. La vera anomalia italiana è la prescrizione dopo un processo, addirittura dopo una condanna.

«Siamo l’unico paese del mondo dove la prescrizione parte quando viene commesso il reato, continua in tutti i gradi di giudizio, fino alla Cassazione, e per molti illeciti dura pochissimo», puntualizza l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Edmondo Bruti Liberati, che fu tra i primi a denunciare la massiccia «impunità selettiva» prodotta dalla legge ex Cirielli, approvata dal centrodestra nel 2005 con Silvio Berlusconi premier. L’ex procuratore capo di Milano, ora in pensione, ne parla al presente, perché quelle regole, in apparenza abolite da due successive riforme, sono ancora vive. E secondo gli ultimi dati (anno 2018) hanno incenerito oltre 29 mila processi solo in appello.

Questo significa che dopo anni di indagini e due gradi di giudizio, un processo su quattro si chiude con un verdetto inutile e ingiusto: il reato c’è, l’imputato lo ha commesso, ma ha diritto di restare impunito. Il professor Gian Luigi Gatta, che insegna diritto penale alla Statale, è uno dei pochi giuristi italiani che studiano i sistemi stranieri: «In quasi tutti i paesi, come in Germania, Francia, Spagna, Gran Bretagna, Stati Uniti, la prescrizione si interrompe dopo il rinvio a giudizio e dopo una condanna in primo grado non esiste. Un sistema non identico, ma paragonabile al nostro si trova solo in Grecia e Argentina». Due nazioni che condividono con l’Italia enormi problemi di debito pubblico, evasione fiscale, corruzione e stagnazione economica.

 

L’effetto più vistoso della prescrizione all’italiana è l’impunità per i colletti bianchi. I dati pubblicati in queste pagine documentano che in un paese con 60 milioni di abitanti e innegabili problemi di legalità, sono poche decine i condannati definitivi per reati di corruzione, evasione o frode fiscale, disastri ambientali, truffe finanziarie, illeciti bancari, omicidi colposi (cioè morti sul lavoro, vittime di malasanità o dei pirati della strada). Una cifra tra tutte: nella patria degli ecomostri si contano solo 20 colpevoli di abuso edilizio. E ancora meno sono i condannati che scontano davvero la pena della reclusione prevista dalla legge, come mostrano le nostre tabelle sulle carceri. Da notare che i dati ufficiali del Dap, aggiornati al 6 febbraio, non riguardano solo i colletti bianchi, ma tutti i detenuti per quel tipo di reato, che spesso rispondono anche di altre accuse: il boss della cocaina che corrompe l’agente, l’inquinatore che manda l’azienda in bancarotta, il mafioso che froda il fisco e ricicla i soldi.

Di fronte a migliaia di vittime che restano senza giustizia, dal caso Eternit ai processi per i terremoti, nel 2017 è entrata in vigore, dopo anni di parole, la prima riforma, intitolata all’allora ministro Andrea Orlando, ma basata sui lavori di una commissione creata dal suo predecessore Paola Severino, che è un’illustre avvocata. Una soluzione di compromesso: la prescrizione rimane, per evitare processi infiniti, ma viene sospesa fino a tre anni per i condannati in primo e secondo grado. Nel 2019 il contratto di governo tra Cinquestelle e Lega ha rincarato la dose, inserendo nella legge spazza-corrotti uno stop anticipato, rinviato però di un anno: basta prescrizione dopo la sentenza di primo grado. È la riforma intitolata all’attuale ministro Alfonso Bonafede, in vigore dal primo gennaio 2020 e subito tornata in discussione. Perché si applica anche agli assolti. E dunque fa riesplodere il problema dell’eccessiva durata dei processi: la media nazionale è 1.725 giorni, compresi i riti abbreviati e immediati. Con tempi indecenti nelle corti d’appello: 840 giorni, in media. Con grosse disparità geografiche: a Milano e Palermo l’assolto in primo grado aspetta meno di un anno per la sentenza d’appello; a Roma e Venezia più di tre anni; a Napoli almeno quattro.

 

Di qui l’insurrezione dell’Unione degli avvocati penalisti e dei loro referenti politici, cioè l’intero centro-destra allargato a Italia Viva: un processo interminabile è già una pena, quindi la prescrizione non si tocca. Mai. Nemmeno per i soli condannati in primo e secondo grado, come ora propone il nuovo «lodo» del governo giallorosso. Queste polemiche tra opposte tifoserie stanno oscurando le analisi dell’ufficio studi della Cassazione e dei giuristi non schierati. Che il professor Gatta riassume così: «La durata dei processi è una patologia, ma non si può curarla con un’altra patologia come la prescrizione delle condanne». Bruti Liberati fa notare che «i tempi dei giudizi sono da anni in calo lento, ma costante, e si potrebbero ridurre notevolmente con diversi piccoli interventi legislativi di cui nessuno parla». Un esempio, segnalato da molti presidenti di corti d’appello, da Roma a Venezia: i giudici sono oberati da «migliaia di processi contro imputati assenti, irreperibili, con notifiche da consegnare a mano, continui rinvii e rischi di nullità». Il presidente della Cassazione, all’apertura dell’anno giudiziario, ha segnalato anche l’assurdità dei «tempi di attraversamento»: i processi sono ritardati da regole ottocentesche di «formazione dei fascicoli, trasporto manuale da una corte all’altra, avvisi e notifiche ripetute». Problemi pratici, aggravati dalla «cronica carenza di personale giudiziario», indispensabile per gestire i processi: i cancellieri dovrebbero essere 43.304, ma in servizio (nonostante le prime 625 assunzioni degli ultimi vent’anni decise nel 2018) ce ne sono 10 mila in meno, con un’età media di 54 anni.

 

Nel frastuono politico sulla prescrizione sta passando sotto silenzio un’altra questione centrale: qualsiasi limite o blocco della prescrizione non si può applicare subito, a tutti i processi in corso, ma vale solo per i reati futuri. Anche questa è una particolarità nazionale, consacrata dalla nostra Corte Costituzionale. Mentre in quasi tutta Europa vale il principio opposto: la prescrizione è una regola processuale, quindi una riforma può avere effetti immediati. Invece in Italia restano tuttora valide le vecchie regole della ex Cirielli: impunità sicura dopo cinque anni per i reati minori come le contravvenzioni (che comprendono gran parte dei reati ambientali e abusi edilizi), dopo 7 anni e mezzo per corrotti, evasori e criminali economici. A conti fatti, le prime sentenze definitive senza prescrizione si vedranno, dopo tre gradi di giudizio, nel 2025.

 

In questa situazione molti tecnici del diritto si sentono presi in giro. Luca Santamaria è un importante avvocato milanese che ha difeso grandissime aziende segnalandosi per indipendenza e rigore: come studioso, pubblica su Internet dotte riviste giuridiche gratuite. Ed è scandalizzato da un dibattito «falso»: «Non c’è alcun motivo razionale per cui debba andare in prescrizione una condanna di primo grado, tantomeno se confermata in appello. Ma qui nessuno dice tutta la verità: la prescrizione fa comodo a molti. A noi penalisti, certo, perché qualsiasi avvocato decente conosce i sistemi per allungare i tempi dei processi e ritardare o evitare la condanna del cliente che paga la parcella. Ma conviene anche a molti magistrati. Un pm che fa indagini da circo non è costretto a mostrare in tribunale le prove che non ha. E per i giudici pigri è molto più facile applicare la prescrizione che motivare una sentenza di condanna o assoluzione. Il vero problema di cui non si parla è lo scollamento drammatico tra giustizia e società. La prescrizione non ha nulla a che fare con il garantismo vero, con quelle regole serie, universali, che dovrebbero proteggere gli innocenti da condanne ingiuste. La nostra giustizia è debole con i forti e forte con i deboli».

 

I dati statistici illuminano anche questo lato oscuro del sistema italiano: sentenze-lampo per migliaia di accusati per reati di strada. In meno di tre mesi si è arrivati a condanne definitive per 5.781 arrestati per droga. E 7.995 accusati di furto. Nello stesso intervallo di tempo, la giustizia è riuscita a punire solo 3 colpevoli di peculato, 8 di corruzione, nessuno per concussione. Mentre per una massa di circa 28 mila condannati definitivi per furto o droga, i tre gradi di giudizio sono durati meno di un anno. Come funziona il processo-lampo per i reati di strada lo racconta l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone: «L’imputato viene arrestato in flagrante e processato per direttissima. Il difensore d’ufficio viene avvisato la sera con una telefonata di un agente che comunica solo data e ora dell’udienza, in genere l’indomani mattina. Il tempo medio di consultazione del fascicolo è ridottissimo: nel 25 per cento dei casi, a Roma, è stato di cinque minuti». Durante il processo, velocissimo, il presunto innocente capisce poco o nulla, perché ha problemi di droga, vita da sbandato, istruzione minima, povertà cronica e magari è straniero (con interpreti che traducono una parola su dieci). E molte condanne diventano definitive subito, perché nessuno le impugna. E la stessa ex Cirielli che favorisce i colletti bianchi, vieta sconti di pena per i condannati del passato: in galera.

 

 

I dati statistici illuminano anche questo lato oscuro del sistema italiano: sentenze-lampo per migliaia di accusati per reati di strada. In meno di tre mesi si è arrivati a condanne definitive per 5.781 arrestati per droga. E 7.995 accusati di furto. Nello stesso intervallo di tempo, la giustizia è riuscita a punire solo 3 colpevoli di peculato, 8 di corruzione, nessuno per concussione. Mentre per una massa di circa 28 mila condannati definitivi per furto o droga, i tre gradi di giudizio sono durati meno di un anno. Come funziona il processo-lampo per i reati di strada lo racconta l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone: «L’imputato viene arrestato in flagrante e processato per direttissima. Il difensore d’ufficio viene avvisato la sera con una telefonata di un agente che comunica solo data e ora dell’udienza, in genere l’indomani mattina. Il tempo medio di consultazione del fascicolo è ridottissimo: nel 25 per cento dei casi, a Roma, è stato di cinque minuti». Durante il processo, velocissimo, il presunto innocente capisce poco o nulla, perché ha problemi di droga, vita da sbandato, istruzione minima, povertà cronica e magari è straniero (con interpreti che traducono una parola su dieci). E molte condanne diventano definitive subito, perché nessuno le impugna. E la stessa ex Cirielli che favorisce i colletti bianchi, vieta sconti di pena per i condannati del passato: in galera.

Nei rari episodi di condanne eccellenti, invece, i processi sono una corsa contro il tempo per l’accusa. Nel caso simbolo di questi mesi, Roberto Formigoni, l’ex governatore della Lombardia, ha avuto la sfortuna di essere processato dall’efficiente giustizia milanese. Qui l’inchiesta nasce per caso, nell’estate 2011, dall’improvvisa bancarotta dell’ospedale San Raffaele, esplosa con il suicidio di un manager. Indagando sui debiti, la procura scopre che quella struttura privata e un’altra fondazione sanitaria (Maugeri) erano fabbriche di fondi neri, versati sui conti esteri di due mediatori ciellini (almeno 60 milioni) che poi riversano contanti e regali milionari a Formigoni, in cambio dei soldi pubblici della sanità. Nei primi atti d’accusa, i pm contestano al parlamentare di Forza Italia tangenti «continuate dal 1997 al 2011». Le indagini durano due anni. E la prescrizione continua ad annientare reati. All’udienza preliminare sopravvivono solo le accuse successive al 2007. Formigoni viene rinviato a giudizio nel 2014 per aver incassato «oltre 6 milioni». Il tribunale, nel 2016, lo condanna a 5 anni e mezzo. La sentenza d’appello, nel settembre 2018, aggrava la pena. Il verdetto della Cassazione arriva nel febbraio 2019: la prescrizione cancella altri reati, per cui la condanna definitiva scende a 5 anni e 10 mesi. A conti fatti, sarebbero bastati altri quattro mesi di ritardi per annientare tutte le accuse. Invece, per una volta, il politico corrotto finisce davvero in carcere. Cinque mesi dopo, Formigoni è già fuori: può scontare la pena a casa sua.

La ex Cirielli, nel 2005, fu definita «legge ad personam» perché ha consentito all’allora premier Berlusconi, in particolare, di ottenere svariate prescrizioni (ad esempio per corruzione dell’avvocato Mills). La sua prima e unica condanna è diventata definitiva a un passo dalla prescrizione, nell’agosto 2013. I giudici di tutti i gradi spiegano che la frode fiscale di Berlusconi consiste nell’aver nascosto, sui conti esteri delle sue società offshore, almeno 368 milioni di dollari. La prescrizione però ha lasciato sopravvivere solo l’ultimo pezzo di reato: 7,3 milioni. Condannato a quattro anni tra le proteste di mezzo parlamento, il leader di Forza Italia è rimasto libero, affidato ai servizi sociali, e ha risarcito al fisco 10 milioni in tutto. Un trentaseiesimo del bottino.

Una delle maggiori novità delle riforme è proprio la fine della prescrizione spezzettata: di fronte a una serie di illeciti, i giudici possono considerarli un unico «reato continuato». E calcolare la prescrizione a partire dall’ultimo. Per gli imputati eccellenti, però, se ne parla dopo il 2025. Intanto continua a valere la ex Cirielli. Che il governo Renzi annunciò di voler cancellare, con la commissione Gratteri, seguendo due esempi stranieri: basta prescrizione dopo la condanna di primo grado; e sconti di pena per i processi troppo lunghi. Oggi il leader di Italia Viva sposa invece la linea berlusconiana: la prescrizione è sacra, perfino dopo la condanna in appello. A questo punto non resta che misurare i tempi del procedimento più criticato dall’ex sindaco di Firenze (anche se non risulta indagato): i soldi privati alla fondazione Open. Un esercizio di scuola, viste le polemiche. I reati finora ipotizzati vanno dal 2016 al 2018. Le indagini sono iniziate solo nel 2019. E a Firenze un processo penale dura, in media, molto più che a Milano: in tribunale 435 giorni, in appello altri 878. A conti fatti, metà delle accuse già si avvia verso la prescrizione. Quindi anche il futuro processo, se mai si farà, sarà una corsa contro il tempo di berlusconiana memoria. Forza Italia Viva!