Chi ha ucciso Giovanni Falcone
Giorgio Bongiovanni 22 Maggio 2021
I mandanti esterni della strage di Capaci e le false passerelle degli ipocriti potenti
Ancora un giorno e sarà il 23 maggio. Già dal mattino vedremo sulla Rai le false passerelle (come troppo spesso è avvenuto in questi anni di commemorazioni ufficiali) di figure istituzionali, politici, addetti ai lavori, tutti pronti a seguire il solito spartito di retorica e di ipocrisia.
Uno spartito che vede anche la partecipazione di quelle figure oggi pronte a mettersi in prima fila per ricordare Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della loro scorta (Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo), ma al tempo tutt’altro che amiche del magistrato palermitano. Soggetti che lo hanno accusato, denigrato, delegittimato portandolo a quell’isolamento che uccide ancor prima di una bomba. Per non parlare della presenza, tra gli scranni del parlamento, che nel corso del tempo ha visto anche personaggi condannati per favoreggiamento o concorso esterno alla mafia. Basti pensare all’ex Presidente della Regione Totò Cuffaro o all’ex senatore Marcello Dell’Utri (fondatore di Forza Italia che, lo dicono le sentenze, fu “mediatore di un patto tra Cosa nostra e Berlusconi”).
E personalmente dispiace vedere come la Fondazione Falcone, presieduta dalla sorella del giudice, Maria Falcone, che cerca ancora la verità completa sulle stragi, si sia prestata spesso a questo gioco.
Non che fare memoria non abbia importanza, ma essa diventa futile se non si ci si interroga sul perché e chi ha voluto la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
E nei discorsi istituzionali che annualmente vengono fatti tra il 23 maggio ed il 19 luglio il silenzio è imbarazzante.
A quasi trent’anni di distanza dalle stragi del 1992, quelle di Capaci e di via d’Amelio, non è più ammissibile ritenere che quei delitti furono frutto della sola mente perversa di Totò Riina e dei suoi sodali. Non è più ammissibile affermare che dietro a quelle stragi vi era solo l’interesse di Cosa nostra.
Le prove acquisite, i processi, le inchieste, le testimonianze, i frammenti di verità fin qui ottenuti grazie all’impegno di abili ed indomiti magistrati ed investigatori che hanno raccolto il loro testimone nella lotta al Sistema criminale, fanno emergere in maniera chiara ed evidente che vi furono mandanti esterni dietro le stragi.
Fatti che si annidano dietro ai misteri, gli interrogativi ed inquietanti verità taciute e nascoste.
Di questo abbiamo voluto parlare nel nostro tradizionale convegno che, a causa del Covid e dell’emergenza sanitaria, abbiamo potuto svolgere solo via web. Abbiamo voluto ricordare chi era Giovanni Falcone, su cosa aveva concentrato il proprio lavoro, su quali verità stesse arrivando assieme al collega Paolo Borsellino (ucciso dopo appena 57 giorni in via d’Amelio) e, soprattutto, cosa si nasconde dietro “l’Attentatuni” del 23 maggio.
Cosa nostra aveva i suoi interessi e le sue vendette da consumare nell’eliminazione del magistrato. Il maxi processo che era giunto alla sua consacrazione il 30 gennaio 1992, con le condanne all’ergastolo per la Cupola mafiosa era un motivo valido, ma non l’unico. Come direttore dell’Ufficio affari Penali Giovanni Falcone stava alzando il livello di contrasto al Sistema criminale, prevedendo nuove leggi (che saranno approvate dal Parlamento solo dopo la sua morte e quella dell’amico fraterno Paolo Borsellino) e nuove strutture investigative come la Procura nazionale antimafia.
Quando Falcone cambiò le “regole del gioco” in Cassazione, con l’introduzione della regola della turnazione evitando così che il maxi finisse assegnato al giudizio del giudice Carnevale, detto “ammazzasentenze”, il Capo dei Capi Totò Riina capii ciò che stava accadendo.
Grazie alla sua genialità ed il suo carisma Falcone era riuscito in qualche maniera a “condizionare” in maniera positiva l’operato di un governo che nei suoi rappresentanti, per assurdo, vedeva figure che con la mafia avevano stretto relazioni pericolose. Ed è noto da decine e decine di collaboratori di giustizia che Cosa nostra aveva votato prima la Democrazia Cristiana e poi i Socialisti, che in Giulio Andreotti e Claudio Martelli avevano figure di primissimo riferimento.
Doveva essere suo il ruolo di Procuratore nazionale antimafia e con Paolo Borsellino a Palermo, che sarebbe divenuto un riferimento fino anche ad essere nominato Procuratore capo al posto di quel Pietro Giammanco, tanto chiacchierato ed amico di politici mafiosi, per Cosa nostra, e non solo, sarebbe stata la fine.
Ed altrettanto devastante sarebbe potuto essere il loro impatto in una seconda ipotesi.
Se fosse rimasto in vita sarebbe anche potuto essere lui il ministro della Giustizia che avrebbe preso il posto di Claudio Martelli, dimissionario dopo lo scandalo sul conto protezione. Con lui in via Arenula ed eventualmente Paolo Borsellino alla Procura nazionale antimafia, che nell’ottica di Falcone avrebbe avuto un ruolo ben maggiore di quello che ha oggi e che non supera i limiti del coordinamento tra le attività di indagine delle Procure, è facile pensare che la lotta alla mafia sarebbe stata ben altra cosa rispetto ad oggi.
Lo diciamo con cognizione di causa.
Di fatto il giudice Falcone, con il proprio operato, già allora stava rompendo il rapporto tra la mafia e quella politica collusa e connivente che si era sviluppata negli anni. Falcone aveva compreso l’esistenza del “gioco grande” e delle “menti raffinatissime” che si muovevano anche nei gangli dell’economia, delle strutture segrete, dei servizi deviati e delle massonerie.
Di esse aveva parlato in un’intervista a Saverio Lodato, nostro editorialista e al tempo corrispondente de L’Unità. Un’espressione che usò immediatamente dopo il fallito attentato all’Addaura. E Lodato, nel recente passato intervistato da Andrea Purgatori per Atlantide ha rivelato che Falcone, al tempo, fece dei riferimenti ad un appartenente ai servizi di sicurezza. E sempre Lodato raccolse altre considerazioni di Falcone su due massimi rappresentanti della lotta alla mafia a Palermo: l’ex capo della Mobile Arnaldo La Barbera e l’ex Alto Commissario Domenico Sica. “Di fronte a questi due nomi – ha raccontato Lodato lo scorso 6 maggio ad Atlantide – mi disse testualmente: ‘Sono venuti a Palermo per fottermi’”.
Tutti argomenti che devono essere affrontati e ricordati, se si vuole riannodare i fili del tempo e cercare di comprendere cosa si nasconde dietro ai fatti che si sono verificati nei primi anni Novanta e che ancora oggi restano attuali.
Giovanni Falcone aveva già fatto arrestare l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, non solo perché legato a doppio filo con Riina, Provenzano ed i corleonesi, ma anche perché ne aveva capito la funzione determinate di raccordo con altri ambienti, politici, economici e massonici, fin dentro la banca del Vaticano. Mettendo alle strette Ciancimino Falcone avrebbe anche potuto farlo parlare di quei legami ed anche di quei rapporti alti ed altri che da sempre legano la mafia con i poteri deviati dello Stato. Giovanni Falcone nel 1989, ancor prima che ne fosse rivelata l’esistenza al grande pubblico, stava indagando su Gladio, cioè in quella organizzazione paramilitare che si scoprirà essere stata manovrata dalla CIA.
Il dato è emerso nell’ambito dell’inchiesta che la Procura di Palermo prima, e la Procura generale poi, hanno svolto sulla scomparsa dell’agente Antonino Agostino, ucciso assieme alla moglie Ida Castelluccio il 5 agosto del 1989.
L’agente del commissariato San Lorenzo sarebbe stato impegnato in un delicatissimo servizio di scorta nei confronti dell’ex estremista di destra, Alberto Volo, che tra il 28 marzo ed il 18 maggio, veniva interrogato in gran segreto in Procura proprio da Falcone.
Interrogatori che finirono all’interno degli atti processuali per i delitti Mattarella, Reina e La Torre in cui si parla della pista dei killer neofascisti per l’omicidio del presidente della Regione.
Volo rivelò appunto di aver fatto parte, dal ’67 all’80, di una organizzazione segreta che si chiamava Universal Legion ma che coincideva perfettamente con la struttura paramilitare Gladio-Stay Behind. Affermazioni di grandissimo valore tenuto conto che temporalmente vengono fatte prorio nel tempo del fallito attentato all’Addaura.
Ci sono poi le parole di Falcone. Nei diari pubblicati post mortem su “Il Sole 24 Ore” dalla giornalista Liliana Milella non solo si evinceva in maniera chiara tutta l’amarezza del giudice per i continui “bastoni tra le ruote” che venivano frapposti nel quotidiano svolgimento del proprio lavoro di procuratore aggiunto con delega di tutte le inchieste su Cosa nostra, ma comparivano anche riferimenti a Gladio.
Ulteriori tracce si sarebbero potute trovare proprio negli appunti di Giovanni Falcone se non fosse che qualcuno (certo non uomini di Cosa nostra) riuscì a manomettere i supporti informatici di Falcone (un personal computer Olivetti che si trovava presso il suo ufficio del Ministero di Grazia e Giustizia e l’agenda elettronica Casio SF 9000). Un dato emerso grazie alle testimonianze dei consulenti Gioacchino Genchi e Luciano Petrini che analizzarono i supporti informatici. Davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta, durante il processo nel 1996, parlarono di memorie cancellate, di file modificati e rieditati nel periodo successivo al 23 maggio. E coincidenza vuole che tra i documenti “rieditati” vi fossero anche le sintesi delle schede di Gladio.
Possibile che Falcone, le cui intuizioni sul fenomeno mafioso sono pionieristiche e più che mai attuali, avesse già allora intuito l’esistenza di un’associazione occulta e segreta pilotata da “manine” straniere, operante nel nostro Paese in maniera illegale? Possibile che proprio quell’indagine segreta potesse essere uno dei motivi che hanno portato alla condanna a morte del magistrato? Il legame con Borsellino
Ma c’è dell’altro. Perché la morte di Falcone, in qualche modo, si lega indubbiamente con la successiva morte di Paolo Borsellino. Quest’ultimo, il 25 giugno 1992, in un intervento particolarmente intenso ed emozionante a Casa Professa, non solo aveva ricostruito il lento e costante isolamento di Falcone, fino al tradimento di “qualche Giuda”, ma si espose come testimone chiedendo di essere sentito dai magistrati di Caltanissetta che indagavano su Capaci.
“Sono testimone – disse – perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita”. Di quali confidenze parla Borsellino? Possibile che Giovanni Falcone abbia parlato con lui anche delle indagini su Gladio e sulle “menti raffinatissime”?
O avevano ragionato assieme di quel che stava accadendo allora, dopo la morte di Salvo Lima (emanazione diretta in Sicilia della corrente di Giulio Androetti).
Dopo il delitto, Falcone rilasciò un commento abbastanza secco a Piero Grasso: “Non si uccide la gallina che fa le uova d’oro se non c’è già pronta un’altra che ne fa di più”.
A chi si riferiva?
Qualche tempo addietro è stato da Giovanni Paparcuri, uno dei più stretti collaboratori del magistrato, che dopo essere andato in pensione oggi è il responsabile del “bunkerino” del pool antimafia un appunto di Giovanni Falcone, scritto su un foglio di block notes a quadretti, durante l’audizione del pentito Francesco Marino Mannoia. Quell’interrogatorio era il 6 novembre 1989. E su carta si legge: “Cinà in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà 20 milioni ai Grado e anche a Vittorio Mangano”. Il giudice aveva sottolineato due volte il cognome Berlusconi, all’epoca già al culmine della sua carriera; una volta, il nome di Vittorio Mangano, lo stalliere boss della villa di Arcore. Il cognome di un altro mafioso, Cinà, compare anche una seconda volta nella pagina, cerchiato. Questi nomi non sono mai finiti nei verbali di Mannoia, che si è sempre rifiutato di fare dichiarazioni ufficiali su Silvio Berlusconi. Ma se certi nomi erano stati sottolineati è chiaro che erano ritenuti di interesse.
La storia dirà il perché quei nomi non erano affatto di poco conto tenuto conto che Gaetano Cinà è il boss mafioso molto amico di Dell’Utri, considerato il “tramite, l’intermediario di alto livello fra l’organizzazione mafiosa e gli ambienti imprenditoriali del Nord”. Nelle motivazioni della sentenza di condanna nei confronti di Dell’Utri è scritto che per diciotto anni dal ’74 al ’92, l’ex senatore è stato il garante dell’accordo tra Berlusconi e la mafia per proteggere interessi economici e i suoi familiari e “la sistematicità nell’erogazione delle cospicue somme di denaro da Marcello Dell’Utri a Cinà (Gaetano Cinà, ndr) sono indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione all’accordo al di là dei mutamenti degli assetti di vertice di Cosa nostra”.
Ed è anche noto che lo stesso Paolo Borsellino, due giorni prima la strage di Capaci, rilasciò un’intervista a due giornalisti dell’emittente francese Canal Plus, mai andata in onda e per la prima volta mostrata su RaiNews24 in uno speciale del 19 settembre 2000, in cui si faceva riferimento ai contatti tra Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, e lo stalliere-mafioso di Arcore Vittorio Mangano.
E’ facile pensare che già al tempo i due magistrati avessero intenzione di andare a fondo su quei rapporti.
L’ipotesi non è da scartare così come è probabile che, qualora fosse vero, di questo Borsellino avrebbe scritto sull’agenda rossa che sempre aveva con sé e che è sparita dalla sua borsa il 19 luglio 1992. Un’ipotesi che nulla toglie al fatto che Borsellino in quei 57 giorni che separarono i due attentati venne a sapere dell’esistenza di una trattativa tra Stato e mafia o che stesse indagando proprio sui mandanti esterni de “l’Attentatuni” di Capaci.
Convergenze di interessi, appunto, che portarono all’accelerazione per la realizzazione di una seconda strage.
Ricordo perfettamente le parole che mi disse Totò Cancemi, collaboratore di giustizia ed ex boss di Porta Nuova, che riportai nel libro intervista “Riina mi fece i nomi di…” (Massari Editore): “Riina è stato preso per la manina per fare le stragi” per poi aggiungere “Mi fece i nomi di Berlusconi e Dell’Utri”. Affermazioni che rilasciò anche in dibattimento nel processo Borsellino Ter e che mi hanno sempre fatto riflettere, ancor di più quando proprio il Capo dei Capi, intercettato mentre dialogava in carcere assieme al boss Alberto Lorusso, affermò: “Totò Cancemi dice che dobbiamo inventare che la morte di Falcone … che ci devi inventare, gli ho detto? Lui ha detto … inc … gli ho detto: se lo sanno la cosa è finita”. A cosa si riferiva? Forse all’interno di Cosa nostra era stata fornita una versione “camuffata” del perché si doveva compiere l’eccidio di Capaci? Chi si doveva coprire?
Tra i tanti interrogativi non possiamo dimenticare che sul luogo della strage, nel punto in cui venne premuto il telecomando, venne ritrovato il bigliettino con il numero di un alto funzionario del servizio civile.
Ed è un fatto noto che nei pressi del cratere della strage di Capaci, ad una distanza di circa 63 metri, furono rinvenuti un paio di guanti in lattice, una torcia, delle batterie e una lampadina.
Anni dopo, grazie alle nuove strumentazioni tecniche, sui guanti sono state isolate delle tracce di Dna femminile. E’ ancora noto che alcuni testimoni misero a verbale, subito dopo la strage, di aver visto prima del 23 maggio dei finti operai in tuta che effettuavano dei lavori in corrispondenza dove poi Falcone sarebbe saltato in aria.
Ed è sempre noto, grazie alle dichiarazioni di collaboratori di giustizia, che l’artificiere della strage fosse Pietro Rampulla, appartenente a Cosa nostra, ma anche figura vicina ai servizi segreti e ai movimenti eversivi di estrema destra. E’ lui ad aver preparato il sofisticato telecomando che poi Brusca si trovò a premere, proprio perché Rampulla, che doveva svolgere questo compito, all’ultimo momento sparì dallo scenario adducendo un impegno familiare.
E restano poi gli interrogativi sulla dinamica dell’esplosione e sulla possibilità di un doppio innesco intervenuto nella operazione con l’esistenza di una doppia bomba. Magistrati coraggiosi, nel corso del tempo si sono occupati delle stragi cercando di dare un volto ed un nome a quelle figure che hanno tramato alle spalle del vero Stato. Magistrati che a loro volta vengono delegittimati ed isolati, proprio per la loro ferma volontà di non guardare in faccia a nessuno.
Magistrati come Luca Tescaroli, Nino Di Matteo, Roberto Scarpinato, Sebastiano Ardita, Giuseppe Lombardo, Nicola Gratteri (per citarne alcuni) che hanno focalizzato la propria attenzione sui Sistemi criminali e le interazioni tra mafia e potere.
Oggi nuovi impulsi sono giunti sugli anni delle stragi e fascicoli sono stati aperti, con il coordinamento della Procura nazionale antimafia, a Palermo, Caltanissetta, Reggio Calabria e Firenze. Proprio in quest’ultima Procura è stato riaperta l’inchiesta sui mandanti esterni con l’iscrizione nel registro degli indagati di Silvio Berlusconi e l’ex senatore Marcello Dell’Utri (già condannato definitivo per concorso esterno in associazione mafiosa e in primo grado, a Palermo, condannato a 12 anni per la trattativa Stato-mafia).
A quasi trent’anni dalla strage di Capaci molte facce di bronzo della politica e del potere in genere affermano in maniera scriteriata che la mafia è quasi finita, che certi fatti vanno classificati semplicemente come “vecchie storie”.
Non è così e lo dimostrano quei dati che abbiamo sempre ricordato in questi anni.
La mafia è un fenomeno che esiste da oltre 150 anni e, come ricordato proprio ieri sera dal magistrato Nino Di Matteo al Tg2 Post, è sempre più inserita in un sistema criminale integrato in cui i rapporti non si esauriscono solo tra le varie criminalità organizzate, ma con tutti gli apparati di potere.
Per non parlare poi dei fiumi di denaro, per decine e decine di miliardi, ricavati dal traffico di stupefacenti di cui la ‘Ndrangheta e monopolista nel mondo occidentale.
Proprio la criminalità organizzata calabrese, in strettissimo contatto con gli ambienti massonici ed imprenditoriali, negli ultimi anni ha compiuto un salto determinante fino a diventare (ammesso e non concesso che non sia sempre stato così) un’unica cosa con Cosa nostra.
Ma ci sono anche altri aspetti che non possono essere dimenticati. A tutt’oggi c’è ancora in libertà l’ultimo degli stragisti: il boss trapanese, Matteo Messina Denaro.
E’ lui, a detta dei collaboratori di giustizia, ad avere in mano i segreti, sulle stragi e non solo, di Totò Riina.
Ed è sempre lui ad aver ordinato ai boss di Palermo di preparare un attentato nei confronti del magistrato Nino Di Matteo. I pentiti hanno confermato che il boss trapanese avrebbe inviato delle missive, nel dicembre 2012, in cui spiegava che Di Matteo andava fermato in quanto “si è spinto troppo oltre”.
Quel progetto di morte, fu avallato dal carcere da Totò Riina, che al compagno d’ora d’aria, Alberto Lorusso, diceva: “Questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta e allora, se fosse possibile, ad ucciderlo… Una esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo con i militari”. E poi ancora: “Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono”.
Per fortuna, forse anche grazie alle parole dell’ex boss dell’Acquasanta Vito Galatolo che ha svelato i dettagli di quel progetto di attentato ideato con 150 chili di tritolo fatti venire dalla Calabria, lo stesso non è stato ancora eseguito ma, come hanno scritto i magistrati nisseni nella richiesta di archiviazione delle indagini, si tratta di un progetto di attentato “ancora in corso”.
Come ha detto ieri il magistrato Alfredo Morvillo, fratello di Francesca e cognato di Falcone, intervenendo alla webinair organizzata dalla nostra testata insieme al Movimento Culturale ed Artistico Our Voice e Contrariamente, può essere possibile sconfiggere la mafia soltanto se la politica si impegnasse veramente su quel fronte.
Così non è anche a causa del fallimento e della caduta, che assomiglia più ad un tradimento, di Beppe Grillo e del Movimento Cinque Stelle che oggi si trova al governo accanto a Forza Italia, partito che ha tra i fondatori un uomo della mafia (Marcello Dell’Utri, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa ed in primo grado per la trattativa Stato-mafia) e come leader un pregiudicato, Silvio Berlusconi, che pagava la mafia (così come dicono le sentenze) che si trova indagato a Firenze assieme all’ex senatore (sempre Dell’Utri) per essere stato mandante delle stragi del 1993. Questa, oggi, è l’oltraggiosa realtà. E noi tutto questo non vogliamo dimenticarlo. Perché è parlando del tempo presente che la memoria acquista un senso. E’ tempo che tutte le verità siano disvelate, a cominciare da quelle su Capaci, su tutte le altre stragi e sulle trattative. Nella speranza che sia messo un punto. Senza ipocrisie e false passerelle.