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I GUAI DELL’ANTIMAFIA. LEVIAMO I FINANZIAMENTI ED OGNI GESTIONE DI  NATURA ECONOMICA ALLE ASSOCIAZIONI E FONDAZIONI ANTIMAFIA.L’ANTIMAFIA DEVE ESSERE VOLONTARIATO,IMPEGNO CIVICO.RIDIAMOLE ETICITA’ E RIPORTIAMOLA AI VALORI PER I QUALI E’ NATA

Antimafia s.p.a. Così la legalità è diventata un business
Centinaia di migliaia di euro per organizzare manifestazioni anti criminalità. Soldi per le associazioni. Soldi per chi si costituisce parte civile. Perfino soldi per campi di calcetto “antimafia”. La lotta per la legalità è (anche) una enorme lotta ad accaparrarsi danari pubblici

13 maggio 2016

I più gettonati sono i nomi di Falcone e Borsellino. Per costituire un’associazione antimafia intitolata ai magistrati uccisi da Cosa Nostra non serve impegnarsi molto. Si sceglie un nome, solitamente quello di una vittima della criminalità organizzata. Si aggiungono magari le parole mafia, mafie o legalità. Si compilano uno statuto e un atto costitutivo, e ci si iscrive nei registri locali. Secondo il libro Contro l’antimafia di Giacomo Di Girolamo, in Italia le associazioni antimafia iscritte nei registri dei comuni e delle regioni sono circa 2mila. A queste poi si aggiungono le fondazioni, i comitati e gli enti di promozione sociale.
Il fenomeno, negli anni, è esploso. Sul modello di “Libera” (l’unica associazione antimafia iscritta nel registro nazionale del ministero del Lavoro per le attività di promozione sociale), che coordina a sua volta 1.500 associazioni, da Nord a Sud sono spuntati nomi e sigle di ogni tipo. Una galassia di onlus che accedono al cinque per mille, comitatini e coordinamenti, attraverso i quali circolano milioni e milioni di euro. Distribuiti in mille rivoli, tra finanziamenti nazionali e locali, bandi e progetti nelle scuole. E la rendicontazione delle spese, spesso, è tutt’altro che trasparente. Così come i bilanci delle associazioni: introvabili nella maggior parte dei casi.
In nome dei progetti antimafia si aprono porte e portoni, si elargiscono soldi per convegni e manifestazioni. Accanto alle associazioni serie che l’antimafia la fanno seriamente, sono nati gruppi e comitati che si fanno guerra per accaparrarsi un finanziamento pubblico o andare a parlare tra i banchi delle scuole. Così la legalità diventa un brand.

«Spesso si fa entrare nelle scuole gente improbabile, che nasce dal nulla inventandosi un profilo da persona che combatte la mafia, magari dopo aver fatto da maggiordomo a qualche magistrato, facendosi vedere con lui per un paio di mesi. Iniziando a girare per le scuole si intrufola, si inventa un mestiere e comincia a chiedere dei soldi», ha raccontato la scorsa estate il neoprocuratore di Catanzaro Nicola Gratteri durante una manifestazione a Villa San Giovanni. «Ai politici, regionali, provinciali e comunali dico di non dare soldi alle associazioni antimafia: mettetevi in rete, create un fondo comune, fate dei protocolli con i provveditori agli studi e predisponete delle graduatorie degli insegnanti precari… Mi si dice che per far questo c’è bisogno di soldi. Ma i soldi ci sono, so di progetti costati 250.000 euro. Non è etico, non è morale, non è giusto. In nome di gente che è morta, che è stata uccisa, non è giusto che si spendano 250.000 euro per una manifestazione antimafia».

Solo dal Programma operativo nazionale sicurezza (Pon) del ministero dell’Interno, finanziato dall’Europa, tra il 2007 e il 2013 sono arrivati tra Calabria, Campania, Puglia e Sicilia più di 538 milioni di euro da destinare alla “diffusione della legalità”. Di cui oltre 122 milioni finiti nella costruzione di case dei diritti e centri di aggregazione, ma soprattutto di campi da calcio a cinque e “campi polivalenti”. A suon di dotazioni da mezzo milione di euro, si finanziano prati e porte anche nei paesini più piccoli del meridione.
A quanto pare non c’è miglior arma del calcio per combattere le mafie. Sul fronte del miglioramento dei beni confiscati, dal Viminale sono arrivati invece quasi 70 milioni di euro, e poco più di 14 milioni sono andati nel contrasto al racket. E per 2014-2020 il Pon legalità disporrà di altri 377 milioni di euro. Poi ci sono i fondi Por, quelli regionali. Solo in Calabria, tra il 2012 e il 2015, quasi 8 milioni di euro sono stati distribuiti alla voce “legalità”.
Altra fonte da cui attingere è il fondo per le vittime di mafia del Viminale. Nel 2015 sono arrivate 1.106 istanze di accesso – il 13% in più rispetto all’anno precedente. Nella relazione annuale, dal ministero fanno notare l’incremento delle richieste arrivate da associazioni ed enti: 497 in tutto, il 45 per cento del totale. Un’inversione di tendenza, si legge, che «ha generato una riflessione al fine di realizzare finalità di trasparenza e affidabilità dei potenziali beneficiari». Solo dalla Sicilia in un anno sono partite 822 richieste, con un incremento di quasi il 40% rispetto all’anno passato. Non tutte le istanze vengono accettate, è chiaro. Ma solo nel 2015 sono state adottate 645 delibere per un importo complessivo di oltre 56 milioni di euro. La somma più alta degli ultimi anni.
Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti. Ci sono associazioni che lo fanno per mestiere, magari collezionando sedi in tutta Italia per incassare qualche gruzzolo nei processi che si celebrano da Nord a Sud. Solo nel processo “Mafia Capitale” di Roma, 41 richieste sono state bocciate e 23 accolte. La stessa Federazione antiracket italiana di Tano Grasso, rappresentata in aula dall’avvocato Francesco Pizzuto, al processo “Infinito” di Milano dalla costituzione parte civile ha portato a casa 50mila euro, finiti nelle casse dell’associazione per finanziare le attività che svolge. La Fai, come altre associazioni, gira l’Italia dei tribunali per verificare se gli imputati dei processi abbiano arrecato “un danno effettivo e rilevante subito in qualità di associazione da anni presente ed attivamente operante sul territorio contro le mafie”.
Tra le tante c’è anche Libera, che dalla nota integrativa del bilancio 2015 sull’anno 2014 riporta il maxi risarcimento ottenuto a Reggio Calabria al termine del processo “Meta”: 500mila euro confermati dalla sentenza passata in giudicato il 12 febbraio 2015. Denari che l’ufficio legale, si legge sempre nella nota integrativa «vengono reimpiegati per l’assistenza legale ai familiari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia».
Il problema, però, è che in molti casi il mafioso imputato di turno non ha conti in banca né grandi proprietà a lui intestate (basta pensare che in alcuni casi ricorrono al gratuito patrocinio), e quindi a pagare i risarcimenti è lo Stato, attraverso il fondo per le vittime di mafia.

La gestione “allegra” dei soldi
Di soldi, insomma, nell’antimafia ne circolano molti. E non sempre finiscono alla lotta contro i boss. Prima del caso di Pino Maniaci, direttore dell’emittente antimafia Telejato indagato per estorsione, un altro duro colpo per l’antimafia civile era arrivato dalla vicenda di Rosy Canale. Diventata un nome e un volto noto della lotta alla ‘ndrangheta per le sue campagne (poi diventate anche spettacoli teatrali) in favore delle donne di San Luca, è stata condannata a quattro anni di carcere per aver fatto un uso «personale» dei fondi destinati al movimento. Anziché utilizzare i soldi ricevuti per creare opportunità sociali e lavorative per le donne nel piccolo paese reggino da sempre nella morsa della ‘ndrangheta, con quei quattrini la Canale avrebbe comprato due macchine, una per sé e una per la figlia, e prenotato vacanze. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto». Nell’ordinanza di custodia cautelare, il giudice scrive: «Fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l’utilizzare scientemente l’antimafia per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa».
Ma non è l’unico caso. A Reggio Calabria, i magistrati stanno indagando anche sulle spese di Claudio La Camera, fondatore e per molto tempo anche presidente dell’associazione Antigone-Museo della ‘ndrangheta, e in quanto tale destinatario tra il 2007 e il 2012 di circa 800mila di euro di finanziamenti pubblici. Secondo gli inquirenti questi soldi sarebbero finiti a finanziare progetti e spese private. Comprese mollette per il bucato, oggetti di modellismo e un pollo di gomma per cani. Con La Camera sono finiti sul banco degli indagati anche i dirigenti regionali, compreso l’ex governatore Giuseppe Scopelliti, e gli assessori della sua giunta, che hanno firmato le delibere con cui sono stati elargiti i soldi pubblici.
Lo scorso febbraio, poi, il Corriere della Calabria ha spulciato tra i conti del Coordinamento nazionale Riferimenti, nota associazione calabrese guidata da Adriana Musella, figlia di Gennaro, l’ingegnere salernitano saltato in aria a Reggio Calabria nel maggio del 1982 insieme alla sua auto. Tra soldi pubblici e donazioni private, solo nel 2011 nelle casse dell’organizzazione promotrice del simbolo della gerbera gialla sarebbero entrati oltre 270mila euro. Dalle carte, secondo quanto riporta il giornale calabrese, emergerebbero acquisti di magliette in numero spropositato, fiori costati migliaia di euro, compensi a figli e parenti, rimborsi per viaggi, alberghi e ristoranti, spese in cellulari, ma soprattutto poche attività sul territorio, se non qualche convegno istituzionale sulla ‘ndrangheta e una “settimana bianca dell’antimafia” a Folgaria, in Trentino. La presidente ha smentito tutto e minacciato querele, ma alla richiesta de Linkiesta di consultare i bilanci, l’associazione non ha risposto.
Anche la Corte dei conti più di una volta ha messo il naso nei conti dell’antimafia, denunciandone la scarsa trasparenza. Solo a Napoli, da gennaio 2014 i giudici contabili stanno passando al vaglio l’assegnazione, definita «arbitraria», di oltre 13 milioni fondi pubblici a favore di un gruppo di associazioni antiracket che sarebbero state privilegiate a discapito di altre.

Beni confiscati, gioie e dolori
L’altro tesoretto dell’antimafia sono i beni sequestrati ai boss. Un pacchetto di 10.500 immobili in tutta Italia e circa un migliaio di aziende, che fa gola a molti. E il cui recupero e ridestinazione, una volta confiscati, è un processo costellato di opacità. Dai fondi Pon è arrivata anche la somma che sta finanziando il nuovo cervellone informatico dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata: un sistema da 13 milioni di euro che inizia a mostrare le crepe nel processo di gestione dei beni.
Anzitutto, non si conosce il valore economico di case e aziende appartenute ai malavitosi. Un dato su cui, fanno sapere dal ministero della Giustizia, si è in cerca «di una soluzione». La pubblica amministrazione, da parte sua, sconta molte opacità nella gestione, o quantomeno nella comunicazione dell’uso reale di questi beni da parte dei comuni. Il ministero della Giustizia se ne lamenta nella relazione che ha presentato al Parlamento lo scorso febbraio. Basta dare un occhio ai numeri: su 552 beni destinati a finalità istituzionali, ben 293 sono stati classificati dagli enti locali come “altro”, nonostante una nutrita possibilità di scelta da ambiti che spaziano dalle emergenze abitative agli uffici comunali, passando per scuole, infrastrutture, uffici giudiziari e perfino canili. Un deficit di trasparenza che rende complicato comprendere il vero ruolo che questi beni ricoprano una volta finiti sotto il controllo degli enti ocali. D’altronde, proprio il 12 maggio, i Carabinieri di Licata hanno sequestrato un terreno confiscato alla mafia e assegnato da anni allo stesso Comune: sul terreno erano stati abbandonati rifiuti speciali. Senza dimenticare che i beni confiscati spesso e volentieri restano pure nelle mani boss. Secondo un’indagine a campione della Direzione investigativa antimafia (Dia), più di 1.300 immobili confiscati in via definitiva risultano occupati. In trecento di queste case abita ancora il mafioso o la sua famiglia.
Per non parlare dell’inchiesta che coinvolge Silvana Saguto, ex presidente della sezione delle misure di prevenzione del tribunale di Palermo, quella che si occupa di nominare gli amministratori giudiziari delle aziende confiscate. Dalle mani del magistrato, per anni simbolo della buona gestione, negli anni sarebbero passati beni tra i 40 e 60 miliardi di euro. Secondo la procura di Caltanissetta, la Saguto però avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini. Compreso il marito. Una vicenda che tra l’altro ha fatto emergere un’altra falla nel sistema: il fantasma dell’albo degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, istituito nel 2009 e di fatto mai entrato a regime.

Fino a qualche tempo fa, però, non si andava oltre la punzecchiatura. Associazioni più o meno grandi e piccole, in lizza per accaparrarsi finanziamenti e beni confiscati, si colpivano a vicenda. Poi le schermaglie politico-economiche e le accuse di veri e propri cartelli per la gestione dei beni e la destinazione di fondi sono arrivate anche nel campo dell’antimafia. E a inizio anno sono scesi in campo i pesi massimi della lotta al crimine organizzato, in toga e non.
Nel novembre 2015 Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, all’assemblea di Libera aveva fatto notare l’assenza di posizioni dell’associazione su “Mafia Capitale” e soprattutto sulle indagini che avevano coinvolto il presidente regionale di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, ex paladino dell’antimafia indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, e il magistrato Silvana Saguto. Poi a gennaio La Torre viene «cacciato con un sms». «Se don Luigi Ciotti (fondatore di Libera, ndr) non la pensa come me, allora», specificava La Torre, «dobbiamo confrontarci, anche litigando se necessario, ma il confronto diretto è fondamentale per la democrazia». Un confronto che non è mai arrivato.
A inizio anno ha rincarato la dose il pm di Napoli Catello Maresca. In un’intervista rilasciata a Panorama parlò di «monopolio» di Libera sulla gestione dei beni confiscati. Don Luigi Ciotti non la prese bene: «Noi questo signore lo denunciamo: le sue dichiarazioni a Panorama sono sconcertanti», disse. «È in atto una semplificazione che vuole demolire il percorso di Libera con la menzogna».
D’altronde che l’associazione di don Ciotti, nata nell’ormai lontano 1995 abbia fatto il pieno dei beni confiscati non è un mistero. Il conto aggregato di tutte le associazioni “figlie” di Libera, in tutto sei, tocca i 10 milioni di euro, e una gran parte dei beni e dei terreni confiscati sono finiti a cooperative affiliate.
La difesa di Libera è arrivata in una delle prime audizioni del ciclo che la commissione parlamentare antimafia ha dedicato, sembra quasi un paradosso, al tema dell’antimafia: «Libera non gestisce le cooperative, ma le promuove». Cooperative e sponsor che non sempre sono stati irreprensibili. Un caso su tutti, che mostra un gigantismo difficile da gestire, è stata la vicinanza della Cpl Concordia, che nel luglio 2015 ha visto il presidente finire in manette in seguito a un’inchiesta proprio della Dda partenopea.

L’antimafia della mafia
E la mafia non se ne sta a guardare, mentre i quattrini dell’antimafia circolano indisturbati per costruire campetti da calcio, ristrutturare ville e organizzare convegni. Ci sono associazioni che, spenti i riflettori, fanno affari con le cosche. E politici che la sera sfilano in nome dell’antimafia e il mattino dopo stringono accordi elettorali con le ‘ndrine. Come l’ex sindaco di San Luca, Sebastiano Giorgi, paladino della lotta alle cosche che sarebbe stato eletto proprio con i voti della ‘ndrangheta.
Lo racconta anche il pentito Luigi Bonaventura: «La ‘ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare i propri interessi. È una strategia». Lo stesso senatore Pd Stefano Esposito, membro della Commissione antimafia, nella sua relazione sulla presenza della criminalità a Ostia ha parlato di «sedicenti associazioni antimafia» i cui «membri sono quantomeno sospetti nel loro modo di svolgere l’attività». Con «modalità operative simili, nei modi e nei comportamenti, alle famiglie malavitose».

da “ L’INCHIESTA “