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I fantasmi di una guerra feudale

I fantasmi di una guerra feudale

I fantasmi di una guerra feudale

9 DICEMBRE 2017

di Davide Grittani

Nel 1964 il regista ligure Elio Piccon realizzò un film sul Paese che viveva all’ombra del boom economico, in assoluta miseria, sul pericoloso confine tra disperazione e illegalità. Quel film si chiama “L’antimiracolo” e l’anno dopo si aggiudicò la Targa Leone di San Marco alla XXVI edizione della Mostra internazionale del cinema di Venezia. In pochi sanno che fu interamente girato a Lesina e San Nicandro Garganico, e che il regista – durante le riprese – raccontò d’essere stato attratto da una «terra in cui gli esseri umani non hanno volto».
Dieci anni dopo quel film, a San Nicandro Garganico nasceva Gennaro Giovanditto.
Non è un regista. Nemmeno un attore. Non ha niente a che fare col cinema, se non il fatto d’essere figlio della generazione «senza volto» raccontata da Piccon.
A Gennaro Giovanditto la giustizia italiana attribuirebbe – a vario titolo – l’esecuzione di tredici omicidi. Tutti commessi nell’ambito di una guerra di mafia, quella “garganica” ammesso che abbia davvero un senso distinguerla dalle altre, che dura da decenni.
Non sono un cronista, non nel senso rigoroso del termine che viene riconosciuto a chi racconta la vita di una terra attraverso la morte di chi la abita. Ragione per cui non proverò ad analizzare gli aspetti cronologici e processuali delle presunte imprese malavitose contestate a Giovanditto. Mi viene chiesto di raccontare, coi miei occhi, ciò che mi arriva di questa storia, di questa guerra. E la prima cosa che non posso fare a meno di notare è che di Gennaro Giovanditto non esistono fotografie. Poca, pochissima roba, custodita gelosamente negli archivi di chi la cronaca della guerra di mafia l’ha raccontata con precisione inimitabile (penso a Giovanni Rinaldi de “La Gazzetta del Mezzogiorno”), ma poi più nulla.
Per quanto ne sanno quelli che, come me, lo cercano negli oceani del web, Gennaro Giovanditto è un uomo senza volto. Per la giustizia italiana, un killer senza volto. In confronto a lui, altri due protagonisti di questa guerra, Mario Luciano Romito (ucciso nella strage del 9 agosto 2017) e Francesco Libergolis (ucciso il 27 ottobre 2009), paiono fin troppo esposti: immagini, storie, tracce, abitudini. Fino a quando sono rimasti in vita, s’intende.
Sembrerebbe un dettaglio di natura morbosamente giornalistica, invece risponde a una precisa volontà degli interpreti di questa dottrina. Fin tanto che non se ne conoscono i volti, nessuno può dire di averli incontrati e riconosciuti (ammesso che ci sia qualcuno disposto a farlo). Fin tanto che restano al buio, nessuno può parlargli del sole. La dimensione esistenziale che si accetta è ignota ai più, quasi letteraria, pirandelliana: nessun essere umano condurrebbe la propria vita all’interno di un doppio fondo, invece per loro è condizione indispensabile per continuare a vivere senza lasciar tracce, per dettare gli eventi senza farsi travolgere, per imporre la forza senza dare l’impressione di poterlo fare. Fantasmi, categorie sfuggenti, leggendarie, tutt’altro che clandestini, semplicemente trasparenti.
Come diceva Piccon, Giovanditto non ha un volto (pubblico) per scelta. Ne ha (eccome) uno privato, che conoscono in pochi. Anche perché – così raccontano i magistrati dell’operazione Remake – chi riesce a vederlo è quasi certo che non rimanga in vita. Ed ecco un altro tema di questa guerra feudale, carica di simboli primitivi che solo l’antropologia riesce a decifrare. Alla maggior parte dei morti ammazzati è stato sparato in pieno volto, sottraendo loro i connotati, quindi la dignità della sepoltura. Una scena toccante de L’antimiracolo mostra proprio l’esibizione del dolore durante una veglia funebre, l’ostentazione dei parenti, la loro collera contro il destino, l’adorazione della faccia che stanno salutando per sempre.
Alle vittime della “mafia garganica” alle quali è stato asportato – a fucilate – il volto, viene sottratta questa dignità, viene inibito l’onore del saluto. Chi è senza volto non può essere compianto, tantomeno ricordato. «E’ difficile da spiegare, la durezza di questi posti – raccontava Piccon – si può raccontare solo attraverso la poesia barbarica che ho trovato in alcune campagne e contrade del Gargano..».
Bisognerebbe conoscerlo, il Gargano, per provare a spiegare di cosa stiamo parlando. Di quale substrato culturale sono figli questi morti, in quale torba ha vegetato l’odio alla base di questa contesa apparentemente senza etica.
A cinquant’anni dalla sua uscita, “L’antimiracolo” è stato restaurato e riconsegnato alla cinematografia italiana. In pochi continuano a sapere che è stato girato tra Lesina e San Nicandro Garganico, alcune scene nelle campagne di Monte Sant’Angelo. A mezzo secolo da quell’allarme inascoltato, le ragioni della faida che sta facendo discutere il Paese sono sempre le stesse. La terra, la roba, i frutti che assicura e quelli che promette. A poco più di quarant’anni dalla nascita di Gennaro Giovanditto, nessuno si chiede più che volto abbia. Non ha più senso, nei luoghi che a furia di ignorare le facce stanno rinunciando anche al sorriso.

 

Fonte:http://mafie.blogautore.repubblica.it/