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I DOSSIER DE “LA STAMPA” – Viaggio nella quarta mafia, la più feroce e violenta d’Italia

La Stampa

I DOSSIER DE “LA STAMPA” – Viaggio nella quarta mafia, la più feroce e violenta d’Italia

E’ la criminalità quasi pastorale ma che ha stretto rapporti con la politica e che si estende tra il Foggiano e il Barese, nella zona del Gargano. Stragi e omicidi si susseguono con una crudeltà inaudita

GIUSEPPE LEGATO

PUBBLICATO IL

12 Febbraio 2021

Il magma. E’ la metafora utilizzata dalla Dna per raccontare in una decina di pagine della relazione annuale la “Quarta mafia”, quella pugliese (diversa dalla Sacra Corona Unita), rinnegata fino a poco tempo fa “la cui gravità della manifestazioni violente – scrivono i magistrati – era stata generata da faide pastorali”. dalla sottovalutazione a una nuova consapevolezza il passo è stato breve. Probabilmente imposta dalla ferocia pubblica che l’organizzazione attiva nel Gargano e nella provincia di Bari, ha portato sulla scena – e sulle cronache nazionali degli ultimi anni con vere e proprie mattanze. “Questo ritardo cognitivo – si legge agli atti della disamina della Dna – ha costituito, purtroppo, un vantaggio per i sodalizi criminali che hanno potuto radicarsi, evolversi, espandersi, infiltrarsi nelle attività economiche e politico-amministrative”. La Quarta Mafia non ha pentiti, non ha strutture verticistiche e si snoda su due versanti: quello di Bari e quello di Foggia.

Bari

A differenza di altre mafie – governate da una “cupola” e capaci, quanto meno nei momenti di criticità o per comuni interessi, di rispettare gerarchie interne ed esterne; di creare alleanze stabili; di seguire strategie concordate – la mafia pugliese “appare fatta di sostanza magmatica, mutevole e sempre incandescente: muta la composizione e la potenza dei sodalizi a causa di eventi contingenti quali affiliazioni, carcerazioni, crearsi e disfarsi di alleanze, scissioni interne o inglobamento di piccole realtà criminali locali o di fuoriusciti di altri clan con cicliche e imprevedibili esplosioni di sanguinose “guerre”.

E’ questa, per i magistrati della Dna “l’inevitabile conseguenza dell’assenza di un vertice aggregante, capace di imporre regole, di elaborare strategie, di dirimere contrasti, di creare solide alleanze e, soprattutto, di trasmettere un senso identitario”.

Ne discende che “il senso degli affari e l’interesse personale sono gli unici motori per affiliarsi a un clan così come per fuoriuscirne; ed è sempre questo spiccato senso di opportunismo a condurre il fuoriuscito ad affiliarsi ad altro clan o a collaborare con la Giustizia”.

Ne discende che “ogni alterazione dei fragili e temporanei equilibri e, più in genere, qualsivoglia intralcio al più spregiudicato affarismo criminale viene sbrigativamente risolta con fatti omicidiari”.

Non è un caso che – come ammette la stessa Dna – nell’ultimo anno, il capoluogo pugliese è stato funestato da numerosi fatti di sangue, sintomatici sicuramente di tensioni “le cui inquietanti modalità (agguati sotto casa, gambizzazioni, inseguimenti tra la folla in pieno giorno), unitamente a improvvise riorganizzazioni degli assetti gerarchici dei clan, sono sintomatici del dinamismo e dell’ingestibilità delle nuove leve, impazienti di scalare le gerarchie e disposte a tutto pur di ricoprire ruoli apicali”.

Foggia


La chiamano la “gomorra di cui nessuno parla”. Perché ha ucciso innocenti, carabinieri e rivali senza guadagnarsi per molto tempo la ribalta mediatica e l’allarme dell’opinione pubblica. Lo ha fatto con una ferocia che richiama altre epoche di questo paese. Eppure “lo spaccato più drammatico della realtà malavitosa foggiano- garganica è la commistione tra affari criminali e politico-amministrativi”.

Ne nasce un mix di Dna potenzialmente micidiale per l’economia e la democrazia di interi territori. “Una mafia – scrive la Dna – che sa essere insieme rozza, ma anche affaristicamente moderna, capace di continuare ad uccidere vendicando torti subiti decenni addietro e di porsi come interlocutore e partner di politici e pubblici amministratori”.

Allo scioglimento dei Comuni di Monte Sant’Angelo (2015) e Mattinata (2018) è seguito quello recentissimo, nell’ottobre 2019, dei Comuni di Cerignola e Manfredonia.

Il terreno su cui la mafia e la cosa pubblica si sono incontrate – si legge agli atti della relazione della Dna – è quello delle feste e incontri conviviali, delle inaugurazioni di esercizi commerciali, partite di calcio. L’opacità e l’ambigua disponibilità degli apparati amministrativi si è concretizzata in atti di assunzione per parenti di mafiosi, rilascio di certificazioni utili per partecipare a pubbliche gare e favori di ogni genere”.

Il pericoloso abbraccio si innesta su “una certa “timidezza” – tra comunità civile e le istituzioni in un territorio – in cui l’assenza pressoché totale di collaboratori di giustizia dovrebbe essere sopperita dall’ impegno della comunità civile a “vedere”, denunciare, rifiutare le lusinghe di un welfare illegale”.

La risposta dello Stato con arresti e della società civile con marce per reclamare a gran voce legalità  “non bastano”. Serve “un processo di crescita culturale e di riscatto sociale nel quale la società civile – essenzialmente sana, ma sfiduciata – dovrà essere supportata da tutte le istituzioni e dalla percezione di uno Stato presente e vicino ai bisogni del territorio, primo tra tutti quello del lavoro”.