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I Di Silvio dettavano legge anche in provincia

Il Caffè, n. 490 – dal 30 aprile all’8 maggio 2019

I Di Silvio dettavano legge anche in provincia

Le rilevazioni del pentito Agostino Riccardo svelano i rapporti della famiglia nomade di Latina con gli altri gruppi criminali

di Clemente Pistilli

Le dichiarazioni del pentito Agostino Riccardo, unite a quelle del collaboratore di giustizia Renato Pugliese, hanno consentito agli inquirenti di aprire numerose indagini e di riavviare inchieste su episodi criminali eclatanti verificatisi in provincia di Latina, a partire dal capoluogo, rimasti per anni senza l’individuazione di un colpevole. Rivelazioni che, soprattutto sul versante dei rapporti con la politica, divenute note dopo l’apertura del processo denominato “Alba Pontina”, quello agli esponenti della cosiddetta mafia rom, hanno scatenato un terremoto e che hanno portato la squadra mobile e la Direzione distrettuale antimafia di Roma anche a concentrarsi su un nuovo quadro di quella che, per l’ormai ex appartenente al clan di origine nomade, sarebbe la geografia criminale del territorio pontino e del vicino litorale romano. Riccardo ha infatti specificato che i Di Silvio dettavano legge a Latina, ma quando dovevano compiere estorsioni fuori città si rivolgevano “alle organizzazioni criminali che controllavano il territorio o a persone che le rappresentavano”. E ha fatto una serie di esempi: “A Sabaudia la famiglia Serrapiglio, a Fondi i D’Alterio, a Terracina Genny Marano, figlio di Licciardi, a Pontinia Gianluca Campoli, marito di Shara Travali, e Davide Capodiferro, a Formia Giovanni Luglio, affiliato al clan dei Bardellino (era in galera con me e sono stato io a prendere la conoscenza), a San Cosma e Damiano, Ettore Mendico (clan dei Casalesi), e Giuseppe Sola, a Sezze Ermes Pellerani (che è riuscito a prevalere su Piero De Santis), a Latina Scalo, Gianfranco Simeone e Gianfranco Mastracci, ad Aprilia avevamo contatti con Nino Montenero (cognato di Patrizio Forniti) tramite il figlio Dimitri, detto Pannocchia, a Anzio-Nettuno con la famiglia Sparapano e Gallace (Bruno Gallace)”. Il pentito ha poi aggiunto che “il contatto con le altre organizzazioni criminali, tra cui quelle appena indicate, era tenuto da Armando”, dunque dal presunto capo Armando Di Silvio detto Lallà, “ma noi eravamo i suoi delegati e tutti ci riconoscevano tale ruolo, perciò alle volte eravamo noi stessi – io o i figli di Armando – ad interloquire con i soggetti menzionati”. Il collaboratore di giustizia ha quindi descritto alcune estorsioni, specificando che anche i pregiudicati pagavano i Di Silvio senza battere ciglio, temendo per la loro vita, e che anziché rivolgersi alle forze dell’ordine i più cercavano un accordo con il clan. Sul fronte della droga, il pentito ha poi detto che la direzione era sempre di Armando, evidenziando che sarebbe stato quest’ultimo a occuparsi dell’approvvigionamento della cocaina, acquistandone un chilo al mese “da Gianluca Ciprian”. Un’organizzazione criminale ben armata e pronta a uccidere: “Potevano prendere in cinque minuti un arsenale, avevamo tre quattro pistole a tamburo, tre quattro pistole automatiche. Ogni membro della famiglia ha una pistola personale, ma l’arsenale, che noi chiamiamo la borsa, era a disposizione di tutti”. Senza contare le feroci aggressioni nei confronti delle vittime: “Per loro aggredire chi non pagava era un segno di forza per volere dire che con loro non si giocava”. Tra estorsioni, usura, droga e gestione delle campagne elettorali il denaro sarebbe stato tanto: “Armando ogni 10mila euro di guadagno li metteva sotto vuoto per fare meno volume con un aspirapolvere. Preferiva i pezzi da 50 euro in su”. Agostino ha anche sostenuto che nel 2002 a gambizzare a Latina Amedeo Primitivo era stato Pasquale Di Silvio e che a gambizzare lui era stato Massimiliano Moro, poi ucciso nella guerra tra rom e non rom nel 2010. Ha anche raccontato che nel quartiere dei pub a dettare legge era Ferdinando Pupetto Di Silvio: “Se fosse insorta una lite tra i frequentatori dei pub per avere giustizia non ci si rivolgeva alla Polizia ma a Pupetto”. Un’organizzazione che pensava in grande. Tanto che Lallà avrebbe detto a Riccardo, al momento di farlo entrare nel suo clan: “Io ho fame e mi voglio pià Latina in mano”.