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I clan contro i giudici che tolgono i figli ai boss

L’Espresso, Giovedì 21 aprile 2016

I clan contro i giudici che tolgono i figli ai boss

A Secondigliano baby boss hanno preso di mira la caserma dei carabinieri. Colpevoli insieme alla procura di aver sottratto due figli minorenni al boss latitante del quartiere. Un metodo “inventato” a Reggio Calabria, dove il tribunale ne ha allontanti più di 30. L’ultimo poche settimane fa: urlava «infame» ai figli del pentito

DI GIOVANNI TIZIAN

I figli non si toccano. Il messaggio è arrivato forte e chiaro allo Stato, che a Secondigliano è rappresentato da quella palazzina con la scritta Carabinieri. Kalashnikov per lavare l’onta dell’allontanamento dei due figli minori del boss latitante, anche lui giovanissimo. Venticinque anni, invisibile da tre. Un capo che dieci fa ha subito l’indottrinamento di camorristi più maturi di lui. Come in una filiera dell’educazione criminale. Una catena del male. Una cinghia di trasmissione attraverso cui valori, principi, odio, avidità, passano dal più grande al più piccolo.

Uno dei figli del giovane capo clan era stato, tra l’altro, concepito durante la latitanza. I figli danno continuità al potere criminale. Per questo più del sequestro dei beni, le cosche temono che il tribunale gli sottragga i figli maschi. Gli eredi. Fin da piccoli – come raccontato da l’Espresso nel servizio di copertina “Strappati a Mamma mafia” – educati al crimine, a quei valori mafiosi da cui divincolarsi è molto difficile. Se non impossibile.

Reagiscono così i mafiosi. Ancor prima di fare ricorso in tribunale per riottenere la patria potestà, mostrano la potenza di fuoco e la indirizzano verso i “colpevoli”, cioè magistrati e forze dell’ordine. Il primo tribunale dei minorenni in Italia ad avere messo a sistema la procedura è quello di Reggio Calabria. L’ufficio, guidato dal presidente Roberto Di Bella, con un protocollo firmato nel 2012 è ormai molto avanti rispetto agli altri. I provvedimenti di allontanamento hanno finora riguardato più di 30 ragazzini. Il più piccolo ha 12 anni.

L’ultimo bambino su cui è intervenuto il tribunale è il figlio di un boss, tra i più quotati in Calabria, arrestato qualche mese fa dopo una lunghissima latitanza. Nel documento con cui si stabilisce la decadenza della responsabilità genitoriale c’è un terribile spaccato familiare.

C’è l’odio per lo Stato, identificato con il male. Come quell’istituzione, cioè, che rinchiude i padri in cella, che toglie case, terreni e aziende. Nella trasmissione culturale tutto questo disprezzo passa dal grande al più piccolo del nucleo familiare. 

«L’insufficienza delle risorse familiari e del nucleo parentale anche allargato, intraneo alla criminalità organizzata del luogo e, comunque, portatore di valori culturali non adeguati, impone poi un temporaneo allontanamento del giovane» si legge nel decreto di allontanamento del ragazzo. «Tale soluzione – prosegue il giudice – appare necessaria per fornire al medesimo una seria alternativa culturale e evitare il rischio, ineluttabile alla luce dei gravi elementi emersi, di una sua definitiva strutturazione criminale».

Ancor più interessante l’analisi del Pm: «Il giovane sembra avere introiettato il distorto sistema valoriale offertogli dall’ambiente, con un’adesione che non consente di limitare soltanto alle figure genitoriali la responsabilità della situazione descritta, ma, in proporzione allo sviluppo del medesimo, impone di ricondurre anche a lui indici di responsabilità progressivamente crescenti nella definizione delle proprie scelte di vita».

C’è un episodio riportato nelle carte sintomatico dell’adesione al sistema ‘ndranghtistico da parte del minore. Un giorno d’estate, in un lido della costa tirrenica, il giovanotto incontra per caso una sua coetanea, figlia di un pentito. «Infame» ha urlato alla ragazzina. Definizione che segue la migliore tradizione di mafia. Non solo, ma notata la presenza dei militari che la proteggevano, si è rivolto a loro apostrofandoli «Cani da guardia». Per poi concludere con «L’altro figlio dell’infame dov’è?».

Sono espressioni forti. Segnali, per il tribunale, di una totale adesione ai principi del clan. Ma per il giovane non è ancora tutto perso. È giovanissimo. Quindi può interrompere quel percorso obbligato scelto dai genitori per lui. Per questo il giudice ha ordinato l’allontanamento lontano dalla Calabria. E la questura, guidata da Raffaele Grassi, ha eseguito il provvedimento.

Potrebbe, però, essere l’ultimo atto di questo genere. Perché il rischio è che, tra qualche mese, i tribunali dei minorenni così come li conosciamo non esistano più. C’è una riforma, infatti, che prevede l’abolizione e la ricollocazione all’interno dei tribunali ordinari. La legge è stata approvata alla Camera e adesso è alla commissione giustizia del Senato. In sintesi prevede la soppressione del tribunale dei minori e della procura dei minori. Il primo diventerebbe una costola all’iterno degli uffici del tribunale ordinario, mentre la procura diventerebbe sezione speciale della procura ordinaria.

È preoccupato di questa possibile riforma Roberto di Bella, il presidente dell’ufficio di Reggio Calabria. «Questo significa che perdiamo la riconoscibilità autonoma sul territorio. Ma soprattuto perderemmo la credibilità costruita in questi anni con il nostro lavoro. I risultati ottenuti sono notevoli. La soddisfazione più grande sono le tante mamme che ci hanno chiesto di aiutarle per tenere i loro figli lontani dall’influenza dei padri a capo delle cosche. Ora mi chiedo quali di queste madri andrebbe in un tribunale ordinario? Con il rischio di essere vista da altri imputati che potrebbero riconoscerla. Le potenzialità della giustizia minorile sono enormi. Può salvare molte giovani vite dal 41 bis e dalla morte».