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I boss si dissociano dalla camorra, l’allarme del procuratore di Napoli: «Quanto valgono le loro confessioni?»

Il Mattino, Domenica 1 Dicembre 2019

I boss si dissociano dalla camorra, l’allarme del procuratore di Napoli: «Quanto valgono le loro confessioni?»

di Leandro Del Gaudio

Invita a riflettere su quanto sta avvenendo a Napoli, una città che in materia di crimine organizzato resta la frontiera più avanzata. È il procuratore di Napoli Giovanni Melillo a mettere in guardia su un fenomeno tutto partenopeo, quello della richiesta di dissociazione di alcuni boss, probabilmente in vista di sconti di pena e benefici carcerari. Hotel Mediterraneo, sala gremita di avvocati, studenti e giuristi, il capo dei pm napoletani interviene nel dibattito sul carcere ostativo, organizzato dalla camera penale guidata da Ermanno Carnevale: «La dissociazione è il tema con il quale mi misuro da più di 25 anni e che in questi mesi si ripropone in modo evidente. Abbiamo i capi delle consorterie criminali che scrivono contemporaneamente lettere con cui annunciano la loro volontà di dissociazione». Dunque: niente automatismi, guai a strumentalizzare l’intervento della commissione europea, che chiede all’Italia di adeguare il proprio impianto sanzionatorio, offrendo anche a un mafioso ergastolano (non collaboratore) di chiedere benefici. Spiega oggi il procuratore Melillo: «È la natura stessa del patto commesso nella realizzazione di un reato (associazione per delinquere, racket, corruzione, omicidi, droga) a rendere poco riconoscibile il meccanismo della dissociazione». Chiaro il ragionamento del procuratore: ci si può dissociare, ammettendo un omicidio, senza fare riferimento a complici o interlocutori esterni al clan? Ma al centro della tavola rotonda resta la questione dei diritti: «L’ergastolo ostativo in uno stato sociale di diritto» è titolo del convegno. Un tema che vede compatti gli avvocati (sotto la moderazione del penalista Marco Campora), uniti nel ricordare l’esigenza di superare la tortura del fine pena mai, per dare finalmente seguito all’articolo 27 della Costituzione (sulla riabilitazione della pena). Interviene il procuratore generale Luigi Riello, che difende i principi della nostra carta costituzionale, ma che ricorda anche l’importanza del contrasto alle mafie con scelte di chiarezza per ogni singolo caso.

Tocca al procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, che parte da una premessa: «Nessuno di noi mette in discussione i principi della Costituzione, mafia e terrorismo si combattono con le regole e nelle regole. Detto ciò però bisogna ricordare che dalla strage di Capaci in poi, si chiede al boss mafioso una collaborazione piena, perché solo in questo modo si tagliano i ponti con il proprio retroterra criminale». Iniziano i mugugni della platea di avvocati, c’è qualche osservazione critica da parte del professor Sergio Moccia, il dialogo tra i due giuristi diventa serrato. Il procuratore Cafiero De Raho batte su un punto: «Il vero mafioso è quello che non dà alcun problema all’interno del carcere, che non crea tensione alla direzione, anche perché il mafioso tende ad infiltrarsi nelle istituzioni, a controllarle dall’interno. Lei dovrebbe sapere che dopo Capaci, la ndrangheta diede inizio a una parentesi eversiva, poi interrotta, perché stavano bene con le istituzioni». E ancora: «Non si può ignorare la scelta del legislatore di concedere benefici solo di fronte a una scelta netta di collaborazione con lo Stato – aggiunge Cafiero de Raho -, occorre chiarezza sul punto e il semplice rimando a un giudice di sorveglianza non può essere sufficiente, bisogna che tutti noi, avvocati compresi pretendano investimenti su questa materia. Riforme a costo zero sono inutili». In che senso? «Le sole relazioni di buona condotta per un boss detenuto non possono bastare a concedergli benefici». Tocca agli avvocati Attilio Belloni, Giuseppe Guida, Annamaria Ziccardi, al giudice Adriana Pangia, a Samuele Ciambriello ribadire il no ad ogni forma di tortura, magari valorizzando anche uno slancio dissociativo.