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I beni confiscati alle mafie

Bloccato il tesoro delle cosche

Crescono le confische, ma solo il 3% dei beni viene riassegnato. È difficile recuperare le aziende

Qualcosa vorrà dire se tre coop che danno lavoro a cento persone sono la più grande azienda di Corleone». È il segno che «si può cambiare». Riconfermato venerdì scorso alla guida di Legacoop, Giuliano Poletti commenta i dati più recenti sui sequestri dei beni alla criminalità organizzata che La Stampa ha potuto visionare.

Le cifre mettono in luce l’aumento di beni immobili e di aziende sottratti alle mafie. Nel 2010 l’“Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati alla criminalità organizzata” (Anbsc) ne ha bloccati 11.234 contro i 10.421 confiscati nel 2009. L’81 per cento è concentrato in quattro regioni meridionali, quelli dove è anche più forte la presenza della criminalità organizzata. Quasi la metà dei beni e delle aziende confiscati è in Sicilia (4.983, il 44, 36% del totale); a seguire Campania (1.687, il 15, 02%); Calabria (1.556, il 13, 85%) e Puglia (922, l’8, 21%).

Ma subito dopo le prime tre regioni del Sud dov’è più scontato che siano frequenti le confische spicca- davanti alla Puglia – la Lombardia (963, l’8, 57%). Numerosi i beni bloccati anche nel Lazio (510, il 4, 54%), a dimostrazione che le mafie penetrano ormai senza problemi il tessuto economico del Centro e del Nord del Paese. Un fatto messo in evidenza anche dall’ultimo rapporto della Direzione nazionale antimafia che parla di una vera e propria colonizzazione delle regioni settentrionali da parte di mafia, ’ndrangheta e camorra.

Salta agli occhi, tuttavia, che da aprile dell’anno scorso, da quando esiste l’Anbsc, poco più del tre per cento di questi beni sono stati riassegnati, appena 355. «Effettivamente ci sono vari problemi a sbloccarli e a riaffidarli», conferma Poletti.

Vanno fatte tuttavia delle distinzioni. «Un conto – argomenta – sono i beni immobili normalmente assegnati ad amministrazioni locali per usi di finalità pubbliche». Un conto, invece, le imprese: «Un’azienda che proviene da un contesto malavitoso spesso ha agito in un contesto anormale, non di mercato». In altre parole, «un conto è produrre e vendere calcestruzzo dove la mafia obbliga poi gli altri a comprare, un conto è produrlo dove la mafia ti spara se solo ci provi».

Liberare un’impresa così, protetta ma fallimentare, da un ambiente mafioso può significare ucciderla. È in sostanza l’allarme lanciato anche di recente da Mario Draghi. Il governatore della Banca d’Italia ha anche messo in relazione la presenza delle mafie con il Pil pro capite per dimostrare gli effetti devastanti delle imprese che si consegnano alle mafie, la loro “antieconomicità” per l’intero sistema. Tornando ai motivi che rallentano la riassegnazione dei beni mafiosi, Poletti ne cita altri, più legati a procedimenti che «dovrebbero essere resi un po’ più fluidi». Alcuni «sono interclusi, cioè parte di beni di altri soggetti. E se un bene è cointestato a un indagato non è che si può sequestrare agli altri». Altro problema: «i beni in garanzia, bloccati da ipoteche bancarie. Non sono più del malavitoso ma non possono essere sbloccati». Legacoop si occupa ormai da anni della riconversione dei beni. «E anche per noi non è mica semplice farci assegnare questi terreni o beni. Provengono da situazioni delicate, difficili o a volte pericolose».

Tonia Mastrobuoni

(Tratto da La Stampa)