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Grandi opere: corruzione in corso. Così gli appalti diventano il regno delle tangenti

 

L’Espresso, Martedì 29 novembre 2016

Grandi opere: corruzione in corso. Così gli appalti diventano il regno delle tangenti

Il traffico di mazzette è cambiato, come il modo di versarle. Dalle valigette ai politici si è passati a consulenze, prestanomi e affidamento lavori. Un nuovo sistema basato su triangolazioni e più difficile da smantellare

DI PAOLO BIONDANI E GIOVANNI TIZIAN 

Corruzione, affari miliardari, omertà e ricatti. Che diventano un sistema. Il noir del calcestruzzo è servito. La trama si ripete in decine di cantieri delle grandi opere. Gli appalti più ricchi d’Italia. Quelli che codici e protocolli per la legalità avrebbero dovuto rendere impermeabili alle mazzette e ai favoritismi privati. Invece proprio i lavori dichiarati strategici, dalle nuove autostrade all’alta velocità ferroviaria, finanziati con fiumi di denaro pubblico, sembrano un suk del malaffare. Proprio come negli anni neri di Tangentopoli.

Vent’anni fa, le inchieste milanesi di Mani Pulite fecero esplodere, con centinaia di arresti e oltre mille condanne definitive, il vecchio sistema della corruzione diretta: soldi ai politici (o ai manager pubblici nominati dai partiti) in cambio di appalti d’oro per le aziende privilegiate. Oggi le nuove indagini, da Firenze a Genova, da Roma a Reggio Calabria, mostrano che la grande corruzione continua, con un’evoluzione della tecnica. Il nuovo sistema disegnato dagli atti d’accusa scorre su tre livelli. Ora come allora i colossi italiani delle costruzioni, rappresentati da manager di altissimo livello, stringono accordi illeciti con i tecnici che gestiscono gli appalti. In cambio, devono pagare consulenze a certi studi professionali o cedere subappalti ad altre imprese private, che giocano di sponda: i titolari sono prestanome o complici che si dividono i soldi con i corrotti. Una Tangentopoli modernizzata, più difficile da smascherare. Anche perché i pochi che conoscono i segreti del sistema hanno un fortissimo potere di ricatto.

L’Italia della Banda Bassotti

Ettore Pagani è uno dei 35 arrestati, il 27 ottobre scorso, nelle indagini collegate di Roma e Genova sulle grandi opere. Come manager del gruppo Salini-Impregilo, è diventato vicepresidente del Cociv, il consorzio privato (composto da Salini-Impregilo Condotte e Civ) che gestisce gli appalti pubblici della Tav Milano-Genova. Ed è uno dei protagonisti dell’intercettazione più eloquente: l’azienda di «zio Pietro», cioè Salini, vuole soldi dalla società pubblica Italferr, che Pagani chiama «zio Paperone». E a fare da tramite è il tecnico che dovrebbe vigilare sull’appalto, Giampiero De Michelis, (anche lui agli arresti) che assicura di essersi mobilitato, testualmente, «con tutta la banda Bassotti».

Con la coppia controllore-controllato è finito in carcere anche Michele Longo, top manager per l’Italia di Salini-Impregilo e presidente del Cociv. Le cimici piazzate nei loro uffici hanno svelato la spartizione di decine di appalti, compresa la Salerno-Reggio Calabria. Pagani, lamentandosi dell’avidità dei tecnici, parla di un sistema che dura da anni: «Siamo stati noi ad aver abituato questa gente ad operare in un certo modo», spiega il dirigente della Salini, che aggiunge: «In passato lo abbiamo fatto su Cavet. E poi sulla Salerno-Reggio… E da altre parti ancora». Cavet è il consorzio dell’alta velocità in Emilia e Toscana.

Salini-Impregilo è il più grande gruppo italiano di costruzioni, con 6 miliardi di fatturato, e guida anche la cordata Eurolink (insieme a Condotte) per il Ponte sullo stretto di Messina, rilanciato dal premier Matteo Renzi a fine settembre, alla festa per i 110 anni di vita dell’azienda romana. Che nel maggio scorso ha designato come presidente di Eurolink proprio Longo, il manager ora sotto accusa sia a Roma che a Genova.

Il “mostro” e l’amico calabrese

Il primo beneficiario del nuovo sistema corruttivo, secondo l’accusa, è Giampiero De Michelis, ingegnere, che da anni colleziona ruoli di “direzione lavori”, cioè controllore pubblico (in teoria) degli appalti. In realtà De Michelis chiude gli occhi sui ritardi, non denuncia l’uso di materiali scadenti e pericolosi (come il «cemento che sembra colla») e certifica furbi «stati di avanzamento lavori» per sbloccare i soldi statali per la nuova Tav (valico dei Giovi) e per l’autostrada Salerno-Reggio. In cambio i manager della Salini gli promettono, e in parte versano, milioni «sotto forme di commesse in favore di società a lui riconducibili». Diventato così «una pedina in grado di fare il gioco del consorzio privato», come lo definiscono i pm, l’ingegner De Michelis si sente sempre più forte.

E nel 2015 si mette in proprio: dirotta i subappalti-tangente a un suo prestanome conosciuto nei cantieri della Salerno-Reggio. Un imprenditore calabrese, Domenico Gallo, sospettato di frequentazioni mafiose. Quei subappalti a rischio preoccupano un manager della Salini, che accampa ostacoli legali: «Ho già un elenco di società che hanno partecipato alla gara precedente…». Ma De Michelis tiene duro: «L’incarico può essere anche ad personam». «Sì, lo so, lo so», acconsente il manager, che con gli altri capi-azienda si lamenta dell’ingegnere: «Abbiamo creato un mostro». Alla fine è proprio la voce di “Mimmo” Gallo a descrivere l’impasto che governa le grandi opere: «Tra chi fa il lavoro, la stazione appaltante e i subappaltatori deve crearsi l’amalgama. Se ognuno tira e l’altro storce non si va più avanti». «Amalgama» è diventato il nome dell’inchiesta: le tangenti tra controllori e controllati sono il cemento della spartizione di soldi pubblici.

Il figlio dell’uomo di Stato

Quando è finito in cella, De Michelis era ancora uno dei tecnici della Sintel Engeneering, una società privata che ha diretto decine di opere pubbliche. Fa capo a Giandomenico Monorchio, figlio di Andrea, l’ex ragioniere generale dello Stato, poi diventato presidente di Infrastrutture Spa, la società pubblica per il rilancio delle grandi opere, ora assorbita dalla Cassa depositi e prestiti. Intanto Monorchio senior è passato al privato: è presidente del consiglio sindacale della Salini spa. Il figlio Giandomenico invece è agli arresti. Monorchio junior aveva capito la logica del sistema: «La gente deve sapere stare al mondo… se ormai le cose sono divise, sono divise per tutti», si lascia scappare in un’intercettazione. Che sembra riassumere la regola base di un codice parallelo, non scritto, dei lavori pubblici: l’equa spartizione.

La coppia Monorchio-De Michelis puntava pure alla nuova stazione di Firenze per l’alta velocità, affidata al consorzio Nodavia, di cui fa parte la società Condotte. Volevano inserire un amico loro come direttore lavori: «un uomo nostro», che risponde al nome di Giovanni Fiordaliso, tecnico dell’Anas. Per l’azienda statale delle strade, peraltro, Fiordaliso ha fatto il direttore lavori in un tratto della Salerno-Reggio Calabria finito sotto sequestro per «gravi difetti strutturali».

Ma quando è nato il sistema? La Sintel era regina degli appalti già da molti anni. Come confermano i colloqui registrati dai carabinieri di Firenze nel 2014, con l’indagine che ha scalzato due protagonisti: Stefano Perotti, super consulente pubblico-privato, ed Ettore Incalza, responsabile delle grandi opere e braccio destro dell’allora ministro ciellino Maurizio Lupi, costretto alle dimissioni per i regali ricevuti. Rilette oggi, quelle intercettazioni mostrano che le società di Monorchio junior e di Perotti avevano ottenuto insieme, dal Cociv, la direzione lavori per il Terzo valico. «Senti, ma la novità di ’sto cazzo di contratto?», chiedeva il primo.

Dopo l’arresto di Perrotti, la Sintel è rimasta da sola a dirigere la Milano-Genova. Una grande opera che deve molto a Monorchio senior: nel 2005 fu l’ex ragioniere a imprimere il bollo definitivo su quella tratta della Tav, finanziata dallo Stato (Cipe) con 4,7 miliardi, poi lievitati a più di 6. Un altro esempio di convergenza sono le telefonate tra Ettore Incalza e Giandomenico Monorchio, preoccupato che si perdano i finanziamenti pubblici alla statale 106, arteria strategica per la Calabria. Incalza lo rassicura, in un dialogo che i carabinieri definiscono «molto cordiale», e lo saluta così: «Ciao bello!».

Lunardi e la legge obiettivo

Pietro Lunardi è l’imprenditore ed ex ministro del governo Berlusconi a cui è intitolata la legge del 2002 sulle grandi opere. Una contro-riforma che ha sottratto le infrastrutture strategiche alle regole europee: niente gare, niente concorrenza. A gestire i soldi pubblici è un consorzio privato, il “general contractor”.

La norma affida alle stesse aziende perfino la nomina del direttore dei lavori: i magistrati osservano che «in nessun paese del mondo è il controllato a scegliersi il controllore». Oggi tra gli indagati a Roma c’è anche Giuseppe Lunardi, il figlio dell’ex ministro, che guida il gruppo di famiglia, Rocksoil. Per ottenere un incarico dalla Cociv, anche Lunardi junior, secondo l’accusa, avrebbe dovuto promettere consulenze e subappalti alla coppia De Michelis-Gallo.

La mangiatoia di Venezia

L’odore di sistema diventa ancora più forte analizzando la composizione dei consorzi. In cordata con Salini-Impregilo, per molti degli appalti ora incriminati, compaiono due grandi società romane: Fincosit e Condotte. Entrambe fanno parte anche del club dei privilegiati del Mose: le dighe mobili che dovrebbero salvare Venezia dall’acqua alta. L’opera è già costata allo Stato più di quattro miliardi, dopo vent’anni non è ancora finita e il preventivo di spesa finale è salito a 5,6. Nel 2014 i magistrati di Venezia hanno arrestato decine di imprenditori e politici per una corruzione colossale.

Il sistema Mose si è rivelato il modello (peggiorativo) delle legge obiettivo. A Venezia, infatti, non si è mai fatta nessuna gara, neppure per scegliere il general contractor; per cui tutti i soldi pubblici sono finiti direttamente al consorzio privato. Che per oltre un decennio ha avuto un solo problema: corrompere i politici, tra cui spicca l’ex governatore veneto ed ex ministro forzista Giancarlo Galan (condannato). Anche i manager di Mazzi-Fincosit e Condotte sono stati arrestati e condannati a Venezia. Stessi protagonisti, altro sistema. O forse solo un altro pezzo di un super sistema.

Milano tra Expo e Mose

L’uomo forte del consorzio per il Mose, prima degli arresti di Venezia, era Piergiorgio Baita, manager e azionista della Mantovani spa. Incarcerato già nel 2013, Baita confessa un decennio di reati veneti, patteggia la sua condanna e rientra nelle grandi opere a Milano, con la piastra dell’Expo: un appalto da 272 milioni, vinto con un ribasso record del 40 per cento, cancellato però dalle prevedibili varianti per finire in tempo i lavori. Questa indagine milanese è stata riaperta. E il segreto sulle intercettazioni ambientali più scottanti è caduto. In una di queste Baita spiega il sistema ad Angelo Paris, l’ex responsabile tecnico di Expo. Lo stesso Paris poi arrestato insieme a tre big della Tangentopoli storica: l’imprenditore vicentino Enrico Maltauro, il compagno Primo Greganti e l’ex parlamentare berlusconiano Gianstefano Frigerio.

Tutti condannati per le mazzette su alcuni appalti dell’Esposizione e della Città della Salute (un ospedale da 323 milioni). Il colloquio tra Mr. Mose e Mr. Expo è stato registrato dalla Guardia di Finanza il 24 aprile 2014. Baita esordisce vantando uno stretto rapporto con Antonio Rognoni, il super ingegnere delle grandi opere lombarde nell’era Formigoni, e rassicura Paris, che aspira a prenderne il posto. Rognoni è stato ammanettato pochi giorni prima, per l’inchiesta sulla corruzione dei consulenti legali che preparano le gare d’appalto. Anche Paris sta per essere arrestato, ma non lo sa, e chiede a Baita a cosa puntino i magistrati.

«Non credo che si siano accontentati di questo», gli risponde il signore del Mose, che aggiunge: «C’è un’altra indagine molto importante in corso… Sulla Pedemontana Lombarda, sulla gara del secondo lotto… Che ha vinto Strabag». Paris: «Qual è il problema? Perché ha vinto Strabag?». Baita, a voce bassa: «Perché Impregilo, che aveva vinto il primo lotto, non ha rispettato alcuni impegni… rispetto a delle persone che erano garanti di Podestà e Formigoni». Paris: «Rispetto a delle persone… cosa vuol dire?». Baita: «Che loro si erano impegnati a dare del lavoro e probabilmente altre utilità… a degli intermediari di varia natura». Paris: «Non è stato fatto. E quindi sono stati puniti». Baita: «Esatto».

L’autostrada dimezzata

La Procura di Milano indaga da allora proprio sulla Pedemontana lombarda, sopra Milano. Una grande opera cara alla Lega, che però è ferma a meno di metà tracciato. Per cui quella superstrada da 4,2 miliardi resta semivuota, come la gemella Brebemi. Il primo tratto l’ha vinto Impregilo (con Astaldi, Gavio e Pizzarotti), dopo una gara rocambolesca. Il responsabile dell’appalto, Giuliano Lorenzi, fa finire il tracciato a 800 metri dallo svincolo, in aperta campagna. Per cui il pezzo mancante viene «riassegnato ex post» proprio a Impregilo. Creando così un contenzioso legale da tre miliardi con gli esclusi. Oggi l’ingegner Lorenzi è tra gli arrestati con l’accusa di aver truccato gli appalti ferroviari in Liguria.

Con il secondo lotto, vinto a sorpresa nel 2011 dal colosso austriaco Strabag, la procedura è ancora più bizzarra: al mattino il Tar conferma l’appalto; nel pomeriggio l’allora presidente di Pedemontana, Bruno Soresina, corre a firmare il mega-contratto, che il giorno dopo viene bocciato dal Consiglio di Stato. Però ormai i giudici, in base alla legge obiettivo, non possono più annullarlo, ma solo imporre un risarcimento di 22 milioni alla società pubblica Pedemontana.

Oggi questo secondo lotto è ancora fermo. E la Pedemontana rischia il fallimento. Il governatore Roberto Maroni l’ha affidata all’ex pm Antonio Di Pietro, che lancia l’allarme: i soldi sono finiti, la società ha un anno di sopravvivenza. Dalle carte di Firenze, arrivate anche a Milano, risulta che come direttore dei lavori per la Pedemontana è stato scelto un ingegnere dello studio Spm, quello di Perotti. Mentre il progetto «free flow» porta la firma di Corinne Perotti, la figlia dell’architetto arrestato nel 2015.

I big agli atti

Nelle nuove inchieste di Roma e Genova compaiono anche i proprietari dei colossi delle costruzioni. Duccio Astaldi è indagato per turbativa d’asta: un appalto da 68 milioni che secondo l’accusa fu truccato per favorire la società Condotte, di cui è capo azienda, alleata con la cooperativa emiliana Ccc. Astaldi in luglio progettava di quotare in Borsa il suo gruppo, che con 1,3 miliardi è terzo per fatturato in Italia, due gradini sotto Salini-Impregilo.

Le due società romane sono alleate in molti appalti e i titolari frequentano lo stesso circolo canottieri Aniene. Anche Pietro Salini è citato nelle intercettazioni. Due anni fa parlava con Incalza di «problemi per l’autostrada in Libia» e di «finanziamenti per il valico dei Giovi dell’alta velocità». Oggi i tecnici della «banda Bassotti» lo chiamano «zio Pietro». E i carabinieri, intercettando il manager Longo, sentono Pietro Salini che gli chiede, con tono perentorio, di «non far vincere appalti alla Salc», che è «la società di suo cugino».

Ricatto al sistema

A indebolire «l’amalgama» è solo l’ambizione di De Michelis di gestire da sé le tangenti. A quel punto Giandomenico Monorchio vorrebbe cacciarlo, ma l’ingegnere contrattacca: minaccia di rivelare a Firenze i segreti del sistema. E per queste «manovre ricattatorie» ora è accusato anche di tentata estorsione. L’inchiesta però documenta che De Michelis ha incontrato davvero, più volte, un maresciallo della Guardia di Finanza. In un passaggio i carabinieri scrivono: «De Michelis afferma che anche un soggetto appellato “il professore” sarebbe coinvolto negli illeciti. Dal prosieguo della conversazione si comprende che intende riferirsi ad Andrea Monorchio, padre di Giandomenico». Secondo De Michelis, “il professore” avrebbe sollecitato lo sblocco dei finanziamenti per il terzo lotto della Salerno-Reggio Calabria, l’autostrada dove ha trovato lavoro la società del figlio.

De Michelis, intercettato, assicura anche di aver denunciato i retroscena del mega-appalto per il tunnel del Brennero: un’opera da 8 miliardi, che coinvolgerebbe «anche un sottosegretario». E sulla Tav, minaccia Salini in persona: «Io devo fare arrivare un messaggio a Pietro, perché le cose stanno diventando molto, molto pericolose». A fine agosto, due mesi prima dell’arresto, il tecnico si sente sicuro che lo scandalo sarà enorme: «Ci stanno gli ordini di servizio, le fotografie, c’è pure che la rendicontazione è sbagliata: hanno dovuto far cambiare la legge apposta». Un’altra sua frase, che allude a tre società-chiave (del gruppo Gavio, di Perotti e di Monorchio), è già trascritta nella richiesta d’arresto firmata a Roma dal pm Giuseppe Cascini: «Io c’ho una lettera in cui la Sina, la Spm e la Sintel si spartiscono i lavori…». Parola di Mostro delle grandi opere.