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Fuori le correnti politiche e massoniche dal Csm

 

04 Agosto 2017

di Giorgio Bongiovanni

La desecretazione dei numerosi verbali di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, tra questi le audizioni davanti al Csm all’indomani della torrida “estate dei veleni” del 1988 – quando Borsellino pubblicamente denunciò lo “smantellamento” del pool antimafia – volute dal vicepresidente Legnini, sono in realtà azioni degne degli ignavi di Dante Alighieri. Da un lato, infatti, il Legnini cura la pseudo-immagine del Consiglio superiore della magistratura che, per i suoi magistrati, funge da sinedrio inquisitore; dall’altro cerca di guadagnare consensi all’interno di una magistratura ormai sfibrata e a pezzi, che corre il rischio di un grave fallimento. E malgrado ciò è riabilitata dall’eroico lavoro di quei magistrati impegnati in prima linea nel contrasto a tutte le mafie ed alla corruzione dilagante. Non possiamo, a questo proposito, non citare le Procure più a rischio – tra queste Palermo, Reggio Calabria, Napoli – ma anche molte altre – Caltanissetta, Roma, Milano, Torino – che con esse lavorano in sinergia nella lotta al terrorismo ed alla criminalità, comune ed organizzata.
C’è però un paradosso: ovvero che proprio quei magistrati che risollevano l’azione della magistratura in Italia, il cui lavoro investigativo di pregio è tuttora riconosciuto, sono proprio coloro che il Csm non valorizza nè promuove, perseguita e, nella maggior parte dei casi, mette sotto azione disciplinare. Proprio come accadde a Falcone e Borsellino, che dal Csm ricevettero un (per usare un eufemismo) ingiusto trattamento. Lo si legge tra le righe di quelle audizioni, quando, il 31 luglio 1988, contestarono a Borsellino l’aver reso pubbliche le confidenze degli ex colleghi del pool – dopo essere approdato alla procura di Marsala – prima in un intervento pubblico, poi nelle interviste rilasciate a
La Repubblica e L’Unità. “Ritiene corretto – si chiedeva – avendo avuto delle confidenze dai colleghi, riferirle pubblicamente e addirittura farle oggetto di un’intervista?”, declassando lo “stato di notevole apprensione” vissuto dal pool antimafia all’epoca, quasi a pettegolezzi da bar, invece che prendere in considerazione il grido d’allarme con il quale il pool denunciava il rischio di perdere il prezioso patrimonio costruito durante l’istruzione del maxiprocesso.
Una situazione, alla procura di Palermo, denunciata davanti al Csm dallo stesso Falcone anche alcuni anni dopo, il 15 ottobre 1991. E, alla domanda se ci fosse stata o no, da parte del giudice, la rivelazione del contenuto delle dichiarazioni del pentito
Giuseppe Pellegriti – che accusò Salvo Lima di essere il mandante di alcuni omicidi – all’allora presidente Andreotti, Falcone affermava duramente: “Mi è stata già fatta questa domanda. Allora posi e adesso pongo sempre la stessa affermazione. Mi si deve dire chiaramente: ‘tu sei accusato di aver rivelato il contenuto delle dichiarazioni di Pellegriti ad Andreotti’. Se non mi si dice questo, allora su questo punto adotto e faccio le mie precisazioni, ma non mi si può chiedere, in maniera maliziosa non da parte – per carità – di questi signori, se per caso ho telefonato ad Andreotti, perché questo rientra nel foro personale di ciascuno (…). Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. – continuava Falcone – La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità” ma “del komeinismo”. E ancora: “Questo è un linciaggio morale continuo. Io sono in grado di resistere, ma altri colleghi un po’ meno. Io vorrei che vedeste che tipo di atmosfera c’è per adesso a Palermo. Ma veramente non lavorano più! Si trovano in una situazione estremamente demotivata e delegittimata, sono guardati con estremo sospetto da tutti”. Una denuncia che, dal passato, irrompe nei giorni nostri e non può che servire da monito, se pensiamo che a 25 anni dalle stragi del ‘92 Falcone e Borsellino vengono celebrati in pompa magna dall’organo di autogoverno della magistratura, ospitando – legittimamente – la testimonianza di una delle figlie del giudice, Lucia Borsellino, e l’intervento franco e tagliente del Procuratore nazionale antimafia Roberti (“La nomina di Borsellino alla Procura Antimafia avrebbe, altresì, costituito la pietra tombale sulla trattativa Stato-Mafia, che in quei primi giorni di giugno era stata sciaguratamente avviata“).
Ecco l’ipocrita trasparenza di cui parlavamo, l’operazione di delegittimazione che si ripete ancora oggi nei confronti di alcuni magistrati, gli stessi che mantengono vivo il valore della magistratura.
Per spiegare nel merito, rammentiamo la recente “bocciatura” dell’attuale
procuratore di Reggio Calabria de Raho, superato da Melillo per il posto di procuratore capo a Napoli – tra le procure più importanti nella lotta al crimine – nonostante il primo abbia maturato una notevole esperienza nel contrasto alla mafia ed abbia una maggiore anzianità, rispetto al secondo. Perchè, dunque, il Csm che si autoincensa nell’annunciare la desecretazione dei verbali di Falcone e Borsellino, prosegue imperterrito nella stessa strategia di ostacolo, se non peggiore, perchè almeno ai tempi di Falcone e Borsellino qualche magistrato, al Csm, tentava di difenderli pur non riuscendo ad ottenere la maggioranza? Tra questi ricordiamo Gian Carlo Caselli, il compianto Mario Almerighi, o Stefano Racheli, che all’indomani della bocciatura di Falcone come capo dell’ufficio istruzione di Palermo – poi guidato da Meli – parlò di un sentore di “massoneria” che aleggiava. Oggi, a parte pochissimi – uno su tutti, Piergiorgio Morosini – chi si preoccupa di difendere i colleghi bersagliati dal fuoco incrociato di politica e magistratura?
Tornando agli esempi nel merito. Non abbiamo mai assistito, finora, ad un’azione preventiva del Csm, in veste ufficiale, in risposta agli attacchi della politica contro le toghe più esposte. Nè ad una riforma dell’organo di autogoverno degna di questo nome (abbiamo già evidenziato l’importanza di un vero cambiamento
della struttura del Csm e delle sue logiche correntizie. Senza dimenticare il silenzio e l’ostilità del Csm nei confronti del pm condannato a morte da Riina, Di Matteo, dal procedimento disciplinare per il conflitto di attribuzione tra la Procura di Palermo e l’ex presidente della Repubblica Napolitano, alla serie di bocciature per il posto alla Direzione nazionale antimafia. Un’ostilità che, fortunatamente, si è infine conclusa con la recente promozione alla Dna per Di Matteo. Mentre, sul versante calabrese, il pm reggino Giuseppe Lombardo, più volte minacciato dalla ‘Ndrangheta e titolare di alcune delle inchieste ad alta tensione sui rapporti tra cosche e poteri forti, è stato nominato procuratore aggiunto.
Tolti questi pochi esempi di valorizzazione della meritocrazia, in questo gioco di contrasti e mancate prese di posizione sospettiamo che il Csm, dal suo vicepresidente in giù, possa essere tentato e condizionato dalla politica, che non può nè deve esercitare il suo potere sui magistrati. Questi ultimi, a loro volta, potranno impegnarsi in politica solo dopo aver abbandonato definitivamente la toga. Pena la perdita dell’indispensabile separazione dei tre poteri che, per dirla con
Lucio Battisti, devono essere “vicini, ma irraggiungibili”.
In conclusione. La magistratura non si voti all’autodistruzione, ma prenda atto del valore dei suoi magistrati, coraggiosi, incorrotti e incorruttibili, che chiedono con forza, anche sbattendo la porta, la fine delle correnti e delle sue logiche. Affinchè il Csm faccia finalmente la sua inversione di rotta.

fonte:http://www.antimafiaduemila.com