di Consolato Minniti
Coordinamento editoriale: Altomonte, Comito, Serra
Una sigla che marchia lo stragismo italiano all’alba della Seconda Repubblica. Gli attentati in Calabria, il patto scellerato tra Cosa nostra e ‘Ndrangheta, l’ombra sinistra dei servizi segreti deviati e di Gladio. Dal racconto dei pentiti alle indagini su fatti di sangue apparentemente scollegati divenuti poi tasselli di un tragico mosaico
C’è una storia che attraversa l’Italia da Nord a Sud ed incastra suoi tasselli fondamentali anche in Calabria. Una di quelle vicende complesse da raccontare, perché non contrassegnate – ancora oggi – da verità acclarate.
Per molti anni la “Falange armata” è stata una sigla quasi sconosciuta ai più, utilizzata solo dagli addetti ai lavori per identificare una serie di rivendicazioni spesso apparentemente slegate tra loro. Esse hanno finito per confondere le acque: alcune erano vere, altre false. Strategia della confusione e conseguente depistaggio. Con un obiettivo preciso: non far comprendere a tutti quale fosse il reale obiettivo di coloro che si celavano dietro questa sigla.
L’omicidio di Umberto Mormile
C’è una data che rappresenta l’inizio ufficiale di questo percorso. È l’11 aprile 1990, quando a Milano viene assassinato l’educatore carcerario Umberto Mormile. La sua auto viene affiancata da una moto con a bordo due killer che riversano sul povero Umberto sei colpi di pistola. In un primo tempo, quel delitto sembra uno tra i tanti. Quello – almeno – è l’obiettivo perseguito da chi l’ha commesso e pensato. Anzi, di più: in perfetto stile ‘ndranghetistico, bisogna delegittimare. Il collaboratore di giustizia Antonio Schettini, nelle sue prime dichiarazioni, afferma che Mormile era un personaggio corrotto, ucciso per questioni di soldi dalla ‘Ndrangheta e nello specifico dalla famiglia di Antonio e Domenico Papalia, boss mafiosi calabresi con cui Mormile si sarebbe accordato per poi disattendere gli impegni. Ma la verità non fa fatica ad emergere ben presto. La famiglia Mormile è convinta da subito che quella tesi sia una falsità assoluta.
Sta di fatto che alle 15.40 dell’11 aprile 1990, all’Ansa di Bologna giunge una telefonata anonima: «A proposito di quanto avvenuto a Milano, il terrorismo non è morto. Vogliamo che l’amnistia sia estesa anche ai detenuti politici. Non importa chi sono. Ci conoscerete in seguito». Nessuno ancora lo sa, ma quella è la prima rivendicazione della Falange Armata. Che, per l’omicidio Mormile, decide di non manifestarsi direttamente. Non è un caso che il telefonista dica: «Ci conoscerete in seguito».
Per l’omicidio di Umberto Mormile vengono condannati in via definitiva il mandante, Domenico Papalia, gli organizzatori, Antonio Papalia, fratello di Domenico, e Franco Coco Trovato, così come gli esecutori materiali Antonio Schettini e Antonino Cuzzola.
In un primo tempo si ritiene che la rivendicazione della Falange Armata, per l’omicidio Mormile, sia falsa, poiché, come si legge nella sentenza definitiva del processo “Atto finale”, Mormile sarebbe stato ucciso su ordine dei capi ‘ndranghetisti Antonio Papalia e Franco Coco Trovato, mentre l’omicidio sarebbe stato eseguito da Antonio Schettini, personaggio di vertice del gruppo di Coco Trovato, e da Antonino Cuzzola, uomo del gruppo che fa capo ai fratelli Paviglianiti.
Come raccontava già all’epoca il collaboratore di giustizia Antonino Cuzzola, Antonio Papalia gli aveva detto di aver organizzato un depistaggio delle indagini, dando incarico di effettuare delle telefonate all’Ansa in cui erano contenute rivendicazioni a nome della Falange Armata. La Corte d’Assise di Milano non ha mai creduto che potesse essere la ‘Ndrangheta ad effettuare simili rivendicazioni, individuando la causa dell’omicidio in una vendetta personale orchestrata da Domenico Papalia, il quale aveva chiesto al fratello di eliminare l’educatore milanese per non aver “accontentato” lo stesso Papalia.
Ma è nel processo ‘Ndrangheta stragista che Cuzzola spiega di aver fatto i sopralluoghi con Antonio Papalia e che Schettini aveva sparato diversi colpi mentre lui guidava la moto. Papalia, riferisce Cuzzola, «mi aveva detto che aveva fatto telefonare, o doveva telefonare, ma mi pare che aveva fatto telefonare dal distributore di Modena, un giornale di Bologna, dicendo che le “falange armate” avevano colpito l’educatore e via». Il numero a cui chiamare, secondo Cuzzola, era stato fornito a Domenico Papalia dal generale dei carabinieri Delfino, in quanto i due, a dire del collaboratore, si incontravano spesso.
Le dichiarazioni di Cuzzola aiutano a diradare le ombre sull’omicidio di Umberto Mormile: «Abbiamo dovuto stringere i tempi e andar lì e eliminar l’educatore, perché aveva messo la voce in giro he lui conosceva che ‘sto Domenico Papalia, a Parma, faceva i colloqui con ‘sti servizi». Cuzzola precisa che Mormile viene ucciso perché aveva saputo che Domenico Papalia otteneva i permessi grazie all’appoggio dei servizi segreti.
Il collaboratore Vittorio Foschini, da soggetto legato alla famiglia Papalia, spiega come Mormile si fosse accorto che Domenico Papalia conservava ancora contatti con esponenti di ‘Ndrangheta, facendo rapporti negativi sul punto all’autorità giudiziaria. Sicché, si era pensato anche di corromperlo, con esito negativo. Da qui la decisione di eliminarlo. Poi la telefonata di rivendicazione a firma “Falange Armata”. Per Foschini «i servizi segreti gliel’hanno detto ad Antonio Papalia e lui l’ha detto a Totò Brusca di fare la telefonata al giornale, perché nel carcere di Opera c’erano dei terroristi detenuti e allora dice… i servizi segreti dice: “La faccia… pensano che è stato un omicidio terroristico, non ‘ndranghetistico».
Il pentito Fiume: «Il “Consorzio” e i servizi come mandanti»
Di straordinario interesse è anche quanto dichiarato dal pentito Nino Fiume al processo ‘Ndrangheta stragista. L’ex appartenente alla cosca De Stefano, infatti, afferma che l’uccisione di Mormile sarebbe stata eseguita da Totò Schettini, per decisione del “Consorzio”. Esso, costituito tra il 1986 ed il 1987, sarebbe stato il «potere assoluto che domina su tutti, perché all’interno c’era ‘Ndrangheta, Cosa Nostra, Camorra e Sacra Corona Unita». Sarebbe stato proprio il Consorzio ad organizzare l’omicidio Mormile, sebbene esso prendesse ordini dai servizi segreti che erano i veri mandanti.
Sono oltre 1700 gli episodi (tra telefonate, lettere minatorie e comunicati) in cui compare la sigla “Falange armata”. Le prime risalgono alla cosiddetta “falange armata carceraria”, poi solo “falange armata”.
Con riferimento all’omicidio Mormile, vi è una rivendicazione con la sigla “falange armata carceraria”. Il giorno stesso dell’omicidio, infatti, l’11 aprile del 1990, giunge al centralino dell’ispettorato distrettuale degli istituti di prevenzione e pena di Milano una telefonata dal seguente tenore: «Pronto, ispettorato carceri? Cosa siete capaci a fare ai detenuti bravi e a quelli cattivi?». Poi una risata finale. La chiamata si aggiunge all’altra avvenuta nello stesso giorno a Bologna. Seguono poi altre chiamate, nei giorni successivi, nei confronti di altri educatori, senza che vi fosse una rivendicazione.
Ma una data che, in questa storia, va certamente cerchiata in rosso è quella del 27 ottobre del 1990, quando all’Ansa di Bologna arriva una chiamata in cui si rivendica per la prima volta l’omicidio Mormile con tanto di firma “falange armata carceraria”, con critiche alla legge “Gozzini” e l’annuncio di altre telefonate successive che a Bologna, nei pressi della stazione, era stata lasciata una bobina contenente indicazioni utili per ciò che riguardava “Gladio”, la strage di Bologna ed altro. Seguono chiamate con un tenore simile: «Attenzione, la falange non perdona».
L’omicidio del giudice Scopelliti e la rivendicazione
Il 9 agosto del 1991, il giudice Antonino Scopelliti sta rientrando verso casa. All’improvviso la sua auto finisce fuori strada tra le curve chiuse della strada che conduce fino a casa. In un primo tempo si pensa ad un incidente automobilistico. Poi, l’esame cadaverico rivela subito una verità inquietante: il magistrato è stato ucciso.
Scopelliti non è un giudice come gli altri in quel periodo. Nella sua borsa vi è il faldone per eccellenza, quello del maxiprocesso a Cosa Nostra da affrontare in Cassazione.
La tesi che si affaccia ben presto è quella di un accordo tra Cosa nostra e ‘Ndrangheta per eliminare uno dei giudici più scomodi. Tuttavia, i processi celebrati finiscono con una raffica di assoluzioni.
Sta di fatto che, a distanza di qualche giorno dall’omicidio del giudice, giungono quattro telefonate. Parla sempre un uomo e lo fa a nome della Falange armata, rivendicando la paternità dell’uccisione. In un caso, il telefonista si presenta con marcata inflessione tedesca.
Le indagini conducono all’identificazione di tale Scalone, operatore penitenziario, quale autore delle rivendicazioni, il quale sapeva parlare anche con inflessione tedesca. La sentenza della Corte d’Assise di Reggio Calabria, risalente al 1996, ritiene che la Falange sia composta forse solo dallo stesso Scalone, né si rinvengono rapporti con soggetti o gruppi che avessero un qualche collegamento terroristico. Scalone, tuttavia, verrà poi assolto in appello, quindi anche tale ipotesi rimarrà priva di riscontro.
Con il processo ‘Ndrangheta stragista arriva una nuova pista anche con riferimento all’omicidio del giudice Antonino Scopelliti e quelle rivendicazioni di Falange armata. Il collaboratore di giustizia Maurizio Avola (uomo d’onore della famiglia Santapaola e figlioccio di Aldo Ercolano) – le cui dichiarazioni devono trovare ancora riscontro – afferma come sia stato egli stesso coinvolto personalmente nella strategia stragista, a partire dal febbraio 1991 e di aver partecipato all’omicidio del giudice Scopelliti, dopo aver preso parte anche ad un summit con Matteo Messina Denaro. Avola riferisce ancora che, già dalla fine del 1990, Galea aveva detto che «si doveva rivendicare tutto ciò che si colpiva lo Stato, alla “Falange armata” doveva ritornare, anche se era… qualsiasi cosa, anche se non eravamo stati noi altri, diciamo, rivendicare subito “Falange armata”». Dichiarazioni, quelle di Avola, che portano i giudici reggini a ritenere come la rivendicazione avvenuta dopo l’omicidio del giudice possa ora essere letta con una nuova chiave, «confermando l’evoluzione a far data dal 1991, in direzione politico-eversiva delle sinergie criminali tra ‘Ndrangheta e Cosa nostra che è culminata nell’appoggio della ‘Ndrangheta alla strategia stragista di Cosa nostra con la realizzazione dei tre agguati in Calabria ai carabinieri, per i quali fu effettuata rivendicazione con la stessa sigla».
Anche in ordine alle stragi continentali si registrano diverse rivendicazioni a firma Falange armata. Dalle risultanze delle inchieste sul punto, viene affermato come tali rivendicazioni abbiano la firma di Francesco Giuliano, uomo di Cosa nostra legato ai Graviano.
Dalle relazioni acquisite agli atti dell’inchiesta ‘Ndrangheta stragista, risulta come la sera del 14 maggio 1993 e nella notte/mattina del 15 maggio 1993, alcune ore dopo l’attentato di via Fauro, che aveva come obiettivo il giornalista Maurizio Costanzo, vi siano delle telefonate di rivendicazione a firma Falange armata. Così come la mattina del 27 maggio 1993, dopo la strage di via dei Georgofili a Firenze, più telefonate all’Ansa rivendicano l’attentato a nome Falange Armata. Anche dopo gli attentati di Roma e Milano del luglio 1993, vi sono rivendicazioni a nome Falange Armata.
Il collaboratore di giustizia Salvatore Grigoli ha affermato che l’ordine di effettuare le rivendicazioni Falange armata doveva «passare per forza da Giuseppe Graviano». A parere di Grigoli, era un «movimento politico estremista (…) una sorta di Brigate Rosse» e che gli attentati rivendicati con quella sigla dovevano indurre lo Stato a rivolgersi a Cosa Nostra per farli cessare, mettendo in atto uno scambio di favori, come era avvenuto in occasione del sequestro Moro.
Il collaboratore Tullio Cannella, invece, aveva affermato come Bagarella, alla notizia degli attentati del 27 luglio, si era mostrato soddisfatto dell’utilizzo della sigla Falange Armata, assumendosi, in un certo senso, la paternità del fatto.
Gli attentati ai carabinieri in Calabria e la minaccia: «Ne uccideremo altri»
Sono tre le rivendicazioni a firma Falange armata riguardanti gli attacchi in Calabria ad esponenti dell’Arma dei Carabinieri.
La prima risale al 20 gennaio 1994, con una telefonata giunta alla stazione carabinieri di Scilla, da un soggetto con voce maschile dal forte accento calabrese.
Se continuate così, ne uccideremo altri quattro. Vedete che non stiamo scherzando
Tale telefonata arriva a due giorni dall’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo ed è la chiamata di cui si attribuirà poi la paternità Consolato Villani, esecutore materiale dell’omicidio assieme a Giuseppe Calabrò. Quest’ultimo, secondo il racconto di Villani, gli riferisce che bisogna fare quella telefonata di rivendicazione «tipo una minaccia terroristica». Il numero a cui chiamare viene fornito da Calabrò.
La seconda rivendicazione risale al primo febbraio 1994, sempre tramite telefono, questa volta da una voce femminile dal forte accento calabrese, giunta ai carabinieri del Rione Modena, nello stesso giorno del ferimento dei carabinieri Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra: «Maledetti, stiamo facendo una strage. Maledetti».
La terza rivendicazione (e ultima in assoluto in Italia) è quella consistente in una missiva anonima al cui interno vi è un comunicato della “falange armata”. Essa giunge il 4 febbraio 1994 alla stazione Carabinieri di Polistena recante timbro postale del 2 febbraio 1994, il giorno dopo il terzo agguato ai danni dei carabinieri.
Quanto ci siamo divertiti per la morte dei due carabinieri, ripeto, bastardi, uccisi sull’autostrada. È un inizio di una lunga serie, e mi auguro che a Polistena facciate tutti la stessa fine. Cornuti e bastardi e figli di una gran puttana
Falange armata
Sulla vicenda è tornato anche Consolato Villani, killer dei carabinieri il quale ha affermato che quella loro azione doveva essere «terroristica», che doveva essere «tipo una minacciata come quella delle falangi armate» ed ancora «un’azione come quella di Bologna, come quella della Uno bianca».
Le parole di Consolato Villani non appaiono fuori contesto. Perché proprio alcuni episodi riguardanti la banda della Uno Bianca vedono la rivendicazione ad opera della Falange Armata. Nello specifico, quelli che riguardano la fase terroristica della stessa.
Come è noto, la banda della Uno Bianca ha un’attività che si può dividere in tre grandi fasi: la prima dell’assalto alle Coop; la seconda, quella terroristica; la terza, ossia quella delle rapine in banca. E se nel primo periodo viene dimostrata una particolare abilità militare, nella seconda fase accade che si inizi ad uccidere senza un preciso obiettivo o alla ricerca di un bottino. Si ammazza e basta. Non è un caso che con la sigla Falange Armata vengano rivendicati solo gli atti che rientrano nella fase terroristica, mentre successivamente la stessa sigla affermi di voler mettere in disarmo il gruppo emiliano. Secondo uno dei massimi conoscitori della Uno Bianca, il magistrato Giovanni Spinosa, «la banda agiva su comando, in base agli ordini della Falange Armata». A giudizio di Spinosa, quindi, la banda della Uno Bianca ebbe collegamenti con la criminalità organizzata e il mondo terroristico, di cui la Falange armata è espressione.
Accade che, nel settembre-ottobre 1993, la Procura di Roma inizi un’indagine che punta a verificare se la Falange armata, ritenuta una «misteriosa struttura di disinformazione e di ricatto», si «annidasse tra le file del controspionaggio militare». Vi era una lista di 16 ufficiali della settima divisione, quella da cui dipendeva Gladio. Secondo l’ordinanza di rinvio a giudizio della Corte d’Assise di Bologna, «i collegamenti fra le due realtà erano costituiti dalla comparsa ufficiale della sigla Falange armata che avviene nel “maggio ‘90”, in coincidenza con l’avvio di indagini della magistratura veneziana sulle operazioni di recupero di armi ed esplosivi in depositi a disposizione dei servizi di sicurezza».
È la relazione del 30 marzo del 1993, da parte del Cesis, a fornire delle chiavi di lettura in merito alla Falange armata: «Si sostiene che potrebbe essere presa in considerazione la tesi che la sigla in questione copra una struttura creata in laboratorio con specifici intenti di inserimento e di manovra in ambienti di pubblico interesse». Anche il senatore Gualtieri, all’epoca, parla di una «scheggia impazzita dello Stato».
È Francesco Paolo Fulci a formulare, per la prima volta, da vertice del Cesis, l’ipotesi che quell’elenco di 16 nominativi, corrispondente a suo avviso alla struttura Gladio, sia anche appartenente alla sedicente Falange Armata. La spiegazione è lo stesso Fulci a fornirla: «Ritengo che tutto questo in un certo senso facesse parte anche di Gladio, perché Gladio in che cosa consisteva? Nel fare anche esercitazioni per simulare quello che accade in caso di invasioni effettive, ed una delle azioni che i partigiani erano chiamati a fare in caso di occupazione da parte sovietica sarebbe stato appunto quello di creare disordini tra la gente, di creare scompiglio, sconquasso, di creare caos, di creare panico soprattutto… quindi io ho sempre ritenuto che questa non fosse altro che una semplice esercitazione».
Quale, dunque, la conclusione su Gladio e la Falange Armata? Il giudice istruttore di Venezia, Felice Casson che, per primo, si occupa di Gladio, con il provvedimento del 10 ottobre 1991 scrive come tale struttura fosse diretta essenzialmente a «controllare e neutralizzare le attività comuniste», sia «in tempo di pace» che «in caso di sovvertimento interno», dentro i confini italiani e arginare così l’influenza delle opposizioni di sinistra. Gladio viene definita quale struttura armata clandestina «che si è posta il compito apertamente illegale di favorire gli interessi di una nazione alleata ma straniera, di violare la Costituzione, di ricorrere a metodi violenti per bloccare le dinamiche democratiche, di porsi accanto e di favorire bande armate neofasciste che perseguitavano con il medesimo intendimento anticomunista le identiche finalità della Cia». Gladio sarebbe stato un «contenitore buono per tutti gli usi e disponibile per ogni illegalità, gestito dai Servizi».
Nel processo ‘Ndrangheta stragista emerge come vi fossero «collegamenti indiretti fra Gladio ed il fenomeno della Falange armata, in particolare con alcuni esponenti della settima divisione del Sismi e del cosiddetto “reparto Ossi” che, fino a qualche mese successivo alla caduta del muro di Berlino, si era occupato delle operazioni “Stay-behind”. I luoghi da cui partivano i messaggi “falange armata” coincidevano con le sedi del Sismi e le missioni degli uomini del Sismi, appartenenti alla settima divisione e al gruppo Ossi». Nella sentenza veneziana, così si conclude sulla Falange Armata: «Non è dunque una organizzazione terroristica, ma una agenzia di disinformazione gestita dallo stesso Servizio segreto militare». Vi è, però, da ammettere come, in realtà, non vi è prova che i soggetti indicati fossero i reali autori delle rivendicazioni con la sigla Falange Armata.
In conclusione, dunque, può dirsi – facendo uso delle parole utilizzate dai giudici della Corte d’Assise di Reggio Calabria – «con elevata probabilità, dietro l’utilizzo della sigla Falange Armata, in relazione ai delitti inseriti nella strategia stragista con finalità di natura politico-eversiva avviata da Cosa nostra e appoggiata dalla ‘Ndrangheta vi siano certe connivenze di soggetti appartenenti ai servizi segreti deviati in termini quantomeno di favoreggiamento dei responsabili mediante il “suggerimento” di tecniche e modalità idonee a provocare una forte reazione dell’opinione pubblica per realizzare il cambiamento di rotta auspicato dalle mafie più potenti del paese».
Fonte:https://www.lacnews24.it/longform/falange-armata-uno-stato-parallelo_168737/