Cerca

Ex Boss D avino Fiore oggi pentito.No,queste cose non si fanno in un Paese civile.Il detenuto,chiunque esso sia e qualunque cosa egli abbia fatto,non va trattato con la violenza.Il Ministro della Giustizia disponga un’indagine e punisca gli agenti autori di violenze!!!!!!! Aspettiamo che lo faccia .

Parla l’ex padrino di Somma Vesuviana Fiore D’Avino

“Io, pentito vi racconto l’orrore della cella zero”

“Io, pentito vi racconto l'orrore della cella zero”
16/05/2014, 12:17

La cella zero di Poggioreale esiste. Parola di pentito. Fiore D’Avino, storico boss della camorra campana, braccio destro del padrino Carmine Alfieri ai tempi della guerra contro le truppe cutoliane della Nco e suo luogotenente a Somma Vesuviana, in quest’intervista esclusiva a Julie, racconta la sua esperienza dietro le sbarre alle prese con picchiatori e torture.

Che cosa succede nella cella zero?

“Chiariamo prima che cosa sono e come sono fatte. Sono celle lisce, dove ci sono solo le brande per dormire. Senza lenzuola. In alcuni casi, non hanno nemmeno le ante”.

Chi ci va?

“Ci portano i detenuti che, secondo le guardie penitenziarie, danno segni di squilibrio. Ti fanno denudare e vola anche qualche schiaffo, ovviamente. Al mattino presto, prestissimo, ti danno la sveglia e ti mettono in mano una scopa per pulire e lavare. A controllare tutto c’è un agente che brandisce una mazza che porta all’estremità una spugna arrotolata”.

A che cosa serve?

“Serve a picchiare i detenuti. Perché la spugna non lascia segni”.

A lei è mai capitato di essere percosso con questi sistemi?

“A me no, ma sentivo spesso gridare”.

La cella zero dunque non è una invenzione?

“Quando c’ero io, i fatti si verificavano in una parte del padiglione Genova. Ricordo ancora un episodio: era una domenica del novembre 1993, eravamo in una cella del padiglione Firenze. Non sono sicuro sul numero di detenuti, ma eravamo sicuramente in molti. Io stavo scrivendo una lettera e altri guardavano ‘Novantesimo minuto’ alla tv. Venne un agente dicendo di abbassare il volume. Credetemi, si sentiva a stenti. Un ragazzo di Acerra si alzò e ubbidì. La tv era quasi muta. Dopo qualche minuto, ripassò la stessa guardia e disse, urlando, che la voce era ancora troppo alta e chiuse il blindato”.

E che cosa successe, poi?

“Mi meravigliai del comportamento dell’agente e chiesi se ci fosse qualcosa di personale tra lui e il detenuto. Volevo parlare con il capoposta per farci riaprire il blindato. Gli altri compagni di cella mi dissero che sarebbe stato meglio di no. Erano impauriti. Ma alla fine li convinsi e tutti insieme chiedemmo di parlare con il responsabile. Il secondino ascoltò, si fece dare tutti i nostri nominativi e dopo un po’ ritornò da noi chiedendomi di seguirlo. Io ero detenuto da circa un mese”.

Lo segue e che cosa accade?

“Appena entrai nell’ufficio al piano terra, salutai con educazione ma venni accerchiato dagli agenti. L’appuntato mi obbligò a mettere le mani dietro la schiena e in quell’istante mi arrivò uno schiaffo da uno degli agenti alle mie spalle”.

E lei?

“Sinceramente, reagii d’istinto. Gli agenti scapparono e suonarono l’allarme. Arrivò la ‘squadretta’: mi immobilizzarono e trascinarono fuori dal reparto”.

La picchiarono?

“Mi perforarono un timpano e, dopo il loro trattamento, mi ritrovai varie ecchimosi su tutto il corpo. Il giorno dopo, fui visitato da un medico al quale dissi che quei segni erano dovuti a una caduta. Era una bugia, chiaramente. Dopo qualche tempo, andai in udienza al Riesame e dissi che se mi fosse accaduto qualcosa non dovevano considerarmi matto”.

E invece?

“Fui denunciato e al processo, allora avevo già iniziato a collaborare con la giustizia, raccontai la verità. Dissi che cosa era successo, ma non ho saputo più nulla. A Poggioreale, queste cose erano una prassi. C’era una ‘squadretta’ apposita, ma ho sentito dire che anche in altre carceri usavano violenza fisica e psicologica. Ti gettavano secchi d’acqua fredda addosso”.