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Errani commissario, la ricostruzione in Emilia e quello che il governo non dice (compreso infiltrazioni mafiose)

L’Espresso, Mercoledì 31 agosto 2016

Errani commissario, la ricostruzione in Emilia e quello che il governo non dice
Un modello di gestione. Zero infiltrazioni mafiose e illegalità arginata. La narrazione ufficiale del Pd nazionale e regionale esclude ogni tipo di anomalie durante la fase post sisma emiliano. Per questo Vasco Errani è stato eletto miglior commissario di tutti i tempi. Eppure le inchieste giudiziarie e giornalistiche dicono altro

DI GIOVANNI TIZIAN

Sulla via Emilia messa in ginocchio dal sisma del maggio 2012 è nata la narrazione della ricostruzione pulita. Nella roccaforte del Pd, del resto, tutto deve procedere secondo le regole. Criminali, mazzette e clan, non avrebbero trovato spazi, recita questa narrazione. Frammenti di questo racconto trionfalistico giungono anche in queste ore, a pochissima distanza dalla notizia che Vasco Errani sarà con tutta probabilità il commissario del post terremoto che ha ridotto in un cumulo di macerie i borghi storici di Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. Errani, appunto, scelto in virtù dell’esperienza emiliana. Dove, però, non tutto è come sembra. E sono molte le cose che il governo centrale e quello regionale non dicono.

«Ha saputo garantire rigore, serietà, legalità e trasparenza. E noi oggi abbiamo ricostruito il 70 per cento di quello che avevamo, evitando infiltrazioni mafiose», intervistato da Repubblica Bologna il sindaco di San Felice Sul Panaro, Alberto Silvestri, mostra tutto il suo entusiasmo per la nomina decisa da Matteo Renzi. San Felice è il paese del cratere sismico tra i più colpiti. Il primo cittadino della bassa modenese, però, sa bene che non tutto è andato per il verso giusto. Soprattutto in tema di illegalità e inquinamento mafioso.

Vicino a San Felice, per esempio, si trova Finale Emilia. Lasciamo per un momento da parte la questione mafia, perché l’ultimo episodio che ha riguardato questo comune ha a che fare con un fatto di ordinaria furbizia imprenditoriale. Al centro dello scandalo una scuola media da 5 milioni di euro, nuova di zecca e pronta per essere inaugurata. A distanza di quattro anni esatti, però, nella ricostruzione qualcosa non ha funzionato. Chi ha realizzato l’opera, per limare sui costi, avrebbe utilizzato cemento cosiddetto “depotenziato”. Materiale fragile.

Così per inquirenti e investigatori la struttura della scuola media Frassoni non sarebbe sicura. Il paradosso è che il luogo scelto per edificare l’istituto era considerato tra i più sicuri del paese. Tanto, spiegano gli inquirenti, da indicare l’area come luogo di rifugio per la popolazione nel caso di terremoti. Cittadini beffati due volte, quindi. Perché avrebbero raggiunto una zona con un edificio, dicono i pm, per nulla sicuro.
L’inchiesta “Cubetto” – termine che indica i campioni di calcestrutto da sottoporre ad analisi di resistenza – è ancora in corso. Bisognerà attendere i risultati delle analisi del materiale sequestrato, e poi l’incidente probatorio. Coinvolte due importanti aziende. Entrambe con un ruolo in Confindustria. C’è la Betonrossi Spa, per esempio, attiva in tutta Italia e leader del settore. E la A&C di Mirandola, il cui proprietario Stefano Zaccarelli era presidente dell’associazione costruttori di Confindustria Modena, ha lasciato dopo la notizia dell’indagine a suo carico.

L’inchiesta non è finita. Il prossimo atteso passaggio sarà l’incidente probatorio. Sarà questo il momento decisivo per verificare effettivamente la tenuta della struttura. La procura vorrebbe ottenerlo prima del prossimo anno scolastico. Tra gli indagati anche il direttore dei lavori, un tecnico della Regione, Antonio Ligori. In realtà, si legge nel suo curriculum, è collaboratore di una società “In house”, la Finanziaria Bologna Metropolitana S.p.a.

Durante la ricostruzione post-sisma, ancora in corso, è stato incaricato della Direzione Lavori di numerosi cantieri per realizzare edifici pubblici, «per conto del Commissario Delegato alla Ricostruzione (cioè Vasco Errani ndr)». Ligori, 51 anni, negli ultimi quattro anni ha ottenuto la direzione di 33 strutture, più tre progettazioni. È resposabile di cantieri che valgono in tutto 75 milioni di euro.
Ma non è la prima ombra che si addensa sulla ricostruzione post sisma. Anzi, è solo l’ultima di una lunga serie di anomalie. Prima, come documentato da “l’Espresso” ormai tre anni fa, l’intromissione della ‘ndrangheta nella filiera dello smaltimento delle macerie. Poi i subappalti finiti ad aziende legate ai clan e i sospetti su una cricca di professionisti che si sarebbero arricchiti con i fondi per la ricostruzione. E infine il caso del cemento “fragile” usato per una scuola pubblica.

Per quanto riguarda le macerie, il meccanismo con cui la ‘ndrangheta ha potuto  lavorare è molto semplice. In piena urgenza con la catena del subappalto, le strade dei paesi terremotati sono state battute dai camion dei clan. Hanno smaltito una quantità importante di detriti, non residuale, stando a quanto scritto dagli investigatori del Gruppo interforze guidato dal poliziotto Cono Incognito.

Un team, questo, costituito ad hoc per vigilare sulle opere da realizzare nella ricostruzione. Hanno lavorato sodo, e prodotto decine di misure interdittive, escludendo numerose aziende, alcune delle quali già attive nei cantieri emiliani, dalla “White list”, gli elenchi della Prefettura ai quali è necessario iscriversi per poter lavorare nella ricostruzione.

C’è stato poi il caso della Bianchini costruzioni. Leader nel territorio della bassa. Fino a quando la procura antimafia di Bologna e i carabinieri di Modena non hanno scoperto la sua vicinanza alla ‘ndrangheta emiliana. Così prima è scattata l’interdittiva antimafia, e due anni dopo i proprietari sono finiti nella maxi indagine Aemilia (oltre 200 indagati, ora imputati) sui clan calabresi emigrati nelle province di Modena, Reggio, Parma e Piacenza.

La vicenda Bianchini conduce esattamente al cuore della ricostruzione. Alle cose che non hanno funzionato in materia di prevenzione. La società ha continuato a lavorare anche dopo il blocco della prefettura. Con un’altra società, è stato sufficiente cambiare il nome. Per queste anomalie la prefettura di Modena aveva disposto persino l’accesso nel Comune di Finale Emilia. La commissione scrisse una relazione in cui evidenziava diverse criticità nella gestione degli appalti. Il Prefetto chiese lo scioglimento, ma il Viminale archiviò il caso.

A  luglio del 2012 il commissario per l’emergenza Vasco Errani, aveva stanziato l’ingente somma di 56 milioni di euro, al fine di ricostruire entro la fine di settembre, edifici scolastici temporanei, a seguito della rovina di quelli esistenti. Ecco comparire di nuovo la società di San Felice (finita sotto sequestro e adesso gestita da un’amministratore giudiziario per conto del tribunale), guidata all’epoca da Augusto Bianchini – ora imputato per concorso esterno. In questo caso è sospettata di aver smaltito amianto in alcuni cantieri della ricostruzione. Nelle strade, ma anche in una scuola di Reggiolo. È emerso,  inoltre, dall’indagine Aemilia che nei cantieri di Bianchini lavoravano maestranze assunte grazie all’intermediazione dei boss delle ‘ndrine emiliane. Trattati come schiavi. Con il salario decurtato per pagare il “pizzo” ai padroni delinquenti. Sfruttatamento in piena regola, che ha spinto i sindacati a costituirsi parte civile nel maxi processo in corso a Reggio Emilia.

In Emilia, dunque, la ricostruzione è stata inquinata. Non sveliamo nulla riportando un’intercettazione tra due affiliati che nei giorni successivi al sisma ridono alla grande, e sui morti, per le opportunità di lavoro che si prospettavano. Come fu per L’Aquila, anche qui gli affaristi hanno visto nelle macerie nuove opportunità.

Ma la ’ndrangheta si è infilata nella ricostruzione anche ad un altro livello. Ci sono indagini che tuttora proseguono, e puntano verso le figure dei tecnici. Collaboratori o assunti da imprese contigue alle cosche. Il sospetto è raccolto dall’Arma dei Carabinieri che ricevono la segnalazione di una donna sfollata. Si era rivolta a loro perché non la convinceva la dinamica in cui era finita: l’ingegnere incaricato di redigere il progetto di ricostruzione aveva assoldato un professionista di fuori regione, facendo lievitare le spese.

Quell’ingegnere ha rapporti con uomini del clan. Ed è socio di uno studio tecnico della bassa emiliana, tra i lavori ottenuti anche la progettazione della sicurezza di un cantiere post sisma a Finale Emilia. Tutto questo -tralasciando episodi minori di truffe e raggiri – nella narrazione renziana della ricostruzione emiliana non può esistere. Il rischio è di passare dalla parte dei “gufi”.