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Ergastolo ostativo: da cosa nasce e perché non va abolito

Ergastolo ostativo: da cosa nasce e perché non va abolito

Stefania Pellegrini

23 Aprile 2021

Dopo la pronuncia della Corte Costituzionale si riaccende il dibattito su una misura che nel campo della lotta alla mafia fu varata come risposta alle stragi

A pochi mesi dalla precedente pronuncia, la Corte Costituzionale si è nuovamente espressa ritenendo che la previsione che esclude la concessione della libertà condizionale per i condannati all’ergastolo per reati di mafia (artt. 4 bis c. 1, 58 legge 354/75 e 2 d.l.n. 152/1991) sia in contrasto con il principio di rieducazione della pena (art. 27 Cost.), con quello di eguaglianza (art. 3 Cost.) e con il divieto trattamenti inumani e degradanti (art. 3 Cedu). Nello specifico, viene messa in discussione la preclusione assoluta a tale beneficio per chi non abbia collaborato con la giustizia, anche quando il ravvedimento è sicuro. Appare evidente come la Suprema Corte ritenga che il ravvedimento del mafioso possa essere desunto anche da elementi non necessariamente sfocianti in una collaborazione di giustizia e che il regime carcerario speciale riservato ai condannati per reati di mafia c.d. irriducibili debba sottostare ai principi sanciti dalla carta costituzionale e quindi finalizzato alla rieducazione degli stessi. Con questo ulteriore intervento dell’Alta Corte, appare chiaro come si sia inesorabilmente innescato il processo di affievolimento di uno strumento di lotta alla criminalità organizzata che ha già ampiamente dimostrato la sua efficacia. Per comprendere la portata di questa svolta epocale è necessario attivare un dibattito che prenda in considerazione una serie di elementi dai quali non si può prescindere: i reati di mafia non posso essere assimilati ad altri tipi di reati, di conseguenza il loro trattamento penitenziario deve necessariamente basarsi su principi diversi; le intenzioni del legislatore che ha introdotto questo regime carcerario non coincidono con la finalità rieducativa, ma erano indirizzate ad altre esigenze di politica criminale; la collaborazione di giustizia rappresenta l’unica reale dimostrazione che il condannato per mafia abbia rescisso ogni legame con la precedente vita consociativa; per di più, la collaborazione va sollecitata e incentivata, in quanto rappresenta uno dei pochi strumenti di conoscenza delle dinamiche interne alla consorteria criminale.

Specificità del reato di mafia

Considerare la mafia alla stregua di un sistema criminale comune è del tutto erroneo e pericoloso, poiché, in quanto cultura si propone e si impone come identità totalizzante. Si tratta di un “fondamentalismo”, un tipo di pensiero che è dentro la persona, ma non consente la soggettività, in quanto non è il soggetto che decide e pensa, ma è la realtà sovrapersonale in cui è inserito e che ha dentro.

L’associato di mafia non è un criminale comune, ma è un soggetto che, nel momento in cui commette un delitto fine dell’associazione, ne ha già condiviso pienamente, non solo la fase realizzativa, ma anche quella eventuale, della gestione post delictum.

Il mafioso aderisce consapevolmente ad una associazione che ha come elemento identitario e di forza quello di resistere all’intervento statale anche mediante il mantenimento del vincolo tra l’associazione e l’associato, perfino quando questo si trovi in carcere, finanche la sua detenzione abbia carattere perpetuo. In questa prospettiva, risulta estremamente rilevante considerare la dimensione collettiva del crimine organizzato. Una visione “individualista” delle esigenze preventive si rileva inappropriata, in quanto la misura non può essere rivolta al singolo, piuttosto è diretta al di fuori della dimensione penitenziaria, finalizzata ad evitare le attività del gruppo esterno. Ne sono conferma i numerosi accertamenti giurisprudenziali che hanno dimostrato quanto sia cogente l’interesse delle associazioni mafiose a instaurare rapporti comunicativi con gli affiliati detenuti, così da mantenerne l’operatività.

Il legame che unisce gli affiliati affonda le proprie radici in una cultura del comparaggio e della fedeltà, in cui il silenzio funziona come segno di riconoscimento. Un silenzio manifestazione di quella omertà che è espressione della carica intimidatoria mafiosa e che porta il mafioso al rifiuto incondizionato ed assoluto a collaborare con gli organi dello stato. Una scelta assunta, non solo per timore di vendette, ma anche per volontà di proteggere la consorteria alla quale si appartiene e per disconoscere ogni legittimazione allo Stato.

Di fatto, il cemento che lega tra loro gli associati, più che il timore e dalla soggezione, è costituito dalla comune adesione ad una specifica subcultura che il regime carcerario tradizionale non è in grado di affievolire. Solo una forma detentiva differenziata ed idonea ad interrompere la comunicazione operativa tra il detenuto e l’associazione di appartenenza può recidere quel vincolo che lega indissolubilmente i consociati ad un sistema di valori che ne costituiscono la cementificazione di rapporti inscindibili.

Isolare non educare

Il regime del 41 bis o.p. nasce in specifiche circostanze storiche. Siamo all’indomani della strage di via d’Amelio. La notizia venne accolta con disperazione e amarezza da parte di tutta la popolazione, ma festeggiata con un brindisi dai mafiosi incarcerati all’Ucciardone. Ulteriori indagini rivelarono che lo champagne venne condotto in carcere in concomitanza con la preparazione dell’attentato, avvalorando l’ipotesi che i capi mafia detenuti fossero a conoscenza del progetto criminale e che attendessero la notizia dell’avvenuta strage per stappare le bottiglie. Divenne urgente introdurre un provvedimento finalizzato ad assicurare la recisione dei legami esistenti tra le associazioni criminali e i soggetti detenuti, riducendo e filtrando i contatti tra i boss detenuti e gli affiliati all’esterno. Una misura non volta ad impedire la materiale commissione dei delitti da parte del prevenuto, piuttosto orientata ad ostacolare che l’ideazione e la programmazione di crimini si realizzasse all’interno del carcere. Emerse chiara la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un singolare fenomeno criminale che necessitava di interventi specifici in grado di recidere la fitta rete di contatti e il conseguente sistema di comunicazioni non ostacolato dalle mura carcerarie. Proprio tale singolarità ha consentito al nostro legislatore di stabilire una diversa graduazione tra le molteplici funzioni della pena, riducendo lo “spazio educativo” a favore della finalità generalpreventiva che impegnerebbe lo Stato a tutelare i diritti fondamentali, prima che gli stessi siano offesi.

Il valore della collaborazione

Il regime speciale trova la sua ragione proprio nelle lapidarie parole del suo ideatore. Giovanni Falcone asserì come la mafia non fosse “una semplice organizzazione criminale, ma un’ideologia che, per quanto distorta, ha elementi comuni con tutta il resto della società – una sorta di subcultura dalla quale – non è possibile staccarsene, spogliarsene come si smettesse un abito”. La decisione di non collaborare conferma l’adesione ad un credo irrinunciabile. Il boss in carcere continua ad esercitare il potere carismatico criminale ed il rifiuto di collaborare con la giustizia lo rende un modello positivo per il suo ambiente. Per contro, la valutazione di collaborare ha insita la consapevolezza che fuoriuscire dal mondo mafioso vuol dire affidarsi totalmente alla capacità di protezione dello Stato: quello che prima rappresentava il nemico da fronteggiare, diventa l’amico con cui cooperare e nelle sue mani gli ex mafiosi mettono il proprio futuro e quello dei propri figli.

In molti casi, è proprio l’esperienza del carcere che porta il detenuto verso la collaborazione, perché è proprio durante i momenti di isolamento che si vivono forti emozioni e si può giungere al ripensamento delle proprie scelte di vita. Tant’è che il regime speciale, con le sue lunghissime giornate di isolamento totale, ha spesso portato a sviluppare un’introspezione sul senso delle proprie scelte di vita.

Nell’universo culturale mafioso la collaborazione con la giustizia rappresenta l’unica vera dimostrazione che l’affiliato ha rescisso i suoi legami con l’organizzazione.

Non si tratta di una semplice volontà di “emenda del condannato”, ma assume un valore profondo nel senso che, valutando il processo di attaccamento come sopra descritto, collaborare, significa tranciare di netto un cordone ombelicale che fino a quel momento ha garantito un’identità forte e robusta, ancorché dogmatica e ripetitiva. Di fatto, solo con la collaborazione si attesta una nitida presa di distanza dal mondo criminale. In mancanza di questa, i boss continueranno ad essere capi rispettati, ai quali si deve obbedienza.

Rappresentano un modello “positivo”, andando così a rafforzare quel “capitale sociale” che raffigura la forza di un sistema criminale che per essere scardinato necessità di misure straordinarie e particolarmente adatte ad intervenire su di una struttura fondamentalista e paranoica. I boss sono equiparabili a figure mitologiche, invincibili ed il regime dell’isolamento, mettendoli a confronto con la solitudine, ha provocato il crollo della loro onnipotenza. Anche quando la scelta non è basata su di un ravvedimento profondo, ma su di un calcolo utilitaristico di avvantaggiarsi di benefici, la decisione di fornire informazioni rilevanti comporta l’indebolimento della struttura che viene fiaccata anche dalla presa di distanza pubblica ed inequivocabile di un consociato. Per contro, il ravvedimento del detenuto per mafia non può essere desunto dal suo comportamento. È notorio come il mafioso, tradizionalmente vesta gli abiti del detenuto modello. Basare la sua “redenzione” sulla valutazione del percorso trattamentale potrebbe essere del tutto fuorviante. Il magistrato di sorveglianza incaricato dovrebbe vagliare l’animo dell’ergastolano, assumendo un incarico estremamente delicato e, sulla base di “elementi” non meglio definiti, valutare caso per caso se i boss detenuti siano ancora pericolosi, soprattutto quando, nonostante la detenzione, non si siano mai distaccati dall’organizzazione, mantenendo quel “silenzio” che rappresenta un potentissimo collante per mantenere saldi i legami associativi. E’ facile pensare come questa attività lo possa facilmente esporre a ritorsioni, andando così a mettere a rischio la serenità della sua analisi.

Si torna quindi ad affermare come solo attraverso la collaborazione l’affiliato possa dimostrare di avere effettuato un percorso, più o meno intimo ed interiore, di distacco dal sistema criminale e culturale dal quale proveniva. Solo questo può essere un chiaro segnale di un avvio di un percorso di rieducazione che potrà poi essere implementato e sostenuto con una serie di progetti atti a ricollocare il soggetto in una dimensione sociale ben diversa da quella di provenienza.

L’art. 27 della Costituzione riconosce la finalità rieducativa della pena. Una rieducazione che deve tendere ad abbracciare e rispettare i valori fondamentali del vivere democratico. Esattamente quei valori che il sistema mafioso calpesta e disprezza. Ora, come si può ritenere che un mafioso che non vuole discostarsi da un sistema di disvalori, rifiutandosi di collaborare, possa compiere un percorso di rieducazione verso quegli stessi principi che il proprio sistema di appartenenza rifiuta e rinnega?

Da ultimo, preme ricordare come il collaboratore, con le sue dichiarazioni, non si limiti a descrivere episodi o fatti, ma delinei una societas con le sue strutture fondanti, le sue gerarchie di valori, i suoi meccanismi di autoconversazione. Attraverso le sue narrazioni, quindi aumentiamo anche la conoscenza di un fenomeno giungendo anche a comprendere le dinamiche criminali che sottendono alla commissione di tanti delitti.

Conforta la decisione dei giudici della Corte di rimandare l’accoglimento del ricorso ad un momento successivo, dando la possibilità al legislatore di intervenire in modo sistematico sulla normativa. Si richiama l’attenzione sulla peculiarità dei reati di mafia e sulla necessità di preservare il valore che in questi casi riveste la collaborazione con la giustizia. La riforma che si sollecita sarà estremamente complessa e delicata. Il rischio che si corre sarebbe quello di indebolire, sino al totale svilimento, uno degli strumenti più efficaci di lotta alla criminalità organizzata.

Sarà in grado il Parlamento di svolgere un ruolo così delicato e di caricarsi di una simile responsabilità? Procedere verso lo sgretolamento del regime penitenziario differenziato equivarrebbe ad abdicare al nostro stardard di efficienza nella lotta alla criminalità organizzata, frutto di decenni di elaborazioni giuridiche e sociologiche. Un Parlamento costantemente arrovellato tra crisi intestine ed impegnato nel proporre interventi che permettano al Paese di emergere dalla crisi economica e sociale nella quale la pandemia lo ha gettato, sarà all’altezza di questo compito? Riuscirà a misurarsi con una simile prova nell’arco di un solo anno? La sorte, la beffa o una congiunzione astrale favorevole o contraria, ha indotto la Corte a stabilire un limite temporale a questo intervento legislativo. La trattazione è stata rimandata al maggio del 2022.

I rappresentanti istituzionali che presenzieranno alla commemorazione del 30ismo anniversario della strage di Capaci avranno la responsabilità di guardare quelle steli dell’autostrada, quel groviglio di lamiere appartenenti alla Quarto Savona 15, specchiarsi negli occhi dei parenti delle vittime e dichiarare di aver mantenuto fede al sacrificio di chi ha lottato anche perché il regime penitenziario speciale diventasse legge.

L’autrice è ordinaria di Sociologia del diritto e Mafie e Antimafia all’Università di Bologna.

Fonte:www.antimafiaduemila.com