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Eni e Consip, dossier e depistaggi: ecco chi è l’uomo nel mirino di quattro procure

L’Espresso, 23 ottobre 2017

Eni e Consip, dossier e depistaggi: ecco chi è l’uomo nel mirino di quattro procure

Da Milano a Messina, da Roma a Palermo, i pm di tutta Italia si litigano Piero Amara. Siciliano, 48 anni, uno studio con sede nella Capitale e a Dubai, sarebbe al centro di un sistema di relazioni tra consiglieri di Stato e aziende che partecipano ad appalti milionari. Ma lui si difende: «Lobby oscure mi vogliono mettere in difficoltà. Ne uscirò pulito»

DI EMILIANO FITTIPALDI

Si chiama Piero Amara, ha 48 anni, uno studio legale ben avviato con sedi a Roma e Dubai, un mucchio di magistrati importanti come amici, un po’ di politici di destra e sinistra che lo stimano, ed è certamente l’uomo del momento. Almeno per le procure di mezza Italia, da Milano a Messina passando per Roma e Palermo, che se lo litigano per reati assortiti, e che credono che l’avvocato siciliano con natali ad Augusta non sia affatto un semplice collaboratore legale dell’Eni, ma il perno di un sistema di relazioni tra imprenditori e giudici compiacenti, o – per dirla meglio, tra consiglieri di Stato e aziende che partecipano agli appalti pubblici milionari.

Un “facilitatore” di grande potere, inserito nei board di associazioni dove sono seduti spalla a spalla avvocati e togati, di fare affari con impresari vicini al governo, di creare “cartiere” – questa una delle ipotesi d’accusa – per false fatturazioni, di costruire falsi dossier per distruggere manager pubblici e ostacolare processi penali in corso.

«Leggende metropolitane», dice Amara scuotendo il capo. «Sono solo un avvocato di provincia che ha avuto un po’ di successo e che ora lobby oscure vogliono mettere in difficoltà. Non ho nulla da nascondere. E uscirò pulito anche da questa buriana. Come diceva mio nonno, che faceva il contadino, “male non fare paura non avere”».

Partiamo dall’inizio. Se l’avo coltivava la terra, il papà di Piero, Giuseppe Amara, ha scelto un’altra strada. Quella della politica. “Pippo”, così lo chiamano gli amici, geologo per diletto e professore di matematica e fisica, sui campi non mette mai piede, preferendo megafoni in piazza e salette di partito. Giuseppe è ambizioso e capace, e già negli anni ’80 riesce a diventare un pezzo grosso del partito socialista della sua città, diventando anche presidente del consorzio Asi (area di sviluppo industriale) della zona, dove insistono da sempre importanti aziende della chimica e del petrolio.

Ad Augusta la sua influenza dura lustri, nonostante gli alti e bassi che accomuna i destini di molti dirigenti del pentapartito della prima Repubblica: finito in 18 diversi procedimenti penali per abuso di atti d’ufficio, truffa, usura, papà Amara (tranne in un caso, per cui è stato condannato in via definitiva per minacce a un pubblico ufficiale) ne è però sempre uscito alla grande, tra archiviazioni, assoluzioni o prescrizioni.

A Siracusa si narra che sia stato lui a spiegare al giovane Piero quanto importante fosse, per un politico, avere buone relazioni con i magistrati della procura. Il rampollo prediletto, accento siciliano marcato ma eloquio fluente (la madre è stata professoressa di italiano alle medie), fa il liceo classico in paese e poi si iscrive a giurisprudenza a Catania, dove diventa allievo prediletto del professore Giovanni Grasso. Un luminare di diritto penale. Amara comincia a fare l’avvocato proprio nel suo studio, e poi, grazie al rapporto tra Grasso e un altro docente di fama come Federico Stella (storico avvocato dell’Eni), nel 2002 ha l’occasione della vita, e comincia a lavorare per il Cane a Sei Zampe.

Per il nostro colosso energetico Amara junior si specializza in diritto ambientale, e difende la multinazionale nei tanti processi per inquinamento e avvelenamento in cui è chiamata in giudizio, in primis per i disastri causati dai petrolchimici di Siracusa e di Gela. «Ho una percentuale di successo del 100 per cento», spiega Piero fiero agli amici. In effetti Amara ne vince tanti, di processi. Talmente tanti che qualcuno, malignamente, comincia a pensare che le statistiche non possano essere genuine e solo farina del suo sacco, ma figlie di rapporti privilegiati tra l’avvocato e qualche giudice inquirente.

Così nel 2012 il ministero di Grazia e Giustizia manda gli ispettori alla procura di Siracusa, per indagare, in particolare, sull’operato dei pm Maurizio Musco e dei procuratori capo Roberto Campisi e Ugo Rossi. Anche se i vigilanti spiegano di non aver riscontrato «anomalie o irregolarità in ordine alla gestione delle indagini e alla definizione del procedimento», il Csm – su richiesta del ministero – spedisce d’ufficio Rossi e Musco lontano da Siracusa. Non solo. I miasmi della procura aretusea si trasformano in esposti incrociati tra gruppi di avvocati e magistrati l’un l’altro contrapposti, che finiscono in un fascicolo penale della procura di Messina. Alla fine le condanne sono pesanti. A febbraio 2017 la Cassazione ha confermato in via definitiva quelle contro i pm Rossi e Musco. Quest’ultimo si è beccato un anno e sei mesi per abuso d’ufficio perché non s’è astenuto durante una vicenda giudiziaria che riguardava l’iter di approvazione della piattaforma Oikoten. Vicenda in cui era coinvolto – come legale interessato – proprio Amara. Di cui Musco era molto amico, tanto da avere consuetudini e alcuni rapporti economici (l’affitto di un locale per una società di cui il magistrato era titolare).

«Una vicenda bagatellare, mi dispiace per il povero Musco, sulla storia di Oikoten ci sarebbe ben altro su cui indagare», protesta Piero che ci tiene a sottolineare di non aver mai abbandonato un amico in vita sua. Nemmeno Alessandro Ferraro, l’imprenditore con cui oggi è indagato a Milano per associazione a delinquere per depistaggio. L’accusa dei magistrati meneghini è grave: Amara e Ferraro (detto dai nemici “Sandro Napoli” per via delle sue origini campane), insieme al tecnico del settore Oil&Gas Massimo Gaboardi, avrebbero costruito infatti un falso dossier sull’esistenza di un fantomatico complotto contro l’Eni, e in particolare contro il suo amministratore Claudio De Scalzi. Un inganno costruito con esposti anonimi e con dichiarazioni firmate di Gaboardi, spediti prima alla procura di Trani che li ha poi trasmessi a Siracusa. Il dossier, ipotizzano ora gli inquirenti, se da un lato mirava a screditare gli ex consiglieri dell’Eni Luigi Zingales e Karina Litvack (secondo i falsi documenti sarebbero stati loro, insieme a fantomatiche spie nigeriane e imprenditori iraniani, a voler far dimettere De Scalzi a favore del capo di Saipem Umberto Vergine), dall’altro voleva intralciare proprio le delicate inchieste su Eni della procura di Milano. Quelle, per intenderci, condotte da anni dal pm Fabio De Pasquale, che ha indagato De Scalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni per alcune presunte tangenti milionarie versate in Nigeria.

Ecco: Amara junior sarebbe il regista e la mente dell’intera operazione, mentre Gaboardi e Ferraro gli esecutori materiali della spy-story inventata di sana pianta. Ferraro, sentito da L’Espresso, nega con forza ogni addebito. «Secondo la procura avrei consegnato assegni da migliaia di euro a Gaboardi per spingerlo a fare false dichiarazioni ai pm di Siracusa, come Giancarlo Longo. Ma in realtà sono io che ho ricevuto soldi da Gaboardi che mi ha pagato per alcuni lavori svolti da mie società», ragiona l’imprenditore, che ammette di conoscere da tempo Gaboardi perché «mio socio in alcune aziende del settore petrolifero in Romania».

Amara già in passato era finito nei guai della giustizia per alcune testimonianze rilasciate dall’amico Ferraro davanti ai magistrati della procura siciliana, in merito a un presunto giro di calcio-scommesse messo in piedi da calciatori del Catania. “Sandro” e Piero (che allora era il legale del presidente del Catania Antonino Pulvirenti, che qualche hanno dopo è stato accusato di aver comprato lui stesso partite in serie B) indagati “in concorso”, furono poi assolti da ogni accusa. Amara a chi gli fa notare il lungo elenco delle sue traversie ci tiene a evidenziare che, nei vari processi in cui è finito, non ha mai preso una condanna. Almeno finora. Anche un patteggiamento a 11 mesi di carcere per accesso abusivo a un sistema informatico per carpire notizie segrete dalla Dda di Catania, in effetti, si è «estinto» nel 2014, con la «cessazione degli effetti penali» del reato. E i rapporti con Ferraro? «È un amico, ma non ha nessun legame con il mio studio professionale. È da almeno vent’anni anni, ne sono sicuro, ha improntato la sua vita al rigido rispetto della legalità».

Il casellario giudiziario, però, disegna una giovinezza (e pure un presente) quanto meno turbolento: se a 19 anni Ferraro è finito in carcere per ricettazione di documenti falsi («quelle carte d’identità non erano mie, ma di un ragazzo minorenne mio amico: mi sono preso la colpa, noi meridionali siamo fatti così», ci spiega), nel 2004 “Sandro Napoli” è diventato definitivamente leggenda tra i compaesani per aver osato sfidare, dal suo piccolo concessionario di Catania, nientemeno che la Bmw di Monaco di Baviera. «È stato come Davide contro Golia», esultano ancora quelli che vogliono bene all’imprenditore.

Forse esagerano. Di sicuro, dopo aver aperto due rivenditori di moto Bmw a cavallo dei due millenni, e in seguito a inconciliabili divergenze economiche con il colosso tedesco, Ferraro prima tenta le vie legali, poi delibera («colpa del mio cattivo carattere») di passare alle maniere forti. Così “sequestra” 600 motociclette e le nasconde nelle campagne e nei garage intorno la città. «In realtà nessuno sa dove le ho messe. Non ho minacciato di bruciarne una al giorno finché la Bmw non mi dava quello che mi spettava, come invece le hanno raccontato. Le ho semplicemente fatte sparire» ricorda l’imprenditore contattato al telefono. «Le ho nascoste bene però. La Finanza ne ha trovate solo una novantina, dopo mesi e mesi di appostamenti. Lo sa, noi meridionali abbiamo una marcia in più…».

Ferraro riuscì nell’impresa che nemmeno il mago Houdini mentre era latitante: un giudice l’aveva, guarda un po’, accusato di estorsione. «Un altro pm catanese capì invece che stavo solo tentando di esercitare le mie ragioni. Forse esagerando, ma non ero certo io ad essere dalla parte del torto. Alla fine ho transato, ho restituito le moto e ottenuto ciò che mi spettava dalla Bmw, che ha ritirato le denunce. Spero comunque che queste vecchie storie non inducano i pm milanesi a pensare male di me. I miei conti con la giustizia li ho già saldati».

Se i magistrati meneghini stanno cercando di capire se per la faccenda del dossier Eni ci fu depistaggio o meno, e se i pm di Messina stanno analizzando i rapporti tra Amara e altri colleghi della procura di Siracusa (tra loro ci sarebbe proprio Giancarlo Longo, che lo scorso giugno, poco dopo l’apertura da parte del Csm di una procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità, ha chiesto di essere mandato via: ora è a Napoli), un pool di magistrati di Roma ha messo nel mirino l’avvocato di Augusta per i suoi rapporti con alcuni giudici amministrativi del Consiglio di Stato. In particolare le relazioni con Nicola Russo, di cui Amara è difensore in un procedimento penale assai delicato, e con l’ex presidente di sezione Riccardo Virgilio, che con il legale dell’Eni ha fatto qualche affare curioso.

Già: come rivelato qualche mese fa dall’Espresso Virgilio e Amara, insieme all’imprenditore Andrea Bacci, caro amico di Matteo Renzi e del ministro dello Sport Luca Lotti, hanno provato ad entrare nel business telefonico. Virgilio nel 2014 ha finanziato una società maltese per oltre 750 mila euro, e ha firmato un contratto di finanziamento che gli garantirebbe un diritto di opzione per il controllo delle quote di Teletouch. Una società tra i cui soci compaiono Amara e lo stesso Bacci, e che aveva firmato un memorandum non vincolante addirittura con Telecom Italia.

Amara, grande amico dell’ex ministro Francesco Saverio Romano, e di politici come gli ex presidenti della Regione Sicilia Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo, sottolinea che i legami economici con Virgilio sono «limpidi», e che non ci sono «mai stati conflitti di interesse nelle vertenze al Consiglio di Stato per i miei clienti. In primis con quelle che riguardano le imprese di Ezio Bigotti». L’avvocato non fa un nome a caso: Bigotti, infatti, è uno dei suoi clienti più in vista. Un imprenditore diventato famoso (suo malgrado) dopo il caso Consip: Alfredo Romeo, grande imputato dello scandalo, lo considerava – intercettazioni alla mano – il suo grande avversario nell’appalto da 2,7 miliardi per i servizi dei palazzi della pubblica amministrazione. Originario di Pinerolo, recordman dei contenziosi ai Tar e al Consiglio di Stato, insieme ad Amara e al senatore di Ala Denis Verdini, Bigotti – ha raccontato l’ex ad di Consip Luigi Marroni – qualche mese fa in un pranzo al ristorante “Al Moro” di Roma protestava contro «l’atteggiamento aggressivo» della stazione appaltante nei confronti delle sue società. «Volevo solo» ha specificato in un esposto lo stesso Bigotti «parlare a Marroni di taluni gravi vicende» che riguardavano Alberto Bianchi. Un avvocato consulente della Consip celebre per essere presidente della Fondazione Open, la cassaforte del neo segretario del Pd Matteo Renzi, e uno dei capi del Giglio Magico.

«Bianchi era, in quanto legale Consip, in un caso controinteressato avverso la impugnazione di una gara Consip aggiudicata a Siram; ciò non di meno e al contempo Bianchi era, in numerosissime cause amministrative anche presso il Consiglio di Stato, l’avvocato che assisteva e patrocinava proprio la Siram» chiarisce l’imprenditore di Pinerolo. «Marroni reagì molto male, negando la circostanza. Aggiunse pure che qualora fosse stata vera, sarebbe stato gravissimo». Quello che Bigotti non spiega è che Siram combatte contro di lui, da anni, una battaglia legale durissima nei Tar e nel Consiglio di Stato. In ballo c’è un presunto “scippo” delle Soa, cioè le certificazioni obbligatorie senza le quali un’azienda non può partecipare a gare d’appalto per l’esecuzione di appalti pubblici. Documenti che le aziende di Bigotti hanno ottenuto attraverso la cessione di un ramo d’azienda di Siram. Che ora sta tentando disperatamente di riottenerle indietro.

Ad oggi, se i pm romani hanno mandato la Finanza a perquisire sia le aziende di Bigotti sia di altri concorrenti della gara FM4 (tra cui i francesi di Cofely, secondo Marroni «molto vicini» a Denis Verdini), è un fatto che Piero ed Ezio siano stati indagati insieme per alcuni reati tributari. Insieme al solito Ferraro, al socio di Amara Giuseppe Calafiore, e all’imprenditore Fabrizio Centofanti, sodale dell’avvocato siracusano in alcuni impianti fotovoltaici nel Lazio. La società che avrebbe emesso fatture false per operazioni inesistenti si chiama Da.Gi srl ed è intestata alla moglie di Amara; le società di Bigotti avrebbero ricevuto dalla stessa Da.Gi fatture false per oltre un milione di euro.

A che servivano queste operazioni? «Lei dice che qualcuno potrebbe pensare che si tratti di somme destinate a creare fondi neri? Si sbaglia. È tutto regolare, riuscirò a dimostrarlo. Vuole sapere perché Bigotti, che è di Pinerolo, ha spostato a Siracusa la sede legale delle sue società? Guardi, le dico senza problemi che gliel’ho suggerito io stesso. Era da tempo sotto tiro per vicende tributarie da alcuni magistrati di Torino, e visto che la legge non impedisce spostamenti di questo tipo, ho pensato che Siracusa potesse essere – per le dichiarazioni fiscali del futuro, naturalmente – una sede più serena, senza preconcetti». Di sicuro un luogo dove gli Amara, da due generazioni, hanno tanti amici. E, forse, pure qualche santo in paradiso.