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Emilia, l’intreccio pericoloso tra la’ndrangheta e le false coop

L’Espresso, 13 Agosto 2018

Emilia, l’intreccio pericoloso tra la’ndrangheta e le false coop

Cooperative fasulle che offrono braccia a bassissimo costo, per lavori che un tempo svolgevano operai specializzati. Con questo metodo si aggirano i paletti della contrattazione collettiva. E i boss si impadroniscono  del settore

DI GIOVANNI TIZIAN

«Se ho appena avviato un’azienda e mi rendo conto che spenderei troppo per mantenere in regola i dipendenti, e non potrò neppure licenziarli, mi affido a una cooperativa di facchinaggio, la quale mi subappalterà una squadra di operai a costi ridotti. In questo modo non dovrò assumere nessuno e così taglierò di netto dal bilancio aziendale le spese del personale, inclusi i contributi». Metodo semplice ed efficace, spiegato da un personaggio che di zone grigie, quei mondi dove legale e illegale si mescolano, se ne intende. A spiegare ai magistrati antimafia di Bologna come funziona lo schema per abbattere i costi d’impresa è Giuseppe Giglio. Imprenditore di successo dalla Calabria all’Emilia, punto di riferimento al Nord del clan Grande Aracri e della ’ndrangheta “emiliana” fino a quando non ha deciso di saltare il fosso e collaborare con il pm Beatrice Ronchi. Alle osservazioni di Giglio seguono numerose pagine di omissis, segno che le indicazioni fornite hanno suscitato un forte interesse investigativo. Del resto il tessuto produttivo emiliano è da tempo infettato dai capitali mafiosi. Denaro sporco con il quale sono nate migliaia di società e cooperative fasulle, ossia coop che nulla hanno a che vedere con lo spirito e con le regole della cooperazione. Giglio è il primo pentito che svela l’interesse delle organizzazioni mafiose nel settore, ma moltissime indagini antimafia hanno documentato come anche in Lombardia la ’ndrangheta sia stata abile nello sfruttare questa anomalia legislativa, che permette di muoversi nel mercato legale senza destare particolari sospetti. La funzione delle coop fittizie è essenzialmente quello di offrire braccia a bassissimo costo, per lavorazioni che un tempo svolgevano operai specializzati, inquadrati all’interno delle aziende e con contratti a tempo indeterminato. Un modo, in pratica, per aggirare i paletti della contrattazione collettiva.

 

Una delle discriminanti che distingue una vera cooperativa da una finta è, per esempio, lo status di chi ci lavora. I soci lavoratori sono effettivamente tali? Usufruiscono, per esempio, della redistribuzione degli utili? Quando questo non accade, e i i soci sono in realtà semplici dipendenti con paghe da fame, siamo di fronte a una “fake coop”. Il paradosso è ancora più evidente in Emilia, culla della cooperazione rossa. Proprio qui ha attecchito prima che da altre parti il fenomeno.

Lo sa bene Umberto Franciosi, sindacalista modenese, segretario regionale della Flai Cgil, che difende i lavoratori dell’agroindustria. Franciosi è il primo ad aver colto il pericoloso intreccio tra false coop e aziende. Le prime assicurano alle seconde un compressione notevole dei costi di produzione. Tutto ciò ricade sugli operai, che assunti da esterni, e non più da chi produce, percepiscono salari nettamente inferiori. Franciosi è stato il primo a coniare, già nel 2005, la definizione di “nuovo caporalato” per descrivere il subappalto di manodopera tramite il meccanismo della finte coop. Tutto lecito? Solo in apparenza, chi guadagna dal sistema sfrutta l’ambiguità legislativa. «Le false cooperative sono imprese appaltatrici e, quando c’è un appalto illegittimo, c’è sempre un committente che le utilizza tramite terziarizzazioni di dubbia legittimità. Aspetto, quest’ultimo, che non viene sufficientemente approfondito e analizzato» spiega all’Espresso Franciosi, che aggiunge: «I committenti affidano le loro lavorazioni da molti anni agli stessi soggetti che si avvalgono però di prestanome, a cui affidare la gestione delle coop fasulle, su cui ricadranno tutte le responsabilità. Prestanome che non potranno versare nulla allo Stato e ai lavoratori perché non hanno nulla che possa essere aggredito patrimonialmente». Non solo, è del mese scorso un’inchiesta sulla filiera della macellazione delle carni. Che ha lambito la produzione del prosciutto di Parma. Alcune cooperative, infatti, operavano presso due stabilimenti, uno di Parma e l’altro della provincia di Modena. L’inchiesta ha accertato una frode fiscale di 300 milioni di euro da parte di un consorzio di finte coop. I lavoratori, che non hanno alcuna colpa, rischiano il posto, perché sono dipendenti delle coop e non delle grandi aziende presso cui lavoravano.

Complicità dei committenti, dunque, tra i quali troviamo anche importanti marchi alimentari e della logistica. Ma c’è una manina invisibile che garantisce la riuscita dell’operazione truffaldina. Quella del professionista di turno, ingaggiato dal clan o dall’imprenditore spregiudicato. Il colletto bianco crea le società cooperative a tavolino, con lo scopo di assicurare al cliente l’evasione fiscale, dei contributi e anche la possibilità del riciclaggio. Un documento inedito certifica, per la prima volta, il lavoro sporco di alcuni commercialisti e consulenti del lavoro al soldo di bancarottieri, mafiosi e truffatori vari. Una prova straordinaria di quanto sia diffuso il sistema. Si tratta del testo di un accordo sequestrato dalla guardia di finanza durante un’indagine su una banda di riciclatori che portava al fallimento aziende sane: un giro d’affari di 35 milioni di euro, con ricadute pesantissime sull’occupazione del territorio. L’inchiesta coordinata dal magistrato Marco Imperato della procura di Modena ha permesso di svelare il sistema messo in piedi da un consulente finanziario, specializzato nella creazione di scatole vuote, tra queste alcune finte cooperative. Nel documento agli atti dell’indagine sono specificati i passaggi, con tanto di costi, necessari per fondare una coop al solo scopo di distrarre risorse da aziende un tempo sane e spolpate dal medesimo proprietario.

Per 35 mila euro il commercialista offriva il pacchetto completo: una coop nuova di zecca con soci, amministratori, atti vari, cessioni di rami d’azienda eventuali. Il compenso dello studio era pari a 15 mila euro. Insomma un affare per tutti e in tempi rapidissimi.

Complicità che assicurano alti profitti ma lacerano il tessuto del Paese. E sono queste relazioni insospettabili che vanno colpite. Ne è convinto Umberto Franciosi, che non ha mai lesinato critiche alle leggi sul lavoro scritte dal Partito democratico: «Bene contrastare chi delinque, ma bisogna eliminare anche il terreno fertile in cui germoglia il fenomeno, cioè gli appalti di dubbia legittimità, le esternalizzazioni selvagge. Avendo anche il coraggio politico d’intervenire immediatamente sul piano legislativo, ad esempio ripristinando il reato penale nella somministrazione di manodopera (depenalizzato nel 2016 dal governo di centrosinistra) e reintroducendo il reato della somministrazione fraudolenta di manodopera (abrogato con il Jobs Act)». Infine, Franciosi, riflette su un’altra variabile: «Oltre alle leggi e alla repressione dei reati, sarebbe opportuno anche un po’ di responsabilità sociale da parte delle imprese committenti che non possono non accorgersi di quanto accade nei loro appalti. Se si continua a competere con questa organizzazione del lavoro non può esserci un futuro per nessuno, nemmeno in una filiera così importante come quella del Prosciutto di Parma».