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Ecco perché Silvio Berlusconi non va a testimoniare per difendere l’amico Dell’Utri

L’Espresso, Giovedì 26 settembre 2019

Ecco perché Silvio Berlusconi non va a testimoniare per difendere l’amico Dell’Utri

I messaggi mafiosi. I rapporti con i Graviano. Le pressioni per avere vantaggi legislativi durante il suo primo Governo. Pur di non rispondere a questi interrogativi l’ex Cavaliere svela ai giudici di essere indagato per le stragi del ’93

DI LIRIO ABBATE

La carta che ha deciso di giocare Marcello Dell’Utri, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, è quella di far salire sul banco dei testimoni il suo amico Silvio Berlusconi, chiamato a difenderlo dalle accuse di collegamenti con la mafia. Lo ha citato in aula a Palermo davanti ai giudici del processo d’appello per la trattativa tra Stato e mafia, in cui Dell’Utri è stato condannato in primo grado a dodici anni. In questo procedimento però viene processato non per l’accordo fatto con i mafiosi, in particolare con Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Giuseppe Graviano, e quindi con Salvatore Riina, perché per questo è già stato giudicato e condannato definitivamente. Dell’Utri viene processato in secondo grado per aver veicolato il messaggio intimidatorio dei mafiosi al capo del governo che si era insediato nel 1994, e cioè Silvio Berlusconi, e incassare il premio per l’appoggio elettorale che sarebbe stato fornito dall’organizzazione criminale nel voto di venticinque anni fa. I mafiosi volevano vantaggi legislativi, e nell’attesa Marcello suggeriva di evitare altri eventuali stragi o omicidi eccellenti, in modo tale che nel silenzio il governo avrebbe agito indisturbato.

I magistrati della procura generale di Palermo, che hanno riaperto le indagini in questa fase d’appello, stanno cercando di verificare se Dell’Utri si è effettivamente attivato in favore dei boss, facendo arrivare a Berlusconi il messaggio mafioso. L’ufficio coordinato da Roberto Scarpinato vuole provare se l’avviso criminale gli è stato recapitato. E se Berlusconi a fronte di questa pressione che proveniva dai vertici di Cosa nostra si è piegato ai loro voleri. Ora, venticinque anni dopo, Dell’Utri decide di far testimoniare Berlusconi, da sempre restio alle aule di giustizia, «per riferire in ordine a eventuali minacce di matrice mafiosa pervenute al governo da lui presieduto fino al 22 dicembre 1994». Questa mossa difensiva sembra aver colto di sorpresa l’ex premier, il quale ha fatto sapere alla Corte, tramite i suoi legali, che il 3 ottobre, giorno per il quale era stato convocato dai giudici, non potrà esserci perché «impegnato altrove».

Berlusconi chiamato in aiuto dal suo ex braccio destro Marcello, che è anche uno dei fondatori di Forza Italia, svicola, tanto da far depositare ai propri legali una nota con la quale svela ai giudici che l’ex cavaliere è indagato a Firenze per l’inchiesta sulle stragi del 1993. In buona sostanza pur di non andare a difendere il suo (ex?) amico, si trincera dietro la certificazione che un’altra procura, in questo caso quella di Firenze, lo sta indagando per mafia e quindi non potrà essere sentito come testimone, che ha l’obbligo di rispondere. Il codice offre la possibilità al Berlusconi-indagato per strage, vista la posizione giuridica in cui si trova, di avvalersi della facoltà di non ripondere. E quindi fa scena muta.

Intanto accanto alla richiesta della difesa accolta dalla Corte si è affiancata anche la procura generale con i sostituti Sergio Barbiera e Giuseppe Fici i quali ne vorrebbero approfittare per interrogare l’ex premier, un’occasione unica offerta su un piatto d’argento dall’imputato Marcello che Silvio però smonta subito mettendo il paletto giuridico dell’indagato di reato connesso.

Ma quale potrebbe essere il vantaggio offerto ai mafiosi 25 anni fa? Una traccia di questo scivolo giudiziario è stata trovata dai magistrati della procura generale nei documenti acquisiti in primavera, in silenzio, dall’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia. Si tratta delle carte che tracciano l’iter burocratico che ha avuto il “decreto Biondi” che prende il nome dall’allora ministro guardasigilli del primo governo Berlusconi.

Un decreto che avrebbe portato enormi benefici legislativi ai mafiosi perché andava a modificare l’articolo del codice penale sull’associazione mafiosa: in particolare tornava a rendere facoltativo e non più obbligatorio l’arresto degli indagati per mafia; inoltre avvantaggiava i corrotti ed i collusi ai quali era stata applicata la custodia cautelare.

I documenti acquisiti in via Arenula e depositati nel processo rendono in maniera evidente il percorso politico del decreto, dal quale si evince che primo firmatario era Berlusconi. Un provvedimento governativo di cui i mafiosi conoscevano, in anticipo, come hanno rivelato i collaboratori di giustizia, tutti gli aspetti a loro favore. E così a luglio di venticinque anni fa, mentre tutta l’Italia è incollata ai televisori per seguire i quarti di finale dei mondiali di calcio, viene approvato il decreto Biondi, subito ribattezzato “salvaladri”, in virtù della quale non è più possibile mettere in prigione gli indagati per reati contro la pubblica amministrazione: decine di tangentisti uscirebbero di galera. Ma le norme sulla custodia cautelare che riguardano la mafia restano ufficialmente immutate, perché il ministro dell’Interno, il leghista Bobo Maroni, fa esplodere il caso e il 16 luglio, ai microfoni del TG3, dice: «Le cifre sulle scarcerazioni che ci hanno dato in Consiglio dei Ministri erano tutte sballate. Ma non è solo la questione di Tangentopoli che mi preoccupa. Oggi mi rendo conto che ci sono altre parti gravi del decreto che complessivamente depotenziano l’azione dello Stato contro la criminalità organizzata».

In quel momento c’era un preciso intento da parte dei mafiosi di riscuotere il credito acquisito dopo il sostegno alle elezioni politiche del 1994. Dunque, Cosa nostra pretendeva l’attuazione dell’accordo e veniva ricordato a Dell’Utri, attraverso emissari mafiosi, di realizzare la pressione su Berlusconi. Le modifiche introdotte con il decreto legge non furono portate avanti perché è stato fatto cadere per l’opposizione del ministro Maroni e del capo dello Stato di allora, Oscar Luigi Scalfaro.

Il messaggio minaccioso al governo non è l’unico sul quale la procura generale in questo processo d’appello vuole fare luce. Ce ne un altro che riguarda direttamente i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano che fino adesso non era mai emerso ma che lascia molte zone d’ombra. Intanto i Graviano sono accusati di stragi, omicidi eccellenti, compreso quello di padre Pino Puglisi, legati a Riina e Messina Denaro. Sono assassini con frequentazioni di politici e uomini di apparati deviati dello Stato. Custodi di tanti segreti. Entrambi i fratelli furono arrestati in latitanza a Milano, alcuni mesi dopo l’incontro che Giuseppe Graviano fece a Roma con Marcello Dell’Utri, di cui parla il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza.

Però «c’è uno strano episodio che sconvolge i Graviano» come ha detto ai giudici il pg Sergio Barbiera, che si verifica a maggio 1994, dopo pochi mesi dal loro arresto, mentre sono detenuti nel carcere di San Vittore a Milano. È così strano, e per i boss sconvolgente, da indurli a fare uno esposto alle autorità giudiziarie. Pensare che due boss come i Graviano, con tutto il loro codice mafioso, arrivino a mettere mano alla carta bollata per denunciare è come mettere insieme il diavolo e l’acqua santa. Cosa sconvolge così tanto i Graviano? I boss sostengono di essere stati filmati in carcere da alcune persone che si sono qualificate come carabinieri. L’episodio può essere considerato di routine per le indagini e ne sarebbero dovuti essere abituati anche loro, ma per come è avvenuto o per le persone che hanno visto ha fatto scattare l’allarme, tanto da presentare un esposto attraverso i loro avvocati. La procura generale ha ritrovato la denuncia, che non era mai stata evasa, e indagando su chi fosse entrato a San Vittore a filmare i Graviano è emersa una delega di indagine disposta da un pm della procura di Roma, deceduto qualche anno fa. Gli investigatori della Dia che stanno svolgendo adesso gli accertamenti per conto dell’ufficio di Scarpinato hanno scoperto dall’elenco degli ingressi che alcuni nomi dei carabinieri, entrati per questo episodio e segnati nei registri del carcere, non risultano veri. Alcuni nominativi non risultano mai essere appartenuti all’Arma. Chi è stato a filmare i Graviano?

I due fratelli dal giorno del loro arresto non hanno mai parlato: si sono limitati a lanciare in qualche occasione messaggi criptati durante le udienze dei loro processi, minacciando di parlare, in particolare dopo le rivelazioni fatte da Spatuzza dell’incontro avuto con Dell’Utri a Roma. Il loro silenzio è d’oro perché permette di far vivere bene e in maniera facoltosa le loro famiglie che vivono fra Roma, la Svizzera e Milano. Dopo un anno da questo fatto di San Vittore, a Giuseppe e Filippo Graviano qualcuno, ancora sconosciuto alle indagini, ha pure dato la possibilità mentre erano detenuti al 41 bis all’Ucciardone a Palermo, di incontrare le rispettive mogli e di concepire un figlio. Dopo nove mesi sono nati i due Graviano jr partoriti in una clinica in Costa Azzurra. Si chiamano entrambi Michele e sono cresciuti frequentando le migliori scuole private di Roma e Palermo. Per Giuseppe Graviano avere avuto un figlio è stato il “migliore regalo” che potesse ricevere, come lui stesso ha detto a un altro detenuto. Ma chi gli ha donato la possibilità di realizzare questo suo desiderio? È ormai accertato che la moglie del boss è entrata all’Ucciardone e vi è rimasta nascosta. Anche su questo aspetto la procura generale ha acquisito nuovi documenti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che adesso sono stati riversati nel processo d’appello alla trattativa Stato-mafia. Vicende mai svelate del tutto, e ancora oscure.

Tutto ciò ci fa pensare a Balzac, quando dice che vi sono due storie: quella ufficiale, menzognera, che ci viene insegnata; e la storia segreta, dove si trovano le vere cause degli avvenimenti, ma non si possono raccontare perché è una storia vergognosa.