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E mentre a Roma si discute Sagunto viene espugnata.La mafia all’atto finale dell’assalto allo Stato,Il grido del Cardinale Pappalardo.Tutti a ricordarlo ma pochi ad ascoltarlo mentre orde fameliche stanno divorando le ultima parti dello Stato e del Paese

Il cardinale Pappalardo e “Sagunto espugnata”

8 APRILE 2018

di Fabrizio Lentini

Diciotto ore. Una notte e una mattinata. Cariche di rabbia e di angoscia, di dolore e di misteri.

Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, eroe della lotta al terrorismo rosso, era stato appena massacrato con la moglie Emmanuela nella sua utilitaria, dopo cento giorni da prefetto di Palermo senza poteri, cento giorni di isolamento e diffidenze, di omicidi e avvertimenti (“L’operazione Carlo Alberto è quasi conclusa”, aveva scandito un anonimo al telefono, rivendicando con modalità brigatista l’ennesimo delitto di mafia). Diciotto ore, appena diciotto ore fra una strage eccellente e un funerale di Stato.

Tra il venerdì sera del piombo e il sabato pomeriggio dell’ira. Diciotto ore in cui una “manina” svuota la cassaforte del prefetto, per cancellare segreti pericolosi, e un’altra mano affigge sul luogo dell’agguato, in via Carini, il più cupo epitaffio degli anni di piombo mafioso: “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”. Diciotto ore in cui il cardinale Salvatore Pappalardo butta giù il testo di un’omelia destinata a entrare nella storia civile d’Italia: l’omelia di Sagunto.

“Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici”, tuona l’arcivescovo dal pulpito della basilica di San Domenico, nel corso di un funerale organizzato a tempo di record in quel weekend di fine estate, come per liberarsi presto di una pratica imbarazzante, come per allontanare il peso di un senso di colpa inconfessato.

Davanti al vescovo, affiancate, le bare di Dalla Chiesa e della moglie (l’agente di scorta Domenico Russo morirà qualche ora dopo, in ospedale). Di fronte, pallidi e tesi, Sandro Pertini e Giovanni Spadolini, presidente della Repubblica e capo del governo, due uomini simbolo di un’Italia diversa da quella dei silenzi, delle omissioni, delle complicità morali, ma costretti a portare la croce per tutti, a schivare gli insulti e le monetine di una Palermo esasperata e furente.

“Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur”, scandisce Pappalardo citando una frase famosa della letteratura latina (è di Tito Livio, ma lui a memoria la attribuisce a Sallustio) e guardando in faccia gli uomini dello Stato seduti sui banchi delle prime file. E poi, in italiano per non lasciare equivoci, a voce sempre più alta: “Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici! E questa volta non è Sagunto ma Palermo. Povera Palermo!”. È il punto più alto di un atto d’accusa drammatico e mai sentito dalla bocca di un vescovo di Santa Romana Chiesa, da un successore di quel cardinale Ruffini che descriveva la mafia come un’invenzione dei comunisti.

Come nacque quell’orazione veemente e rabbiosa, religiosa e civile, che alternava la citazione del profeta Geremia (“Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere”) all’invettiva contro lo Stato imbelle (“Mentre cosi lente e incerte appaiono le mosse e le decisioni di chi deve provvedere alla sicurezza e al bene di tutti – siano privati cittadini o funzionari e autorità dello Stato – quanto mai decise, tempestive e scattanti sono le azioni di chi ha mente, volontà e braccio pronti per colpire”), lo racconterà anni dopo padre Ennio Pintacuda, il gesuita protagonista della “primavera di Palermo”, in quel 1982 tra gli uomini di Curia più fidati di Pappalardo. Dirigeva la radio diocesana “Voce nostra” e la notte del 3 settembre era in arcivescovado. “Il cardinale – racconta nel libro “La scelta” (edizioni Piemme) – rientrò a notte alta, dopo essersi recato sul luogo dell’eccidio, era sconvolto e sfogò tutta la sua costernazione e il suo dolore. Disse che l’indomani, ai funerali, non avrebbe parlato. Con altri sacerdoti che erano pure lì – ricorda Pintacuda – affermammo che proprio in quel momento così difficile era necessario parlare e dare un forte segnale, perché il rischio della sfiducia era fortissimo… Non si poteva permettere ai mandanti di tali delitti politici di intimorirci, bloccarci e azzerare ciò che si era costruito con tanto rischio e fatica per la partecipazione della gente”.

Di fronte a quelle obiezioni “il cardinale si ritirò a preparare l’omelia”. Un’omelia scritta d’impeto. Nutrita di lucido furore prima che di raffinata teologia. Un’omelia che schiererà con decisione la Chiesa dalla parte giusta nella lotta alla mafia e ai suoi complici. E che trasformerà per sempre Pappalardo, nell’immaginario collettivo, nel “vescovo di Sagunto”. Uno di quegli atti di coraggio che, tra raffiche di kalashnikov e palazzi sventrati dal tritolo, hanno mantenuto viva, malgrado tutto, la speranza dei palermitani onesti.

Fonte:http://mafie.blogautore.repubblica.it