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E’ gran parte della politica che E’ serva delle mafie e collusa con queste.

 

L’antimafia accusa la politica: una certa classe dirigente è prona e collusa

Ampie sacche dell’amministrazione hanno abdicato al loro ruolo permettendo la realizzazione di opere pubbliche per interesse personale e non perché utili alla collettività. Il j’accuse della superprocura

DI GIOVANNI TIZIAN

 

L'antimafia accusa la politica: una certa classe dirigente è prona e collusa
Franco Roberti e Rosy Bindi

Una classe dirigente che ha abdicato al proprio ruolo. Spesso corrotta da mammasantissima con profili da manager,  ronti a pagare mazzette pur di ottenere ciò che desiderano. Boss che gestiscono eserciti armati ma anche squadre di broker e di facilitatori vestiti da insospettabili. Intermediari-procacciatori d’affari al soldo delle famiglie criminali, figure centrali nelle mafie-holding moderne. Sono loro, infatti, che aprono le porte dei palazzi del potere, locale e nazionale, dove si decidono le rotte dei finanziamenti europei e di quelli nazionali per realizzare grandi e piccole opere pubbliche. Ma anche riciclaggio di cifre mostruose, narcotraffico internazionale che produce utili a 9 zeri, clan che funzionano da banche parallele e moltissimo altro. È la fotografia, al giugno scorso, delle cosche d’Italia scattata dalla procura nazionale antimafia guidata da Franco Roberti. Un viaggio nella criminalità mafiosa del Paese, dove nonostante centinai di arresti e sequestri per miliardi di euro i padrini continuano a dettare legge. Cosche che non destano allarme sociale, che fanno dell’indifferenza collettiva un arma segreta e della corruzione la moderna lupara. Del resto in questi ultimi anni la lotta alle mafie non si può certo dire che sia stata inserita in cima alle priorità dei governi.

Il Facilitatore
Nel rapporto letto da L’Espresso e presentato dal procuratore nazionale e dal presidente della commissione antimafia, Rosy Bindi, ciò che salta più all’occhio è il j’accuse a una certa classe dirigente, collusa e prona ai voleri dei capi bastone. «Ampie sacche della politica e dell’amministrazione locale hanno abdicato al loro ruolo», si legge nel documento, «non solo non hanno una propria idealità politica, una propria visione della società (che, peraltro, ove sentita in modo coerente, qualunque essa sia, sarebbe già di per sé il migliore antidoto alle collusioni e alle corruzioni) ma non hanno, neppure, una propria idea o strategia sul come investire il denaro pubblico sul territorio al fine di modificare in meglio vita stessa dei cittadini. Il politico locale, non di rado, è un mero gestore di un potere autoreferenziale. E, conseguentemente, si determina ad investire le risorse pubbliche, non sulla base dell’interesse generale, ma sulla base del suo unico parametro, del suo unico interesse: la valutazione di quanto, quell’opera o servizio consente l’autoconservazione di quel potere…E così l’individuazione esatta dell’opera o del servizio che dovrà essere finanziato e poi messo a gara, avviene sulla base delle circostanze più diverse. Ma non in base al criterio del pubblico interesse».

Un’analisi durissima, a cui segue la descrizione della figura fondamentale alla conservazione del potere mafioso: il facilitatore, colui, cioè, che mette in contatto il mafioso con l’entità politica. «Posto che, di norma, non solo l’ente locale ma, neppure, il gruppo mafioso hanno, nel contesto regionale, queste sofisticate conoscenze tecnico-contabili-amministrative unite alla conoscenze politiche giuste. Il facilitatore allora apre la strada. E la contro-partita che richiede la politica per il finanziamento dell’opera e/o del servizio, come emerge dalla concreta esperienza, si atteggia, poi, in modo multiforme. Si passa dalla controprestazione direttamente in denaro, alla richiesta di assunzioni da parte dell’impresa che si aggiudicherà l’opera finanziata, passando per la richiesta di associare all’impresa mafiosa altre imprese di gradimento politico, fino alla richiesta di un impegno per un incondizionato sostegno elettorale. Ed è assolutamente evidente che in quest’ultimo caso sia chiaro che, anche per il politico corrotto, l’impresa rappresentata dal facilitatore sia espressione dell’entità mafiosa».

Ma il ruolo del facilitatore non si esaurisce nel garantire il contatto. Una volta ottenuto il finanziamento il lavoro prosegue. «E così, in primo luogo, viene in rilievo la necessità di bandire la gara per l’opera o il servizio pubblico d’interesse. E non è operazione che viene lasciata al caso, laddove ci troviamo in un ambito d’interesse del crimine organizzato e laddove, l’ente mafioso, si è già speso e ha già investito per riuscire a finanziare l’opera. Bandita la gara, si innesta, a questo punto, l’attività corruttiva-collusiva tesa a fare coincidere il nome del vincitore con quello della ditta del cartello che aveva prima fatto finanziare l’opera e, poi, aveva impostato il bando di gara (al fine di aggiudicarsela). Recenti indagini mostrano, quello che sembra l’uovo di colombo della corruzione, cioè la pianificazione scientifica e preordinata della composizione delle Commissioni di gara, più esattamente la nomina dei diversi componenti eseguita indirettamente, ma non per questo in modo meno puntuale, dal futuro vincitore della gara stessa».

In pratica, denuncia la super procura, si falsano le regole del gioco: il partecipante alla gara sceglie l’arbitro, una nuova tendenza, che l’ufficio guidato da Roberti definisce «il punto di approdo più alto della corruzione intesa quale sistema». E in effetti seguendo uno schema di questo tipo avremmo che la stessa impresa (con facilitatore o meno) ha reperito il finanziamento, ha deciso, quindi, in quale direzione debba muoversi la spesa pubblica, ha pianificato il contenuto del bando di gara, se poi, decide, e nomina, sia pure indirettamente, buona parte dei componenti della Commissione di gara, il cerchio si chiude «con geometrica precisione: non sarà necessario inseguire nessuno e non sarà necessario trattare con nessuno. I giochi saranno chiari dall’inizio. Chi fa parte di quella Commissione sulla base del descritto metodo, sa bene perché e per quale ragione è stato nominato, sa chi deve agevolare e sa anche, grosso modo, quanto ci guadagnerà dall’affare».

Riciclaggio
Il riciclaggio del denaro delle cosche è un reato che non desta particolari timori tra i cittadini e la politica, e, anzi, per alcuni è una risorsa per il territorio. Secondo l’analisi della procura nazionale «è notevolmente aumentata la capacità di tali organizzazioni criminali di produrre ricchezza illecita». Dall’analisi delle segnalazioni sospette, infatti, che riguardano uomini delle organizzazioni mafiose, i magistrati di via Giulia hanno stimato in 60 miliardi di euro le transazioni a rischio riciclaggio. Il dato è significativo perché non è una cifra buttata lì a casaccio, ma è il frutto di uno studio delle movimentazioni di denaro segnalata da Bankitalia agli investigatori antimafia. Per la procura nazionale «le attività e i flussi finanziari illeciti sono talmente compenetrati con attività e fondi di origine lecita da rendere quasi inestricabile la distinzione fra riciclaggio e reati presupposto, fra denaro “sporco” da ripulire e fondi “puliti” che confluiscono verso impieghi criminali». Insomma, distinguere il bianco dal nero è sempre più complicato. Ricchezza lecita e illecita si mischiano, ditrasformando l’economia italiana in una vasta area grigia.