Delegittimazioni, attacchi e isolamento. Così hanno tentato di fermare il pm Lombardo
Pensare di poter concludere un’operazione come ‘Mamma Santissima’, in una città benedetta da Dio e maledetta dagli uomini, qual è Reggio Calabria, significa entrare in un labirinto dal quale non si ha la certezza di poter uscire. Ebbene, Lombardo ha mantenuto dritta la barra, anche quando gli ostacoli sono arrivati da dove meno se lo aspettava
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La memoria è un vizio o una virtù? C’è da chiederselo in un angolo di terra come Reggio Calabria, dove sembra che ricordare costi più fatica che guardare al futuro. A noi piace pensare che la memoria sia la virtù degli onesti, di coloro i quali con pazienza sanno guardare indietro per cercare le risposte giuste alle domande più attuali. E siccome ricordare è un mestiere che abbiamo imparato negli anni, ecco perché oggi, a distanza di un giorno dall’esecuzione dell’inchiesta “Mamma Santissima”, intendiamo “riportare in vita” parole dette più di tre anni fa da colui che deve essere ritenuto l’artefice principale di questa operazione di polizia giudiziaria destinata a cambiare per sempre la prospettiva della lotta al crimine organizzato. Parliamo del pubblico ministero Giuseppe Lombardo. Si deve a lui – in via quasi esclusiva – il merito di aver scoperchiato il pentolone degli “invisibili”.
Nel maggio 2013, durante un convegno tenuto assieme al collega Nino Di Matteo, disse parole assai chiare: «Mi chiedete se sono maturi i tempi per “togliere il cappuccio al boia” che tiene in osteggio Reggio Calabria e non soltanto. Vi dico che i tempi sono più che maturi. Abbiamo fretta, dobbiamo dare delle risposte e le daremo». Seduto in prima fila, a quel convegno, c’era Federico Cafiero de Raho, da poche settimane procuratore capo di Reggio Calabria. Annuì con un sorriso e con quella serenità di chi sa che la direzione non può che essere quella giusta. Fu un impegno, più che una promessa. Impegno che ieri Giuseppe Lombardo ha onorato nei confronti di tutti quei reggini che hanno a cuore le sorti della propria città. Ma oggi vogliamo raccontarvi non solo ciò che fino ad oggi si è visto, ma anche quel che in tanti non sono riusciti o hanno fatto finta di non vedere.
Pensare di poter concludere un’operazione come “Mamma Santissima”, in una città benedetta da Dio e maledetta dagli uomini, qual è Reggio Calabria, significa entrare in un labirinto dal quale non si ha la certezza di poter uscire. Ebbene, Giuseppe Lombardo ha mantenuto dritta la barra, anche quando gli ostacoli sono arrivati da dove meno se lo aspettava. Tante, tantissime volte ha sentito dire che quegli elementi che stava mettendo insieme erano solo «coincidenze». Ma come – avrà pensato – io raccolgo atti giudiziari del passato, li unico come un puzzle perfetto con il presente e sono soltanto coincidenze? Probabilmente per qualcuno era più giusto pensarla così. Del resto, se tanti sono disposti a scendere sino all’inferno del crimine e sconquassarlo gettando schiuma sul fuoco dei santini bruciati, ben più difficile dev’essere salire sino alla cima più alta del paradiso degli invisibili. Quel luogo riservato a pochissimi, che solo a pensarlo s’inizia ad avvertire il capogiro dell’altitudine. Quell’angolo dove tutto è ovattato e il frastuono del mondo viene lasciato fuori, perché se ne continui ad ignorare l’esistenza. Ma il sostituto procuratore reggino non si è certo fermato alle prime difficoltà. Anche quando è stato etichettato come “visionario”, come giudice voglioso solo di riempire qualche pagina di un buon libro di narrativa. Lui ha incassato, non ha battuto ciglio. Ha semplicemente abbassato il capo ed ha continuato a scrivere, studiare. Ricostruire. E ha risposto in modo sibillino, citando Bertolt Brecht: «Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia è un delinquente».
Per la verità, sin da quando fu arrestato Pasquale Condello “Il supremo” si ebbe sentore che il “sistema criminale” avrebbe tentato in tutti i modi di farla pagare a tutti i protagonisti di quegli anni. Catturare un boss di quel calibro, forse per la prima volta, mandò in crisi la ‘ndrangheta di Reggio Calabria. Pasquale Condello era uno dei pochissimi ad avere una interlocuzione diretta con i riservati. Lui era “il supremo”. Lui assieme a Giuseppe De Stefano, Giovanni Tegano e la famiglia Libri. Toglierlo di mezzo significava creare un vulnus negli equilibri che governavano la città. Sta di fatto che la “maledizione del Supremo” si è abbattuta su molti di coloro che hanno collaborato alla sua cattura: veleni, sospetti, attacchi in piena regola. Una trama aggrovigliata a tal punto da non saper più distinguere dove finiva lo Stato e iniziava l’antistato.
E sono anni in cui Giuseppe Lombardo sente forte il peso della solitudine e della delegittimazione. Si prova a trascinarlo dentro storie strane. Senza successo. Perché la verità, che piaccia o no, è ostinata e alla lunga riesce sempre a trovare compimento.
Accade, dunque, che a Reggio arriva un magistrato come Federico Cafiero de Raho che nota questo giovane pm così sicuro di voler riscrivere la storia degli ultimi decenni della città e gli si mette a fianco. Lo sostiene facendogli capire che quell’idea non è poi così pazza, come in molti pensavano.
Intanto l’istruttoria del processo “Meta” (da molti investigatori ribattezzato “metà” per il suo non completo compimento) va avanti regalando le prime avvisaglie di ciò che sarebbe stato. E diciamolo francamente: anche la stampa è abbastanza restia nel metabolizzare quella visione così rivoluzionaria della ‘ndrangheta. C’è chi fa mezzi sorrisi, chi pensa che sia la solita caccia alla “spectre”, chi addirittura ragiona ad alta voce: «Tanto non si arriverà a nulla».
I mesi passati ad ascoltare il colonnello Valerio Giardina nelle sue deposizioni, consegnano lo specchio di una città che fatica a riconoscere quella cappa che l’opprime. Sono verità talmente scomode che qualcuno prova a far passare per false. Nell’aula bunker di Reggio Calabria si fanno esattamente quei nomi che ieri sono finiti nell’ordinanza di custodia cautelare dell’inchiesta “Mamma Santissima”. In quell’aula sfilano pentiti che narrano esattamente le medesime circostanze. Solo che in pasto all’opinione pubblica si preferisce dare un messaggio distorto: è un attacco politico e basta.
Anche questa volta Giuseppe Lombardo incassa, paziente. Attende che la ricostruzione possa terminare. Così, mette un mattone dopo l’altro, un’inchiesta per volta. Costruisce le fondamenta di ciò che sarà la scala verso il paradiso degli “invisibili”. E quando viene sciolto per mafia il consiglio comunale di Reggio Calabria, qualcuno lo accusa addirittura di aver voluto lo scioglimento delle società miste, con conseguente perdita dei posti di lavoro. Quella stanza al sesto piano del Cedir, però, continua a rimanere con la lampada accesa, anche a tarda sera. Non c’è tempo da perdere, perché la verità ha atteso abbastanza.
Il braccio di tutto ciò è rappresentato dai carabinieri del Ros e da quelli appartenenti al comando provinciale di Reggio Calabria. Diventano una cosa unica con il pm che li coordina. Fino alla mattinata di ieri, dove gli invisibili, i riservati hanno per la prima volta un nome e un cognome. Ma ciò che più conta è che se qualcuno pensa che la storia finisca qui, compie un grande errore strategico. La caccia agli appartenenti a questa loggia segreta massonico-mafiosa è appena iniziata. Si è deciso di disarticolarne la testa pensante, per sgretolarne l’operatività, mantenuta attuale sino ad oggi. Ora è tempo di pensare al resto. Perché solo uno stupido può immaginare che quattro persone abbiano potuto fare tutto quanto da sole. Certo, Paolo Romeo e Giorgio De Stefano non sono certo gli ultimi arrivati, come non lo sono Alberto Sarra e Francesco Chirico. Ma è la fitta rete di connivenze ad averli resi così forti, dentro e fuori dalla Calabria, come ci insegna quel “consorzio” di mafie di cui hanno parlato a più riprese i pentiti.
Ora, noi possiamo certamente sperare che Giuseppe Lombardo, Federico Cafiero de Raho e i carabinieri abbiano l’opportunità di disarticolarla completamente quella rete, anche se ciò dovesse significare mettere mano dentro le istituzioni stesse.
Ma consentiteci di dire che questo non può bastare a guarire la città da un tumore ormai in metastasi. Occorre una terapia ben più forte, la cui genesi sta nella testa e nel cuore di ogni singolo reggino. Un’opera difficile, complessa. Taumaturgica. E tuttavia indispensabile per non togliere la speranza che quel cancro possa essere sconfitto una volta per tutte.
Consolato Minniti