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Droga, bombe e lanciamissili. Il legame tra le mafie stragiste

Droga, bombe e lanciamissili. Il legame tra le mafie stragiste

Il racconto del pentito di Cosa Nostra Gaspare Spatuzza nell’aula bunker di Reggio. I rapporti con i Nirta, la strage pianificata all’Olimpico e l’idea di un attentato a Caselli. Calabresi e siciliani “lavoravano” insieme

Venerdì, 16 Marzo 2018

REGGIO CALABRIA «Sono stato coinvolto in tutte le stragi di mafia. Capaci, via D’Amelio, via Fauro, Firenze, le stragi di Roma, san Giovanni in Laterano e san Giorgio al Velabro, l’attentato di Milano, quello fallito all’Olimpico». Le mani di Gaspare Spatuzza sono macchiate del sangue di decine di innocenti.

ORGANIZZAZIONE TERRORISTICA Cresciuto negli anni della guerra di mafia di Palermo, nato come killer e diventato armiere e uomo di fiducia dei fratelli Graviano ha vissuto da protagonista la stagione delle stragi. «Io – ricorda –  ho fatto parte di un’organizzazione terroristica di stampo mafioso chiamata Cosa Nostra. Alla fine degli anni Ottanta noi eravamo diventati qualcosa di diverso. Non eravamo più solo a Brancaccio, dove c’era gente che aveva messo la vita nelle nostre mani. Ci stavamo spostando a Firenze, Milano, Roma, a mettere bombe e fare morti».

IL PEGNO CALABRESE E per questo oggi è stato chiamato a deporre al processo ‘Ndrangheta stragista, l’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo che ha ricostruito la parentesi calabrese di quel periodo di sangue. Quegli attentati ai carabinieri che fra il ’93 e il ’94 sono costati la vita ai brigadieri Fava e Garofalo e il ferimento di altri quattro militari – è emerso dall’inchiesta – non sono stati altro che il pegno di sangue versato dalla ‘ndrangheta per partecipare alla strategia eversiva che negli anni Novanta puntava a sostituire i vecchi inaffidabili referenti politici, con un governo compiacente.

L’ORDINE DAI GRAVIANO Una strategia di cui Spatuzza ha sentito parlare da uno di quelli che l’hanno elaborata e ne hanno “curato” la realizzazione, Giuseppe Graviano, «quello che dei tre fratelli era il mio referente» specifica il pentito. È stato lui – conferma Spatuzza in udienza, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo – a ordinare stragi e attentati. Incluso quello all’Olimpico, che nei piani del boss avrebbe dovuto «segnare la svolta».

DEVOTO ALLA CAUSA Nonostante le perplessità, Spatuzza di fronte ad un ordine di “Madre natura” – così era conosciuto Giuseppe Graviano – non si è mai tirato indietro. Si era avvicinato a lui e alla sua famiglia con l’ansia di vendicare la morte del fratello, morto di lupara bianca, ma nel tempo – spiega – con loro si era instaurato un rapporto di vera e propria fratellanza. «Mi sarei fatto esplodere vivo per loro». Per questo, Spatuzza non ha mai detto di no. Anche di fronte a quel progetto di attentato all’Olimpico di cui solo in parte, all’epoca, conosceva i motivi.

VI INTENDETE DI POLITICA? «Graviano – racconta – ci disse “dobbiamo portarci dietro un po’ di morti per arrivare ad una svolta. Poi chiese a me e a Lo Nigro se ci intendessimo di politica. Mi disse “C’è in piedi una cosa, che se va a buon fine porterà a tutti dei benefici, soprattutto ai carcerati”. E per noi i carcerati sono cose sacre». Era la fine del ’93. Graviano aveva convocato i suoi a Buonfornello, in un residence nei pressi dell’Euromare. E a loro aveva dato un ordine di morte: progettare e preparare un attentato «che doveva essere fatto a Roma e colpire molti carabinieri, almeno cento» spiega il collaboratore, che da quel momento si mette in moto.

L’INCONTRO AL BAR DONEY Recupera l’esplosivo, lo prepara, si occupa della logistica dell’attacco nella capitale. Solo diversi mesi dopo, in prossimità della data programmata per l’attentato, Spatuzza viene a sapere qualcosa di più su quella “trattativa” in corso. L’occasione arriva qualche mese dopo l’incontro di Buon fornello, quando il collaboratore incontra Graviano per comunicargli il luogo scelto per l’attentato, lo stadio Olimpico, e per avere luce verde alla fase esecutiva. Spatuzza non ricorda la data precisa, ma qualche indicazione temporale la sa dare. «Il giorno dell’attentato programmato all’Olimpico, ha concluso Spatuzza, era proprio il 22 gennaio, e la targa da collocare sull’auto bomba venne rubata come di consueto il giorno prima del programmato attentato, ovvero il 21 gennaio 1994. Di certo erano passati giorni, non settimane dall’incontro con Graviano».

«BERLUSCONI E DELL’UTRI CI HANNO MESSO IL PAESE IN MANO» I due si vedono al bar Doney di via Veneto. «Ci siamo seduti ai tavolini del bar e Graviano mi disse che grazie a delle persone serie noi avevamo ottenuto la cosa a cui si stava lavorando. Mi ha citato Berlusconi e io – ricorda Spatuzza – gli ho chiesto se fosse quello di Canale 5. E mi ha detto che era lui e che c’era di mezzo anche un nostro compaesano, Dell’Utri. “Abbiamo ottenuto tutto quello che cercavamo” ha detto e poi ha aggiunto che “ci avevano messo il Paese nelle mani». Nonostante questo, l’attentato doveva essere realizzato comunque.

IL COLPO DI GRAZIA Nonostante la “trattativa” in corso fosse andata a buon fine, Graviano – racconta Spatuzza – ha insistito per piazzare comunque quella bomba che avrebbe dovuto fare strage di divise all’Olimpico. Un progetto tanto importante – sottolinea Spatuzza –  da indurre il boss a rimandare il progetto di eliminazione di Totuccio Contorno, responsabile dell’omicidio del padre di Graviano, Michele, e della scomparsa per lupara bianca del fratello del collaboratore, individuato a Formello, nei pressi Roma. «Mentre andavamo a Torvajanica, dove ci aspettavano gli altri– racconta al riguardo – mi spiegò che i calabresi già si erano mossi con i carabinieri e noi non potevamo venire meno agli impegni presi. Mi ha detto che dovevamo dare il “colpo di grazia”». Qualche giorno dopo, Spatuzza viene a sapere del duplice omicidio dei brigadieri Fava e Garofalo in Calabria. «Lì ho fatto il collegamento» sottolinea il pentito.

IL RAPPORTO CON I CALABRESI Del resto, spiega Spatuzza, «con i calabresi c’è sempre stato un rapporto privilegiato». E non solo nella progettazione di quel piano di sangue, che solo grazie ad un fortuito malfunzionamento del telecomando non si è concluso con una strage all’Olimpico. Quali calabresi Spatuzza non lo sa dire, però – spiega – «per quello che ho avuto modo di capire, quello che mi è stato detto, in Calabria il nostro punto di riferimento era Piromalli il vecchio». Lui però – specifica – ha avuto rapporti soprattutto con i Nirta, interessati ad un traffico di hashish con il Marocco, dove seguivano direttamente tutta la filiera, ma sprovvisti di una barca utile allo scopo.

IL TRAFFICO DI DROGA E ARMI CON I NIRTA A metterla a disposizione è Cosimo Lo Nigro, ma il via libera all’affare arriva solo dopo il vaglio di Nino Mangano, il reggente di Brancaccio dell’epoca. «Non appartenevano alla nostra chiesa – dice Spatuzza – avevano dei problemi irrisolti lì in Calabria per questo li tenevamo sott’occhio». Tutto fila liscio e il rapporto si approfondisce. Lo Nigro viene persino invitato a partecipare ad un matrimonio in Calabria, mentre negli anni successivi i Nirta mettono a disposizione dei palermitani anche parte del loro arsenale. «Loro avevano un’enorme disponibilità di armi. Bastava che facessimo una lista e loro ci procuravano tutto».

IL PROGETTO DI ATTENTATO A CASELLI I Nirta – racconta – avevano un canale con l’Olanda. E da lì arrivava di tutto. «Di quelle armi, alcune sono state trovate anche durante una perquisizione a casa mia. Purtroppo non è stato trovato il lanciamissile che avevo in custodia perché lo avevo affidato ad altri. Era un vero e proprio lanciamissili, che in quel periodo si voleva utilizzare per un attentato a Caselli», il magistrato arrivato volontariamente a Palermo dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino.

IL RAPPORTO CON I NOTARGIACOMO Ma i Nirta non erano gli unici calabresi con cui gli uomini del clan di Brancaccio fossero in contatto. Anche i Notargiacomo avevano con loro un rapporto stretto, tanto da essere non solo ospitati a Palermo, ma anche riforniti di armi del clan. «Era l’86-87» racconta il pentito. «Questi erano feriti, quindi dovevano avere avuto qualche problema lì in Calabria».

ARMI E PROCESSI Generalmente però – spiega il collaboratore – erano i calabresi a fornire armi ai siciliani. «Tutte le famiglie impegnate nella strategia stragista cercavano armi, neanche dovessero fare la terza guerra mondiale» commenta. Ma tra calabresi e siciliani ci si scambiavano anche favori, come l’aggiustamento – su richiesta – di processi. A pagamento, ovviamente. Tramite Mariano Agate, «l’equivalente di Riina nel trapanese» dice Spatuzza per spiegarsi, Graviano ha consegnato ai calabresi un miliardo di lire in due tranche per aggiustare un processo. «Una carteddata di soldi» dice il pentito. Del resto, spiega, i rapporti fra Agate e i calabresi erano viscerali. «Questi calabresi avevano una venerazione per lui e il più legato a lui era Mommo Molè. Lui però lo chiamava Mommiceddu. Solo Mariano Agate si poteva permettere il lusso di chiamare con un vezzeggiativo un personaggio del calibro di Mommo Molè».

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

 

fonte:http://www.corrieredellacalabria.it