Cerca

Dove osano le mafie: le cosche ora vincono al Nord

di Enrico Bellavia

L’exploit di Emilia e Veneto. Grandi opportunità su tessuti economici permeabili. Schiere di professionisti disponibili e politici pronti a scambiare voti e favori. Così quello che era un contagio diventa radicamento

01 FEBBRAIO 2023 – L’Espresso

La minaccia aleggia, si fa sottile, lascia aperta la porta al dialogo. Una fessura, attraverso la quale passano speranze che diventano illusioni. Fino alla scossa. Scuote gli ingenui e non sorprende i complici. Vince così la mafia in trasferta. Vince facile su un terreno favorevole e quasi sempre porta a casa, la casa madre, il risultato.

Succede con la ’ndrangheta che ha messo radici e non da ora anche in Australia, figuriamoci in Nord e Centro Italia. Cosche, le chiamano “locali”, ovunque (25 in Lombardia, 14 in Piemonte, secondo la Dia) e un’unica obbedienza. Perché puoi girare il mondo ma «se sei fermo per la Calabria, sei fermo per tutti». Ricordava un vecchio padrino: «Il mondo si divide in due, quello che è Calabria e quello che lo diventerà». Così due trafficanti promettevano di «mettere in piedi San Luca a Milano». Ovvero la Calabria sotto alla Madonnina. Erano legati alla locale di Mariano Comense guidata da Giuseppe Morabito. E un imprenditore suo amico ha finito per mettere nei guai l’ex vicepresidente della Regione Lombardia Mario Mantovani e il sindaco di Seregno, Edoardo Mazza.

In nome degli affari alcune regole, all’occorrenza, diventano duttili. Anche le donne assurgono al ruolo di capi come Caterina Giancotti, 45 anni, «più spietata degli uomini» nel recupero crediti, ha detto di lei il procuratore aggiunto di Milano Alessandra Dolci. Gestiva i traffici della locale di Rho per conto di Cristian Bandiera, rampollo di Gaetano che frattanto si industriava per uscire dal carcere dandosi malato. «Vuoi che divento cattiva? E io divento cattiva», ammoniva, mentre l’anziano boss, ormai libero, proclamava: «La legge è tornata, la ’ndrangheta è tornata a Rho». E c’era gente in fila alla sua porta, anche solo per dirimere una lite di condominio.

A Reggio Emilia, per i giudici, il legame dei calabresi con la casa madre si era allentato ma era la famiglia di Cutro, il clan Grande Aracri, a operare in città e nelle province di Parma e Piacenza. Per le mafie, per tutte le mafie, vale il principio dell’adattarsi. Nicolino, Mano di Gomma, il patriarca dei Grande Aracri, tentò di accreditarsi come pentito pur di sminare i processi. Ma agli amici di giù corse a dire che si trattava di «una farsa».

A Brescello, set di don Camillo e Peppone, il Comune era stato sciolto per mafia. La famiglia Grande Aracri, Francesco, il fratello di Nicolino, con i figli Paolo e Salvatore, ne aveva fatto il proprio quartier generale. Per espandersi, giocando in grande, nel mondo dell’impresa in collegamento con i centri di spesa. Quelli pubblici, del resto, sono l’eldorado, il luogo di incontro tra mafia e politica.

A Milano con la Perego strade, eterodiretta dal boss Salvatore Strangio, si tentò l’assalto a Expo 2015. Soldi e voti vanno sempre a braccetto. Giuseppe “Pino” Neri, studio da tributarista ma considerato il capo della ’ndrangheta in Lombardia, nel 2009, si dava da fare per accreditarsi durante la competizione elettorale per il sindaco di Pavia. In città a tenere insieme ’ndrine e politica, del resto, provvedeva l’ex direttore della Asl, Carlo Chiriaco. Un sistema di mutua assistenza come quello instaurato dall’ex assessore regionale Domenico Zambetti che non disdegnava un pacchetto di voti dei Mancuso di Limbadi.

Clan integrati ma con il paese sempre nel cuore. Accumulano, mandano le briciole in Calabria e appostano la ricchezza dove mimetizzarsi è più semplice. Ma alla «mamma» hanno la necessità di rapportarsi. Il contrario della Camorra che un’organizzazione unitaria non riesce a darsela.

A Roma i gruppi criminali sono obbligati a coesistere in perenne fragile equilibrio. «È il re di Roma che viene qua, io entro dalla porta principale…», diceva di sé stesso Massimo Carminati, il boss nero che l’accusa di 416 bis però è riuscito a scrollarsela.

Perché vedere mafia fuori dai territori di origine resta per molti versi ancora un percorso impervio. Clan vecchi e nuovi, gruppi emergenti e colletti bianchi, soprattutto loro, possono ancora farla franca. Le segnalazioni di operazioni sospette languono e i reati spia (turbativa d’asta, traffico di influenze, riciclaggio, corruzione e concussione) restano circoscritti. Privi del bollo di mafiosità sembrano poca cosa agli occhi del pubblico che ancora dieci anni fa plaudiva rassicurato a chi gli raccontava di un Nord e di un Centro immuni per diritto divino dalla malapianta. E invece se la ritrovano comoda tanto nelle curve degli stadi quanto nei cda.

La predizione sciasciana sulla linea della palma è diventata la metafora di quello che chiamano contagio. «E invece è radicamento», ha ribattuto il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri.

Come ha ricordato lo studioso Rocco Sciarrone, non era alla palma che bisognava guardare ma alla linea. Al paradigma mafioso che si faceva largo, diventando consuetudine del potere. Mafia che si impone ma viene cercata, invocata, blandita, coccolata e protetta. Dagli imprenditori in crisi di liquidità, da chi con la protezione spera di sterilizzare la concorrenza. Da chi spalanca i capannoni a soci munifici e si ritrova per strada. Dai professionisti e dalle banche.

L’intimidazione quasi scolora nella minaccia ambientale, di sistema.

Ci sono gli investimenti del denaro della droga, la ristorazione – il clan del camorrista Angelo Moccia controllava 14 locali della capitale – il turismo, l’agroalimentare e l’immobiliare. E la Lombardia è quarta per fabbricati confiscati e quinta per numero di aziende. Ma ci sono anche i traffici diretti: i rifiuti – l’ultimo affare in Toscana sullo smaltimento in odore di ’ndrangheta – le guardianie, i subappalti e le girandole delle società cartiere. Servono a frodare il fisco ma sono anche il formidabile passe-partout per entrare nelle aziende e impadronirsene.

Anche il grimaldello del recupero crediti si attiva a richiesta. A rivolgersi al vecchio padrino di Brancaccio, il medico boss Giuseppe Guttadauro che con un’intercettazione aveva spedito in carcere il presidente della Regione Siciliana Salvatore Cuffaro, era stata una nobildonna dell’aristocrazia capitolina che pretendeva 16 milioni da Unicredit. La commissione per il disturbo era pari al 5 per cento. Dopotutto di mediazione si trattava. I modi spicci erano messi nel conto e le potenziali vittime già inquadrate. “Il dottore” aveva pure messo in mezzo il figlio Carlo al quale raccomandava un personalissimo senso della modernità mafiosa: «Ti devi evolvere, hai capito? Il problema è rimanere con quella testa, ma l’evoluzione…». Adattarsi, cambiare pelle, pensare mafioso e agire nel business.

Raccontano le carte giudiziarie che un gruppo autonomo di camorristi napoletani chiese il permesso e pagò una tassa ai Casalesi doc per potere spendere, quasi fosse un franchising, il nome della ditta per accreditarsi in Veneto. Lì dove avrebbe investito l’ex imprendibile Matteo Messina Denaro e prima di lui il boss palermitano Salvatore Lo Piccolo.

Tra tutti i territori il Veneto è il più appetibile. Ha un tessuto di piccole imprese, cresce più del resto del Paese ma vede aumentare vertiginosamente i comuni interessati da sequestri e confische di beni. Indice di una presenza mafiosa con numeri record, come accertato da uno studio di Antonio Parbonetti, economista dell’università di Padova (L’Espresso, n°23 del 12 giugno 2022), relegato a dossier clandestino da un imbarazzato governo regionale. Racconta di ventimila aziende infiltrate dalle cosche. Troppe per parlare di contaminazione. «Sono venuto qui per imparare», sintetizzò l’ex camorrista Nunzio Perrella, specialista in traffico di rifiuti («La monnezza è oro»), per spiegare che il territorio si prestava all’espansione.

Più di recente Mario Crisci, 33 anni da Castel Volturno, un padrino autocostruitosi, con base a Selvazzano, in provincia di Padova, ha raccontato da pentito al pm Roberto Terzo: «Siamo venuti qui perché qui sono disonesti. Più disonesti di noi. Io sono un esperto di elusione fiscale. Qui la gente non ha voglia di pagare le tasse, peggio che da noi. Molti, grazie a me, hanno mandato i capitali all’estero e i loro professionisti erano presenti alle trattative». Centoventi imprese nella rete, in un impasto di convenienze, minacce e ricatti. Un solo testimone. Meridionale.

A Eraclea, l’imprenditore edile casalese Luciano Donadio, da vent’anni in Veneto, avrebbe portato in dote al sindaco i voti necessari a vincere e così il primo cittadino e l’ex sono finiti coinvolti nell’inchiesta per mafia. A Verona, l’indagine sul calabrese Ruggiero Giardino, figlio di Antonio detto “Totareddu” vicino alla cosca degli Arena Nicoscia di Isola Capo Rizzuto, – interessi edilizi anche in Toscana – è arrivata fin dentro la municipalizzata dei rifiuti scaligera, sfiorando l’ex sindaco Flavio Tosi, risultato estraneo. Alla corte dei Giardino studiava Nicola Toffanin veneto che più veneto non si può, detto l’avvocato. Studiava con mire da capo. Veneti i funzionari di banca, i commercialisti amici, le teste di legno messe alla guida delle società della grande lavanderia.

Anche così le mafie lavorano a tutto spiano. Quaranta miliardi di fatturato, due punti di Pil, stima la Cgia di Mestre, escludendo i proventi dell’economia legale che da quei capitali è inquinata. Così l’ordine di grandezze potrebbe crescere fino a 140 miliardi. Un mondo parallelo intorno al quale il Paese orbita. Sono 220 i miliardi attesi con il Pnrr, 31,5 per infrastrutture e gli allarmi si moltiplicano.

«Bisogna proteggerli da una criminalità non solo organizzata ma globalizzata, ormai multinazionale ed essenzialmente finanziaria», ha detto il presidente del Consiglio Mario Draghi a maggio 2022 al trentennale della Dia. E poi ci sono i grandi eventi come le Olimpiadi invernali. Ovunque i mafiosi hanno imparato la lezione. Menano e sparano alla bisogna ma gli affari prosperano se c’è pace. Un mediatore della Piana calabrese, spedito nel Lazio a far da paciere, teorizzava di tenere distinte le «ragioni economiche e le ragioni d’onore», le uniche per le quali valga la pena di mettere mano alla fondina. L’indice di penetrazione mafiosa di Transcrime è l’algoritmo da sbattere in faccia a un Paese che preferisce il folklore dell’ultimo Padrino alla sostanza del dramma. È lo stesso ministero dell’Interno ad avvertire che già nove cittadine del Nord pesantemente infiltrate segnano un trend in crescita. Disegnano una rete di compromissione con i politici, certo, e un contorno di funzionari e professionisti proni a mafie che si sono fatte potere. «Per essere mafiosi bisogna essere potenti imprenditori», raccomandava un padrino. Le origini si smacchiano e le indagini, spesso ostacolate appena sfiorano i piani alti, sono esposte ai venti cangianti di una legislazione ondivaga e di una giurisprudenza altalenante.

«La mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e magari industriali. A me interessa conoscere questa “accumulazione primitiva” del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e ristoranti à la page. Ma mi interessa ancora di più la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere».

Lui era Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il generale prefetto mandato a morire a Palermo il 3 settembre del 1982. Parlava così al taccuino di Giorgio Bocca (Repubblica, 10 agosto 1982) pochi giorni prima di essere ammazzato con la moglie Emanuela e il poliziotto Domenico Russo. La mafia non era ancora nel codice penale. Ci sarebbe entrata solo dieci giorni dopo con la legge che porta il nome di Pio La Torre, il segretario regionale del Pci ucciso con Rosario Di Salvo il 30 aprile precedente. Non esisteva eppure vinceva. In casa e fuori.

Grandi opportunità su tessuti economici permeabili. Schiere di professionisti disponibili e politici pronti a scambiare voti e favori. Così quello che era un contagio diventa radicamento.

Fonte:https://espresso.repubblica.it/inchieste/2023/02/01/news/mafia_al_nord-385916097/