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Di Lello: «Io, la mafia e i miei colleghi» lo sfogo di un grande magistrato amico di Falcone

Di Lello: «Io, la mafia e i miei colleghi» lo sfogo di un grande magistrato amico di Falcone

8 Giugno 2019

Ad oltre trent’anni dal Maxiprocesso uno dei quattro giudici del pool di Falcone ricorda quei tempi e li paragona al tempo attuale. L’uscita del film “Il Traditore” porta sul grande schermo la ferocia mafiosa di quegli anni e anche i tanti”sospetti” di uno Stato complice che ha cercato di fermare Falcone e Buscetta. Di Lello, grande magistrato fedelissimo di Falcone collaborò al maxi processo. In un clima molto surriscaldato per la magistratura italiana serve la saggezza dei grandi che ammettono senza peli sulla lingua le debolezze dei suoi colleghi e suggerisce da dove ripartire. L’intervista rilasciata a Repubblica, non è recente ma è, straordinariamente attuale.Di Lello appartiene a quella famiglia di magistrati che non ha mai subito le influenze della politica e neanche dell’antimafia di sistema.

Benvenuti nella guerra civile italiana. Iniziata nel dopoguerra, finita ieri l’altro, le cui tossine ancora ci avvelenano. Il campo di battaglia fu la Sicilia. Negli anni 80, questa guerra che si chiamò «lotta alla mafia» edificò la sua Piramide: il Maxiprocesso a Cosa Nostra, aperto il 10 febbraio dell’86 in mondovisione. All’improvviso sfilò nei telegiornali del pianeta una galleria di personaggi usciti da vecchie pellicole noir hollywoodiane. Quella fu la prima volta che la mafia venne condannata fino in Cassazione. Si disse così addio all’impunità dei mafiosi che durava da decenni.

Tutto era iniziato nei Sessanta, quando i primi libri sulla Onorata Società (Pantaleone, Sciascia) avevano fatto il paio con le prime inchieste giornalistiche (Chilanti e Farinella su L’Ora ), stanando tra fichidindia e coppole quelle facce cattive che mordevano sigari come Gambadilegno. L’epopea nera delle cosche, intanto, aveva ipnotizzato l’immaginario collettivo, grazie al film di Coppola, Il padrino: Marlon Brando aveva portato in tutte le case il volto e la parlata di don Vito Corleone, rendendo il fenomeno a tutti familiare. Poi, dopo il Processone, con le stragi del ‘92, un’epoca si chiuse. Il sipario scese quando il capo del pool antimafia, Antonino Caponnetto, dopo il massacro di via D’Amelio, alzò le braccia davanti alle telecamere e si arrese al dolore: «È tutto finito».

Dopo la morte di Falcone e Borsellino vennero catturati i grandi e protetti latitanti (Riina e Provenzano in testa) e la Cosa Nostra stragista si autodistrusse tra troppi enigmi e misteri. Da allora è iniziata una altalena infinita di processi a imputati ritenuti più «raffinati» dei vari capiclan (Andreotti, Contrada, Cuffaro, Dell’Utri, Mannino, Mori) con dibattimenti e sentenze sempre oscillanti tra condanne e assoluzioni. Fino ai veleni sulla «trattativa» Stato-mafia e alla scoperta del depistaggio nell’inchiesta Borsellino. E ora? Che bilancio si può tirare?

Ma, alla fine, la mafia ha perso o no?
«C’è uno schema ricorrente nella storia italiana. In certe fasi la mafia alza il tiro, provocando la reazione dello Stato. Viene repressa l’ala militare e il suo referente politico. Ma non viene mai messo in discussione il sistema. Anche nel caso del Maxiprocesso, è stata colpita l’ala militare e i suoi riferimenti politici. Ma la compenetrazione del sistema non è stata messa in discussione».
Insomma, la mafia è viva.
«Oggi la mafia si è resa conto della assoluta impossibilità da parte dello Stato di far finta di nulla. E si è acquattata. La strategia degli omicidi non esiste più».
Quando la mafia tace è peggio?
«Non è di poco conto che non ci siano morti. Fa affari, ma non ci sono morti».
Questo la dice lunga. Eravamo abituati a vivere in una guerra civile…
«A Palermo non si usciva più di casa. Personalmente ho contato cinquecento morti. Ero giudice istruttore agli omicidi, in quegli anni. Furono morti alla Pirandello: 250 ammazzati per strada e 250 scomparsi nel nulla, equamente suddivisi».
Cos’è diventata la mafia oggi?
«Gli esperti non concordano. Per alcuni ha raggiunto il punto più basso, si attacca alle riffe di quartiere. Per altri è ancora forte. Spesso anche alti organismi gonfiano i dati solo per autolegittimarsi».
Così è se vi pare. Ancora Pirandello.
«Ma, almeno, la percezione sociale è cambiata. Non c’è più l’atteggiamento degli anni 70, quando se denunciavi il racket nessuno andava più al tuo negozio. I pentiti ci sono sempre, e come sempre sono un po’ veri e un po’ falsi. E anche i sequestri dei beni continuano».
Ma sono diventati una piaga.
«Sono il punto più alto del fallimento dello Stato, che non riesce a sostenere le aziende confiscate. Quando c’era il mafioso, nessun controllo. Appena arriva l’amministratore giudiziario, bussano alla porta Enel, vigili, fisco. Infine arriva il tribunale fallimentare. Di solito una sentenza fallimentare ci mette vent’anni. Per le aziende sequestrate, invece, il tribunale è fulmineo. Di solito quella stessa ditta ha un maxicredito Iva verso lo Stato. Ma a sua volta aspetta una sentenza. E quando arriva, ed è favorevole, la ditta è già stata dichiarata fallita. Un disastro».
Poi c’è il caso Silvana Saguto e lo scandalo delle misure di prevenzione.
«Possibile che nessuno si era accorto di nulla? Oggi tutti fanno finta di non averla conosciuta. Ma in tanti da quella mammella avranno attinto. Non solo: ci sono associazioni che, a proposito dei beni da gestire, fanno la parte del leone a scapito di altre».
Mafia e politica: sono ancora sposi?
«La mafia ha divorziato, specie in Sicilia. I boss hanno sempre avuto referenti forti. Oggi solo un mafioso di quartiere aiuta un politico».
E le imprese?
«Sono il nodo. Nella crisi, la potenza economica della mafia serve moltissimo».
Parla dei capitali del narcotraffico?
«Le estorsioni servono solo per pagare gli stipendi agli affiliati. Molti imprenditori hanno usato la mafia come fonte di finanziamento, per aprire grandi catene di commercio, di distribuzione, supermercati, alberghi. Questo è il vero business».
Il denaro di Cosa Nostra non è sparito?
«No. I grandi capitali sporchi del passato si sono fusi nell’economia reale. I denari dei grandi boss uccisi, soldi che erano stati investiti grazie a prestigiosi prestanome, frutto del traffico di droga e armi, oggi viaggiano dentro i canali normali. Non sono più rintracciabili».
Corrotti nell’antimafia: che succede?
«C’è stata una corsa a costruirsi una verginità antimafia, accampando inesistenti amicizie con Falcone e Borsellino. La retorica delle commemorazioni ha impedito di guardare la realtà. Chiunque si candidava come antimafioso veniva accolto nel club».
Grazie alle derive dell’antimafia, vecchi volti si riciclano, fanno i maestri…
«In Calabria hanno fatto arresti in un salone arredato con le foto di Falcone e Borsellino. Per me questo è il simbolo del fallimento di ogni retorica».
Quale fu il contesto delle stragi del ‘92?
«Non vendetta, ma prevenzione. Durante la stagione dei veleni, Falcone ripeteva: non dobbiamo fare polemiche, ci perderemmo solo noi, giochiamoci la partita, andiamo avanti, poi si vedrà».
Eppure dovette lasciare Palermo.
«La sua idea rimase questa anche a Roma: non mi possono marginalizzare, se mi danno anche un furto d’auto, io alla mafia ci arrivo lo stesso. Voleva andare avanti a tutti i costi. E qualcosa prima o poi avrebbe di certo combinato».
Non si sentiva isolato?
«Non lo era. Dove è stato ricordato con una statua? A Quantico, Stati Uniti, nella sede del Fbi. Non è mai sceso al livello delle beghe italiane. Venne appoggiato dall’amministrazione Reagan, Bush lo invitò, unico italiano, all’ambasciata a Roma. Falcone stava a questi livelli».
Poi sul Maxiprocesso esplose, da Napoli, il caso Tortora.
«Falcone si mangiava le mani. Disse: ma come fanno a credere che Tortora sia membro della camorra? Temeva la delegittimazione dell’intera magistratura. Come in effetti avvenne».
A Palermo evitaste simili rischi… 
«Falcone era attento a stralciare posizioni che richiedevano approfondimenti. Fu così per Bruno Contrada. Tommaso Buscetta lo aveva nominato tra i primi, ma di sfuggita. Gianni De Gennaro, preoccupato, chiese chiarimenti. Ma Buscetta disse a Falcone che preferiva limitarsi a quello. Così Falcone decise per lo stralcio. Su tutto fummo rigorosi. Buscetta parlò per tre mesi in segreto. Falcone lo verbalizzava, poi fotocopiava per una quindicina di persone. Nulla mai trapelò. La mafia scoprì che Buscetta stava collaborando perché, dopo l’arresto in Brasile, si rese conto che era sparito nel nulla: non era in nessun carcere, italiano o estero, non era in un ospedale. E allora dov’era?».
E la trattativa Stato-mafia? 
«Il processo non convince. C’è Dell’Utri, ma non Berlusconi. Non è contestato il favoreggiamento in strage. Non c’è la mancata perquisizione al covo di Riina. Infine, se Mannino e il generale Mori sono assolti in altri, analoghi processi ,come condannarli in questo?».
Come sta la magistratura? 
«Si è arrivati a riesumare la salma del bandito Giuliano. Si pensava forse di trovargli accanto il ministro Scelba?».

Fonte:http://ilcircolaccio.it