Definire un boss ”pezzo di m…” non si può, condannato Giacalone
Oggi l’assurda sentenza dopo il ricorso della Procura e dei familiari del boss Mariano Agate
di Aaron Pettinari
Familiari vittime di mafia, attivisti, giornalisti, prendete nota: da oggi si può pensare che un boss mafioso sia un “pezzo di merda” ma non lo si può dire o scrivere. Almeno secondo i giudici della terza sezione della Corte d’Appello di Palermo che questa mattina hanno condannato il giornalista Rino Giacalone per aver diffamato il boss Mariano Agate, capo mandamento di Mazara condannato all’ergastolo per la strage di Capaci.
Come? In un articolo pubblicato nel 2013 sul sito Malitalia.it, scritto nel giorno in cui il boss era deceduto all’età di 73 anni, Giacalone aveva scritto che con la morte del boss Agate era morto un “gran bel pezzo di merda” parafrasando la famosa frase di Peppino Impastato, “la mafia è una montagna di merda”.
Giacalone non si era fermato a quella sola parola. Nel pezzo infatti ripercorreva la “carriera mafiosa” e “giudiziaria” dell’Agate, ed era arrivato a quella considerazione dopo avere dimostrato la forte appartenenza dell’Agate a Cosa nostra ed alla parte più sanguinaria dell’associazione mafiosa.
Quelle parole così dirette e senza troppi “francesismi”, però, hanno dato fastidio alla famiglia Agate. Coì la vedova, signora Rosa Pace, e due dei tre figli Paolo e Vita, querelarono Giacalone con la Procura di Trapani che ne dispose la citazione diretta in giudizio.
In primo grado Giacalone era stato prosciolto dal giudice di Trapani Gianluigi Visco, nel giugno 2016, “perché il fatto non costituisce reato”. Secondo quel giudice l’espressione usata “imponeva al lettore di confrontarsi con il sistema pseudo-valoriale” di Cosa Nostra “di cui era parte l’Agate, in un contesto ambientale nel quale la confusione (o apparente coincidenza) tra valori e disvalori costituisce un obiettivo preciso del sodalizio criminoso”. Secondo il tribunale la frase “rappresentava uno strumento retorico in grado di provocare nel lettore un senso di straniamento” per “sollecitarlo ad una nuova consapevolezza sulla necessità di sradicare ogni ambiguità nella scelta tra contrapposti (seppur artatemente confondibili) sistemi valoriali”.
La Cassazione però, a cui si rivolsero la Procura ed i familiari presentando ricorso, annullò quella sentenza e nelle motivazioni si fa riferimento al fatto che il mafioso, qualsiasi mafioso, ha diritto alla “dignità” che il “nostro ordinamento riconosce a qualunque essere umano, anche a chi è appartenuto a una associazione malavitosa sanguinaria e nefasta (o addirittura la capeggia)” e non può essere paragonato alla merda, neanche a un solo “pezzo”.
E nelle motivazioni si legge ancora che “il fondamento costituzionale del nostro sistema penale postula la ‘rieducabilità anche del peggior criminale e, pertanto, non può tollerare, neanche come artifizio retorico, la sua reificazione”.
Poco importa se veniva parafrasata la “celebre frase” di Peppino Impastato (“la mafia è una montagna di m…”). Secondo la Suprema corte quelle parole non potevano essere d’aiuto perché non prendevano di mira il singolo.
Così si è tornati di fronte ad un Tribunale con un nuovo processo, stavolta celebrato davanti alla Corte d’Appello di Palermo.
Nonostante nel processo sia stata ripercorsa la storia di Agate e ricostruito l’intero curriculum criminale (membro della cosiddetta commissione regionale di Cosa nostra, condannato all’ergastolo per mafia, attivo nella raffinazione e nel traffico di sostanze stupefacenti ed iscritto alla nota loggia massonica Iside 2) la Corte, presieduta dal giudice Dario Gallo, ha emesso la sentenza di condanna infliggendo al giornalista 600 euro di multa, oltre che il pagamento delle spese di tutti i gradi di giudizio; il pg Francesca Lo Verso aveva chiesto la condanna del giornalista a 4 mesi.
Giacalone, dopo la lettura del dispositivo di sentenza, si è detto frastornato ma non cambia idea tanto che su Facebook ha commentato: “Dicono che pdm a un mafioso non si può dire io non la penso così #pdm”.
Prima che i giudici si ritirassero in Camera di consiglio aveva reso dichiarazioni spontanee per spiegare il senso dell’articolo: “L’ho fatto – com’è evidente – citando Peppino Impastato, attraverso il ricorso alla figura retorica della sineddoche: per criticare la mafia nella sua interezza, ho fatto incidentale riferimento a un suo componente”, ha detto il giornalista.
Ma la spiegazione non deve aver convinto i giudici.
“Aspetteremo le motivazioni della sentenza e presenteremo ricorso in Cassazione contro questa decisione che riteniamo inaccettabile”, ha detto l’avvocato del giornalista Domenico Grassa. La difesa ha sempre sostenuto “l’assoluta irrilevanza penale” del testo di Giacalone. In tempi in cui si parla di ergastoli ostativi e diritti premiali per i condannati per mafia il rischio che anche una sentenza del genere possa essere accolta come un “segnale” è alto.
13 Gennaio 2020
fonte:http://www.antimafiaduemila.com/