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Dalle stragi agli appalti: così il clan Moccia è diventato azienda criminale

Dalle stragi agli appalti: così il clan Moccia è diventato azienda criminale

Dagli anni novanta i Moccia si sono inabissati scegliendo la strada della dissociazione alla quale credono diversi giudici, ma poi finiscono nuovamente travolti da inchieste della magistratura tra appalti e grandi affari

NELLO TROCCHIA

22 maggio 2021 • 14:11Aggiornato, 22 maggio 2021 • 15:04

  • La cantante Anna Bettozzi, il faccendiere Flavio Carboni,  imprenditori che hanno appalti con Enel, Rfi (rete ferroviaria italiana), Openfiber. Hanno una cosa in comune: sono tutti amici e in rapporti stretti con il clan Moccia.
  • Antonio Moccia inizia prestissimo «a 13 anni, uccide all’interno del tribunale un nemico», ricordano alcuni affiliati intercettati al telefono.
  • Per raccontare il loro potere bisogna ritornare al settembre 2017. Angelo Moccia è uscito da poco dal carcere, indossa occhiali da sole, modello poliziesco anni ottanta, orologio d’oro, papillon nero e accompagna la figlia, Lucia, all’altare.

La cantante Anna Bettozzi, il faccendiere Flavio Carboni, imprenditori che hanno appalti con Enel, Rfi (rete ferroviaria italiana), Openfiber. Hanno una cosa in comune: sono tutti amici e in rapporti stretti con il clan Moccia.

L’ULTIMO SANGUE

«La verità è che usain i soldi non li ha mai contati, lui i soldi li pesava», dice un pentito di camorra ai magistrati che lo ascoltano. Usain è Salvatore Caputo, imprenditore originario di Afragola, in provincia di Napoli, morto ammazzato nel 2017. Pochi mesi prima la procura partenopea aveva chiesto al giudice per le indagini preliminari il suo arresto, una richiesta che il giudice vaglia solo nel 2018 quando ormai Caputo era già un uomo morto.

I Moccia non erano più contenti della sua gestione finanziaria, alcuni collaboratori di giustizia hanno raccontato l’irritazione di alcuni membri della famiglia contro l’imprenditore poi ucciso. «Nel tempo Salvatore Caputo ha accresciuto il proprio potere economico e criminale come esponente di vertice del clan Moccia e senza ombra di dubbio vicino alla famiglia camorristica. Ha messo le mani in tantissimi settori economici; carburante, a grande livello, rifornendo grandi appalti. Si occupa anche dello scarto di ossa animali; si occupa di raccolta rifiuti e altro, anche piazzando i figli nelle aziende ma sempre evitando di comparire personalmente», racconta il pentito Salvatore Scafuto.

IL PROCESSO LUMACA AL CAPOCLAN

I soldi, tanti soldi, e i ritardi, troppe volte colpevoli, torneranno più volte in questo abisso criminale. Un abisso profondo come profonda è la radice che lega la famiglia criminale dei Moccia al territorio della provincia di Napoli e, in particolare, al comune di Afragola. I Moccia, qui, sono istituzione e la capostipite, Anna Mazza, per molti, è sempre stata la signora, per le cronache la vedova nera della camorra, dopo l’omicidio del marito Gennaro Moccia. Nessun clan italiano ha saputo trasformarsi così radicalmente costruendo una piramide dove il vertice non parla mai con la base, creando una cortina di ferro attorno ai soldi, mettendo al riparo gli imprenditori e le vagonate di capitali accumulati.

Ci sono i vertici, poi i senatori che guidano un’area territoriale e parlano con coordinatori delle articolazioni del clan che hanno la cassa. Sono i referenti dei capi, ma questi vivono lontano dal territorio campano, sono diventati romani. Questa è una strategia protettiva che passa anche attraverso l’eliminazione della vecchia guardia. Per anni, da un punto di vista giudiziario, ha pagato solo la manovalanza di strada che non ha potuto neanche nominare il nome del clan.

Nel 2019 Antonio Moccia, considerato il reggente, ad Afragola, ha fatto affiggere manifesti per tutta la cittadina prendendo le distanze da ogni attività estorsiva. Manifesti affissi ovunque con tanto di imposte pagate al comune. La solita strategia del clan di allontanare dalla famiglia ogni sospetto, raccontano i pentiti. «Un clan in grado di permeare così profondamente il tessuto connettivo sociale da riuscire a plagiare le coscienze e l’economica condizionando le consultazioni elettorali, influenzando gli esiti di vicende processuali complesse mediante strategie difensive come la corruzione di testimoni e collaboratori di giustizia, e infine sostenendo proposte legislative finalizzate al riconoscimento dei benefici di pena ai cosiddetti dissociati», si legge nelle carte dell’inchiesta della procura di Napoli.

«Venne da me Salvatore Caputo a nome di Gigino Moccia dicendomi che dovevamo fare vincere al ballottaggio …omissis… fatto sta che i Moccia avevano deciso che vincesse lui e io ho detto a Salvatore Caputo come doveva fare: nel quartiere San Marco è tutto abusivo e gli ho consigliato di promettere di non abbattere», racconta il pentito Salvatore Scafuto che chiarisce come si vincono le elezioni ad Afragola. Antonio Moccia è stato arrestato, qualche settimana fa, dai militari della guardia di finanza, per le infiltrazioni del clan nel settore petrolifero che ha portato in carcere anche la showgirl Anna Bettozzi.

Il vertice è composto da Antonio, da poco detenuto, da Luigi Moccia, in carcere al 41 bis, da Teresa, detenuta e da Angelo Moccia, libero fino al 2020 quando è stato nuovamente catturato. Proprio Angelo, detto Enzuccio, è ritenuto a capo dell’organizzazione, la mente raffinatissima. Come è possibile che questi boss entrino ed escano dal carcere anche avendo commesso alcuni di loro atroci delitti? Antonio Moccia inizia prestissimo «a 13 anni, uccide all’interno del tribunale un nemico», ricordano alcuni affiliati intercettati al telefono. Quest’ultimo è rimasto libero fino a inizio aprile mentre è ancora sotto processo per associazione camorristica.

Un processo che dura da dieci anni, un record incredibile e negativo. Nonostante le sollecitazioni della procura, guidata da Giovanni Melillo, il dibattimento procede tra rallentamenti, rinvii, deposito continuo della lista testi a ogni cambio del collegio. In una delle udienze Antonio Moccia, difeso dall’avvocato Saverio Senese, ha ribadito quello che più volte la famiglia si chiede: «Cosa dobbiamo fare per non avere più problemi con la giustizia?», una domanda che i membri della famiglia hanno posto più volte agli inquirenti. Il 17 marzo, nel processo a carico di Antonio Moccia viene ascoltato il comandante dei vigili urbani Luigi Maiello, fedele servitore dello stato, da sempre in prima linea contro malaffare e clan che aveva fatto un controllo in un garage dei Moccia qualche anno prima dove sarebbero stati ricoverati alcuni mezzi usati per costruire la stazione del tratto ad alta velocità di Afragola. Vicenda che aveva portato Moccia a querelare Maiello, querela poi archiviata.

Alla fine dell’udienza prende la parola Antonio Moccia. «Non è vero, lì non c’erano i mezzi della stazione e di questo c’è anche una smentita delle ferrovie dello stato (…) Voglio dire che il dottore Maiello si vuole vestire da eroe dell’antimafia (…) Ad Afragola, qualsiasi cosa succede è colpa dei Moccia, e se è questa la storia vuol dire io sto qua, impiccatemi, fate quello che volete, perché io sono stanco, signor Presidente, sono 40 anni che subisco questo». Moccia fa la vittima, intanto, gli uomini a lui legati, intercettati di lui dicevano: «Quello ti seppellisce vivo». Il pubblico ministero del processo è la magistrata Ida Teresi, raggiunta, negli anni, da esposti, denunce e procedimenti disciplinari, tutti chiusi in un nulla di fatto, rea di aver fatto il suo dovere ascoltando collaboratori e continuando, pervicacemente, a indagare su quel clan.

LO STRAGISTA TORNATO IN LIBERTÀ

A guidare il clan c’è Angelo Moccia, detto Enzuccio. Negli anni ottanta si consuma una guerra di camorra tra due formazioni criminali: cutoliani e nuova famiglia. Moccia è boss di vertice della nuova famiglia. Dopo la prima guerra ci sono nuove divisioni e Angelo Moccia partecipa a una strage che entra nella storia della camorra. Il 26 agosto 1984, a Torre Annunziata, è una domenica di sole quando un pullman turistico entra in città e si avvicina al circolo dei pescatori dove stazionano i vertici del clan Gionta, obiettivo dell’agguato da parte del clan Alfieri.

Dentro l’autobus non ci sono pellegrini, ma un commando armato fino al collo. Scendono e sparano, ne feriscono sette, ne ammazzano otto, tra questi un innocente, Francesco Fabbrizzi. Tra i sicari c’è anche Enzuccio. Strage di cui ampiamente scrive, all’epoca, sul Mattino Giancarlo Siani, il giornalista poi ucciso dalla camorra, nel 1985. Passano pochi anni e Angelo Moccia traghetta il clan, che aveva vinto la guerra di camorra contro i cutoliani, verso la cosiddetta dissociazione, una strategia difensiva che ha protetto il gruppo dalle parole dei pentiti, dalla vendetta dei nemici, ma soprattutto consentito di inabissarsi.

Prima l’alleanza criminale, chiamata nuova famiglia, di cui i Moccia facevano parte, aveva tentato anche un’altra strada: quella della violenza. Vengono uccisi i familiari dei pentiti e si consuma anche il tentativo, attraverso la corruzione di agenti infedeli, di compiere attentati direttamente contro i collaboratori di giustizia, c’era il progetto di far saltare in aria la sede della direzione investigativa antimafia di Napoli.

Una strategia che si arena così Angelo Moccia ne adotta una più raffinata: si consegna, nel 1992, e poi, due anni dopo, si dissocia. «Ad analoghi obiettivi di delegittimazione dei collaboratori e di inquinamento delle indagini risulta funzionale la strategia della cosiddetta dissociazione», scrive la procura di Napoli, già nel 1997. A credere alla dissociazione, invece, sono stati uomini di chiesa, della politica, della società civile oltre agli avvocati della famiglia che l’avevano proposta.

Tra chi ha creduto alla conversione anche magistrati. Dopo 22 anni di carcere, i giudici di sorveglianza dell’Aquila accolgono la tesi difensiva e «l’impossibilità dell’utile collaborazione in merito ai fatti» per i quali Moccia era stato condannato. «Angelo Moccia è sul piano morale, molto più apprezzabile dei collaboratori di giustizia poiché la sua dissociazione dal crimine non fu motivata dalla ricerca di vantaggi processuali e carcerari, ma da un vero e proprio pentimento, maturato anche con la frequentazione di autorità religiose come il vescovo Riboldi», così il tribunale di sorveglianza dell’Aquila, nel 2015, concede l’affidamento in prova ai servizi sociali a Moccia citando nelle motivazioni un passaggio di una sentenza della corte d’Assise d’appello di Napoli risalente al 2006.

Non solo gli avvocati, ma inquirenti, magistrati, giudici credono alla resipiscenza dei Moccia. Una dissociazione vera o finta per proteggere relazioni e patrimonio? Intanto i Moccia escono dal carcere, Enzuccio torna completamente libero, nel 2016. Sulla sua vicenda viene scritto anche un libro.

IL LIBRO BENEDETTO DALL’EX PM ANTICAMORRA

Gli avvocati Saverio Senese e Libero Mancuso firmano «Una mala vita, la vera storia di Angelo Moccia». Libero Mancuso è stato un magistrato, si è occupato della P2 di Licio Gelli, di brigate rosse, della strage di Bologna, degli omicidi della uno bianca, poi è stato presidente della corte di assise di Bologna. A Bologna è stato anche assessore in una giunta di centro-sinistra, poi ha partecipato, perdendole, alle primarie per la scelta del candidato sindaco di Napoli.

La prefazione è firmata da Nicola Quatrano, oggi avvocato dei Moccia, ex magistrato che aveva si era anche confermato, da giudice del Riesame, accogliendo il ricorso della procura, una misura cautelare per un affiliato al clan. «Ho cambiato mestiere e non c’erano ragioni di incompatibilità», dice Quatrano. La dissociazione è una farsa? «Guardi che solo la procura di Napoli non ha mai creduto alla dissociazione, l’ha sempre osteggiata, ma diversi giudici hanno ritenuto sincera quella scelta riconoscendo le attenuanti generiche ad Angelo Moccia». La postfazione è firmata da Paolo Mancuso, oggi presidente del Pd di Napoli e per lungo tempo magistrato anticamorra proprio nella città partenopea, pubblico ministero anche nei processi a carico di Angelo Moccia. Mancuso passa in rassegna l’approccio utilizzato dalla procura nei confronti della dissociazione difendendo il rifiuto di quella strada per sei motivi.

«E oggi, che dire? La tua scelta personale merita rispetto, a quella collettiva ancora non credo. Buona fortuna, Angelo: è un vero, sentito augurio che i fatti dimostrino (come pare stia avvenendo) la profondità del tuo ravvedimento», scrive Mancuso nella sua postfazione. Scriverebbe la stessa cosa alla luce delle nuove inchieste che hanno travolto la famiglia? «Negli anni novanta, la dissociazione ebbe tanti consensi, a partire dal procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna che ebbe momenti di riflessione positiva sulla vicenda, noi della procura di Napoli ci opponemmo», dice Mancuso.

E allora perché firma, nel 2016, quella postfazione? «Quando venne fuori il libro, Angelo Moccia era uscito dal carcere, c’era questa forma di silenzio di quell’organizzazione in quel momento, gli feci gli auguri per la sua dichiarazione di svolta». Ma rifarebbe gli auguri? «Gli auguri li posso sempre fare se uno dice che vuole cambiare vita ma poi Angelo non mi sembra sia stato colpito da nuove misure o sbaglio? Ah sì, se un soggetto viene arrestato si vede che le cose dichiarate non erano reali, ma la sentenza ci dirà la verità», conclude Mancuso.

Nel 2020, il ravvedimento di Moccia finisce azzerato da un nuovo arresto. Angelo Moccia ha messo in piedi, secondo la procura di Roma, una rete di prestanome e fedelissimi per gestire bar e ristoranti nel cuore della capitale e continuare a delinquere. «L’ultimo arresto riguarda vicende commerciali, alle quali si è voluto dare il connotato di violenza camorristica», dice ancora Quatrano. Al telefono gi affiliati dicevano: «Questo ha un esercito a disposizione (…) I ristoranti di Roma sono tutti loro». La dissociazione finisce con le manette. Eppure, nel 1997, la procura di Napoli lanciava già l’allarme: «La politica della dissociazione è espressione di un disegno di perpetuazione del disegno criminale camorristico».

Dissociazione intesa come consegna delle armi, fine del percorso criminale, ma senza accusare alcuno e senza mettere in nessun modo a rischio patrimonio e rete di collusione. La parabola criminale dei Moccia non ha eguali, ignorata e potente che attraversa ogni stagione con una rete di imprenditori che garantiscono affari nel settore del petrolio e degli appalti pubblici. Una storia criminale che inizia da lontano, dai rapporti con Flavio Carboni, faccendiere, condannato nello scandalo del Banco Ambrosiano e arriva ai giorni nostri. In mezzo anche la politica che non è stata in grado di prendere le distanze.

Due anni fa il sindaco di Afragola Claudio Grillo, sostenuto da una giunta di centrodestra, quando gli è stato chiesto un parere sui Moccia, ha così argomentato: «Guardi non penso, non faccio nè il giudice nè l’indagatore». Ma la sua è posizione largamente condivisa, sono rare le interrogazioni parlamentari sul potere dei Moccia e i mille settori nei quali il clan è infiltrato. Qualche anno fa anche gli investigatori, in una relazione sui fenomeni criminali, parlarono di presunto clan Moccia. Presunto.

ENEL, OPENFIBER, FERROVIE: GLI APPALTI DEGLI AMICI

I Moccia, da decenni, vivono, a Roma, tra i Parioli e collina Fleming, frequentano le persone che contano. Per ricostruire la rete amicale bisogna tornare indietro a una data importante per la famiglia: il dieci settembre 2017. Angelo Moccia è uscito da poco dal carcere, indossa occhiali da sole, modello film poliziesco anni ottanta, orologio d’oro, papillon nero e accompagna la figlia, Lucia, all’altare. Sposa Giosafatte Laezza, di mestiere imprenditore. Al ricevimento ci sono gli amici, i sodali del clan, ma anche amministratori delegati di imprese importanti. A fare gli auguri alla famiglia che celebra le nozze a Villa Miani dopo il rito religioso nella basilica di San Lorenzo in Lucina c’è Bartolo Paone, amministratore delegato di Cogepa.

Un’azienda leader nel settore delle telecomunicazioni che ha, tra i clienti, anche società pubbliche. «La società stipula importanti contratti con grandi clienti come Tim divenendo impresa di rete per le Regioni Umbria, Puglia e Campania (…) Attraverso il Consorzio Scie di cui CO.GE.PA. Telecommunication S.p.A. detiene il 70%, si aggiudica il contratto Multizonale di Enel Umbria in esclusiva per i lavori di manutenzione…Stipula importanti contratti sui cluster A&B e C&D con la nuova Società di Telecomunicazioni Open Fiber», si legge nella descrizione delle attività sul sito. Non c’è solo Paone, ma anche costruttori edili, titolari di aziende di calcestruzzo, di macellazione di carni, di imballaggi di plastiche.

Ci sono anche i fedelissimi del clan. In passato i congiunti dei Moccia, con le loro aziende, hanno lavorato per le ferrovie dello stato in diversi appalti prima di finire bloccati da un’interdittiva antimafia, era il caso della Del Gap costruzioni, del figlio di Giuseppe De Luca, cognato di Angelo Moccia. Al matrimonio c’erano anche i titolari di una grande azienda, come la Kam costruzioni, che ha come principale cliente «attualmente la società Rfi (rete ferroviaria italiana) S.p.A», si legge sul sito della società. Il titolare Manlio Esposito era presente al grande evento. Vicini alla famiglia sono anche i Petrillo, Enrico e Gennaro, padre e figlio, titolari della Edilmer, impegnata nel settore edilizio. Nomi non coinvolti in inchieste, ma presenti per celebrare il grande evento.

IN SARDEGNA CON CARBONI

C’è un ultimo capitolo delle relazioni che ci porta in Sardegna e a Flavio Carboni, il faccendiere condannato per lo scandalo del banco ambrosiano. Carboni è in rapporti con i Moccia già dagli anni novanta, emerge dal racconto dei collaboratori di giustizia e anche da atti giudiziari che raccontano di soldi prestati e di compravendita di terreni. «A tal riguardo, per averlo appreso da Angelo (enzo) Moccia, mio amico da sempre, posso riferire che (…) Flavio Carboni aveva contratto un debito di alcuni miliardi con Angelo Moccia (…) intervennero allora il Nicoletti (considerato cassiere della banda della magliana, ndr), anch’egli creditore del Carboni (…) Nicoletti soddisfece i creditori acquisendo terreni in Sardegna cedutigli dal Carboni», racconta il boss pentito Pasquale Galasso, a metà anni novanta. In questa rete di rapporti spuntava anche un imprenditore salernitano: Angelo Rainone.

Ma, a distanza di 20 anni, i rapporti riprendono. Flavio Carboni incontra, nel 2013, proprio Angelo Rainone, a Roma. Rainone prima vede Luigi Moccia e poi Flavio Carboni. Perché? «Negli anni novanta io partecipo a un investimento immobiliare con Flavio Carboni, ne divento creditore perché questo investimento non porta da nessuna parte e quindi chiedo indietro i soldi», dice Angelo Rainone.

Ma i soldi erano dei Moccia? «No, conosco Luigi Moccia in quegli anni perché era anche lui creditore di Carboni» negando ogni tipo di intestazione per conto del clan. E perché un nuovo incontro nel 2013? «Purtroppo ci ricasco, metto altri soldi per un’avventura imprenditoriale con Carboni, l’esito è negativo, e ancora aspetto soldi da Carboni (quasi due milioni di euro in tutto). In quei giorni mi vedo anche con Luigi Moccia, ma è una coincidenza, con Luigi siamo amici da tempo».

Nei documenti, consultati da Domani, si ricostruisce anche il passaggio di un cd da Rainone a Moccia. «Si trattava della dieta per un problema all’orecchio, inutile romanzare, ma poi se avevano sospetti perché non mi hanno fermato?». Rainone, così come Carboni, non è stato coinvolto in indagini, per la sua amicizia con Luigi Moccia. Amicizia poi interrotta dall’arresto del capoclan: un clan che mantiene ancora un lato oscuro e coperto: quello politico e imprenditoriale.

Fonte:https://www.editorialedomani.it/