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Dalle feste in discoteca al carcere: i giovani boss della ’ndrangheta non ballano più

La Stampa

Dalle feste in discoteca al carcere: i giovani boss della ’ndrangheta non ballano più

Hanno intorno ai 30 anni e li hanno arrestati a Milano, Torino, Roma e Reggio Calabria. Un duro colpo per la «next ganeration» del crimine organizzato

GIUSEPPE LEGATO

PUBBLICATO IL 13 Dicembre 2020

In una delle ultime relazioni semestrali che disegnano – e analizzano – le parabole del crimine organizzato in Italia, la Dia ha acceso un focus sulle nuove leve della ‘ndrangheta. «che garantiscono – scrivono gli investigatori – la continuità del potere mafioso al di là del tempo che passa». Il fattore «next generation» delle famiglie della malavita calabrese è un tema sociologico prima ancora che di cronaca. Perché ha a che fare col darwinismo criminale e non solo con gli affari. Sempre più mimetiche, si calibrano sui tempi moderni in ossequio al principio della forma dell’acqua. Che si adatta al contenitore e non viceversa. Sempre diverse eppure uguali. Evolute nei modi, ma fedeli alle regole.

Il 2020 è stato un anno nero per i giovani boss di Milano, Roma, Torino e Reggio Calabria. Falcidiati da arresti e condanne sono caduti uno dopo l’altro gli eredi, di fatto o in diritto, dei casati più potenti della malavita. Traditi – di volta in volta – dalla brama di denaro, dall’eccessiva esposizione pubblica, dall’inevitabile necessità di calarsi in prima persona nell’agone perché i padri, gli zii, i nonni, sono in carcere. E qualcuno dovrà pur prendere i gradi, anche bruciando le tappe.

Giorgetto, il Malefix della starlette


Giorgio De Stefano, per i milanesi della notte Giorgetto, nato nel capoluogo lombardo 39 anni fa, residente nella centralissima via Boscovich civico 8 a due passi dalla stazione centrale, è in carcere dal giugno scorso. L’accusa. associazione a delinquere di stampo mafioso. Incensurato fino a quel momento, figlio – prima illegittimo e poi riconosciuto post mortem – del patriarca delle omonime famiglie di Reggio Paolo De Stefano ucciso il 13 ottobre del 1985 nel quartiere Archi dalle famiglie rivali nella sanguinosa seconda guerra di mafia di Reggio, era un giovane boss viaggiatore. Con la testa in Calabria e i piedi ben piantati nella movida, anche economica, milanese.

Da pochi mesi è diventato papà di una bambina nata dalla relazione con Silvia Provvedi, già ex del fotografo Fabrizio Corona e protagonista della vita notturna meneghina insieme alla sorella Giulia: le Donatella’s. Un vecchio boss di Reggio lo aveva ammonito per questo stile di vita “che – si legge agli atti dell’inchiesta Malefix originata dal nomignolo con cui la fidanzata lo appellava al Grande Fratello 2018 – mal si conciliava con le regole della ‘ndrangheta”. Lo aveva messo in guardia: «A Milano mi hanno detto che stai bene, ma devi stare attento Giorgio. La visibilità meno ce n’è e meglio è». Niente da fare. Troppo forte per il rampollo del casato De Stefano il richiamo della notte, dei ristoranti frequentati da vip e starlette.

Pensava di farla franca «utilizzando una serie incredibile di accorgimenti». Diceva a chi si preoccupava per lui: «Lo so è un manicomio. Ogni volta che vengo giù (a Reggio) devo scendere a Napoli, prendo la macchina, lascio i telefonini lì e poi me ne risalgo». Dice di lui Enrico De Rosa, un collaboratore di giustizia, ai pm di Reggio Calabria: «Pure a Milano, in un’occasione lo vidi che aveva tipo… mi è rimasto impresso il fatto che avesse sempre e solo fogli da 500 euro in tasca, proprio.. Un conto è che uno tira fuori soldi, di vario piccolo taglio, ma le carte da 500…». Scrive la procura: «Il giovane De Stefano progetta e programma il futuro in modo particolareggiato e con lungimiranza intervenendo al fine di sanare i conflitti interni assai dannosi per la forza del sodalizio e nello stesso tempo cercando di giocare d’anticipo sulle attenzioni investigative, spostando fisicamente il direttivo al Nord Italia, ma al contempo mantenendo il dominio del territorio. Il suo dire – si legge agli atti dell’inchiesta – è smaccatamente mafioso da ogni parte lo si legga ed il suo fare è del tutto in sintonia col suo dire da esponente della storica cosca omonima». Lo iure sanguinis.

Alfredo il cattivo, ras di San Basilio


Suo padre di nome Rosario Marando, ormai tanti anni fa era emigrato a Roma forse per togliersi di dosso l’attenzione maniacale degli investigatori calabresi e piemontesi che su di lui – ma soprattutto sul fratello Pasquale narcotrafficante di fama mondiale stanziale a Torino – avevano concentrato energie investigative. Si era insediato nel popolare quartiere san Basilio oggi tra le dieci più grandi piazze di spaccio d’Europa. E quasi 3 decenni dopo aver abbandonato il comune di Volpiano, il suo primo (di quattro) figli, sarebbe diventato un capo assoluto di uno degli avamposti di morte della Capitale.

Alfredo Marando, 28 anni, nato a Locri, «esente da precedenti di polizia», è stato arrestato dai carabinieri di Montesacro il 21 gennaio scorso. Il giorno prima la squadra del quartiere, il Real San Basilio aveva ottenuto un’agognata e schiacciante vittoria sul Fidene (4-0) balzando in testa alla classifica del girone B nel campionato di Promozione. Marando, da poco presidente della società sportiva, veniva intervistato dalle tv locali. In un italiano incerto con smaccato accento romano spiegava come fosse «orgoglioso dei suoi ragazzi. per quello che hanno dimostrato dentro e fuori dal campo». Considerazione che non può valere al contrario se è vero com’è vero che poche ore dopo, nel cuore della notte, tre gazzelle dei carabinieri si sono presentate a casa sua in via Sirolo per portarlo in carcere.

«Capo promotore di una delle quattro piazze di spaccio di San Basilio gestita con metodiche ispirate alle Vele di Scampia»: si legge nell’atto d’accusa dei magistrati. Non mafia, dunque, ma droga. tanta droga. Osannato dai tifosi come un filantropo che coi suoi soldi stava riportando in alto la squadra del quartiere, Marando era un cattivo ma efficientissimo leader «dell’enclave bunker» di San Basilio, un mercato della morte attivo h24: cocaina, hashish. marijuana. In un solo caso – secondo l’accusa – aveva ceduto 4,5 kg di coca pura fino al 70% a degli acquirenti, grossisti intermedi della piazza romana «corrispondenti a 20.123 dosi singole al dettaglio».

Lo svelano le intercettazioni telefoniche: quando un pusher a suo servizio assiste a una reprimenda del capo verso una vedetta disattenta: «Aho – dice alla fidanzata – io non c’ho paura mai, ma quanno parla Alfredo….». Ed effettivamente Alfredo è solito terrorizzare i suoi stessi adepti pizzicati a trasgredire le ferree regole della piazza di spaccio: «Uomo di merda! Guarda che ti ammazzo come un cane, quanto è vera la Madonna ti taglio la faccia». Ricorda, nei tratti violenti, lo zio Pasqualino Marando, l’uomo che con Roberto Pannunzi, il Pablo Escobar italiano, trasportò la ‘ndrangheta dei sequestri di persona in una nuova dimensione: quella di holding internazionale del narcotraffico.

Micu, il campione di crossfit

Osannato dai giornali locali che ne esaltano le gesta nella moderna disciplina crossfit, di cui è stato più volte campione italiano anche all’estero, Domenico Agresta, 34 anni, figlio di Antonio Agresta considerato dagli investigatori il reggente della ‘ndrangheta in Piemonte, è finito in carcere pochi giorni fa per effetto di una condanna definitiva al processo Minotauro. Dopo un decennio si è concluso l’iter giudiziario del giovane rampollo che deve scontare poco più di 3 anni per mafia. Il 3 novembre scorso i carabinieri si sono presentati a casa sua a Volpiano in via Van Dyke: lo hanno portato in carcere.

E per la “famiglia” Agresta – in senso lato e chiaramente criminale – è una perdita grave. Perché per gli investigatori “Micu”, sposato, due figli, contitolare di un’avviatissima palestra in strada Settimo al confine con Torino, era considerato il più capace erede di una dinastia lineare che dagli anni Novanta a oggi ha governato il narcotraffico internazionale dopo la scomparsa del cugino Pasquale Marando. «Ha più testa di tutti gli altri»: si dice nei corridoi delle caserme e il dato è oggettivo se non fosse che stona l’applicazione dell’indiscussa dote al dorso mafioso del merito.

Da giovanissimo – e per sua stessa ammissione – frequentatore delle principali discoteche del Valentino («al Life tutte le domeniche non mancavamo mai»), in aula ha sintetizzato la storia di una delle più potenti famiglie di ‘ndrangheta con poche, ma calibrate parole: «Anni fa vivevamo in un alloggio popolare a Volpiano, mio padre era detenuto. In alcuni periodi era lui – dal carcere – che ci aiutava anche grazie agli assegni familiari che riceveva per me e mio fratello. Mia mamma lavava le scale per una ditta di pulizie. La Calabria? Io sono nato qui, i miei genitori sono calabresi». È il simbolo delle seconde generazioni intrise di quel mimetismo mafioso che il pm Roberto Sparagna (oggi alla Dna) indicò come tratto essenziale della ‘ndrangheta al Nord per resistere al tempo e per calarsi meglio nelle realtà sociali diverse da quelle della terra d’origine. Cordiale in pubblico, risoluto in privato, è in carcere insieme al giovane fratello Michele, 34 anni, arrestato nell’operazione Cerbero 10 mesi fa. Una dinastia interrotta.

Domenico El Tigre della movida reggina

Li chiamavano i Teganini, i giovani Tegano, cognome che ha insanguinato le strade di Reggio Calabria durante le guerre di mafia a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, da sempre nel direttorio De-Stefano-Libri-Tegano al vertice della malavita in città. Erano il terrore delle movida reggina: risse, minacce, botte nei locali notturni, ma questo era solo il volto pubblico di una banda guidata da un giovane molto più pericoloso di quanto sembrasse agli occhi degli abitanti della notte sullo Stretto.

Perché Domenico Tegano, 28 anni compiuti da poco, «leader carismatico» in un corpo esile, sguardo violento nascosto da un paio di occhialini eleganti, era un vero capo. La sua corsa costellata da smania di gioventù, ambizione sfrenata e voglia di dimostrare che quel brand lo meritava più di altri, si è interrotta un mese e mezzo fa quando il gup di Reggio Calabria Arianna Raffa lo ha condannato a 11 anni e 8 mesi di reclusione nel processo «Galassia» che si è celebrato con rito abbreviato.

Era stato arrestato a novembre del 2018 in un’inchiesta che aveva svelato le mani delle ‘ndrine reggine sulle scommesse on line. Tre noti marchi di società nel settore erano state considerate dai magistrati «sinallagmatiche alla ‘ndrangheta». «Mi dicevano che comandava tutto lui ormai sui Tegano». Ancora: «Era un molto rissoso, si mi hanno detto…proprio aggressivo». Anche da qui l’appellativo di «El Tigre».

Figlio di Pasquale Tegano, boss assoluto della galassia delle ‘ndrine reggine, arrestato nel 2004 dopo una lunga latitanza e ora al 41 bis, «Mico El Tigre» è finito nei guai anche per una violenta aggressione a due poliziotti in borghese intervenuti per sedare una rissa avvenuta nel lungomare di Reggio Calabria, di fronte a una nota gelateria: «Quello biondo, sto cornuto…è venuto a dirmi: sono della polizia. E a te chi cazzo…(ti conosce). Me ne fotto che sei della Questura! Ma vedi che gli ho tirato due calci in faccia, ma sa come? Mancu li cani Signuri».