In un paese che sente la necessità di ribadire l’ovvio per norma, l’etica per legge – i magistrati non diano incarichi a parenti e amici – accade che il presidente del Senato, Pietro Grasso debba anche lui dire ciò che dovrebbe essere lapalissiano: l’antimafia lasci stare i soldi e il protagonismo dei singoli. 

Evidentemente le ombre che si addensano su alcune associazioni antimafia per l’uso disinvolto dei fondi, alcuni utilizzi delle dotazioni del Pon Sicurezza, frutto di una interpretazione assai ampia e onnicomprensiva del termine “antimafia”, devono essere arrivate anche a lui. Come anche il fatto che in qualche caso si tratta di qualcosa di più: illeciti penali, oggetto di accertamenti giudiziari. 

C’è il caso Saguto, la magistrata delle misure di prevenzione che ha trasformato la sezione palermitana in un dispensario di incarichi, consolidando un oligopolio di avvocati-manager che gestiscono i beni sequestrati e confiscati, ovvero la prima industria di Palermo. 

Arricchendo pochi e legittimando implicitamente mafiosi acclarati e sospettati perenni in un’azione di rivalsa contro l’intero sistema delle confische: il più temuto, il più formidabile tra quelli che aggrediscono gli interessi delle cosche. 

Uno strumento che ha il nome di Pio La Torre, il segretario regionale del Pci, ucciso a Palermo anche per quella legge che avrebbe visto la luce solo dopo la sua morte. 

C’è il caso Confindustria con Antonello Montante, l’alfiere dell’antimafia degli industriali che è indagato per mafia e difeso a spada tratta con un pre-giudizio che non conosce riserve dai colleghi ai massimi livelli della categoria. Quando anche uno solo dei dubbi sul suo operato, raccontati con dovizia di particolari su Repubblica, avrebbe suggerito una minima prudenza. 

C’è quella stessa antimafia acquartierata nelle stanze del governo regionale siciliano di Rosario Crocetta. Che a sua volta fa un uso politico dell’antimafia, clava contro i nemici, strumento dissuasivo contro gli eretici, minaccia preventiva contro gli scettici. Lasciando che poi la pratica amministrativa perpetui il consociativismo, l’amicalità, la cooptazione da partito tenda, come dimostra la vicenda Tutino. 

C’è Roberto Helg, l’ex presidente della Camera di Commercio di Palermo, già indagato per mafia, onnipresente nelle convention antimafia, condannato per aver chiesto una mazzetta al titolare della pasticceria dell’aeroporto, con destinatari plurali rimasti senza nome. 

E il campionario non è esaustivo.

Perché c’è anche l’antimafia inconcludente che magari frutta un seggio, ma non produce nulla.
C’è quella che si fa tifo da stadio e trasforma un processo in gazzarra. 

E quella che può perfino consacrare a idolo e simbolo Massimo Ciancimino. 

C’è da chiedersi cosa c’entra tutto questo con l’associazionismo antimafia degli anni Ottanta a Palermo che prima ancora di manifestare per strada sosteneva il pagamento delle spese di fotocopiatura degli atti per la costituzione di parte civile delle vittime non eccellenti della mafia: poche, impaurite, senza soldi, futuro e speranza? 

Cosa c’entra questa antimafia con quella dei ragazzi del liceo Meli che di fronte alle speculazioni di chi tuonava contro la “Palermo militarizzata” per la morte di due studenti, Biagio Siciliano e Maria Giuditta Milella, investiti alla fermata del bus dalla scorta di Borsellino, seppero dire con forza che no, Biagio e Giuditta erano vittime della mafia e non dell’antimafia?

Cosa c’entra questa antimafia con i tanti, volontari, amministratori, sindacalisti, magistrati, avvocati, giornalisti che hanno rimediato insulti, minacce, piombo per il loro impegno?

Cosa c’entra questa antimafia perfino con il settarismo degli intransigenti che anche stilando liste di impresentabili alle elezioni si assumeva almeno il rischio civile della denuncia? 

Adesso, insomma, non vi è termine più abusato, locuzione più svenduta, di anti-mafia.
Guscio vuoto, nell’evanescenza di una mafia che diventa sempre più il suo presunto opposto.