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Da Napoli a Palermo, la Dad strappa i ragazzi dalle scuole. E la malavita ringrazia

L’Espresso

Da Napoli a Palermo, la Dad strappa i ragazzi dalle scuole. E la malavita ringrazia

Da Caivano a Brancaccio cresce il tasso di evasione dalle aule nell’anno della pandemia. Fiammetta Borsellino: «Senza istruzione tanti giovani sono a rischio di finire nelle mani della criminalità»

DI ANTONIO FRASCHILLA E CARLO TECCE, FOTO DI SALVATORE ESPOSITO PER L’ESPRESSO

02 febbraio 2021

Un giorno assai ventoso di aprile la preside Eugenia Carfora ha ordinato ai ragazzi di spegnere le telecamere e affacciarsi ai balconi e alle finestre perché stava nel giardino della scuola a piantare i pomodori. Era un modo per prendersi cura assieme di qualcosa a cui voler bene, in un luogo spesso oppresso dal male. Eugenia insegna il bello da una dozzina di anni all’Istituto superiore Francesco Morano di Caivano, distesa di cemento armato in provincia di Napoli, quartiere Parco Verde, zona di droga e di vergogna, di cronaca nera e di aggettivi putridi. Da quei palazzi da cui precipitarono Antonio e Fortuna, due bambini capitati in un posto disgraziato e da cui tentò di scappare Maria Paola, speronata e uccisa dal fratello per aver osato amare un transessuale, da una dozzina di anni Carfora si è messa in testa che vuole cavare un futuro migliore: «Aprite le scuole: qui i ragazzi non hanno altro».

A Palermo la brezza ti spinge fuori dalle stanze basse, strette e umide. In via Conte Federico a Brancaccio, dietro l’istituto intitolato a padre Pino Puglisi, il prete beato ammazzato dalla mafia, la didattica a distanza, la cosiddetta “dad”, si fa in motorino, in due o in tre, senza casco e senza sosta. In due mesi le segnalazioni di dispersione scolastica in città hanno quasi eguagliato quelle dell’anno scorso. E Brancaccio batte tutti.

Alla periferia di Napoli come al centro di Palermo, a Caivano come a Brancaccio, le conseguenze della “dad” non si recuperano o si contrastano con una ordinanza. Tanti ragazzi chiudono il computer, per chi ce l’ha, e non tornano più. Vanno a spasso fra le macerie della società o si fanno mani e corpi giovani per la criminalità organizzata. La mafia e la camorra.

Eugenia Carfora sta dove sta la disperazione e non si appoggia mai alla retorica del dire, solo alla ruvidezza del fare: «Ho sempre acceso le luci della scuola. L’ho fatto perché la scuola non va in pausa, neanche la vita va in pausa. Chi va in pausa, muore. Per chi vive al Parco Verde di Caivano andare a scuola significa sentirsi uguali e lasciarsi dietro la porta tutti i problemi, gli affanni, le tensioni familiari. Andare a scuola vuol dire lavarsi la faccia, le mani e i denti. Quando tredici anni fa sono arrivata al Parco Verde, terra di nessuno, la metà degli iscritti non frequentava. Ho dimezzato la dispersione scolastica. C’era sempre chi veniva un giorno sì e un giorno no, ma io li tiravo per lo zaino, nelle piazze vuote, ai tavoli di un bar, fino a casa. La scuola per loro era diventata conforto, un rifugio sicuro. Un’opportunità di cambiare il destino, forse l’unica. A Milano in molti possono permettersi il precettore di latino a domicilio, a Caivano no. Se fai morire una cellula che sarà famiglia, muore il futuro di una comunità. A Caivano, 40.000 abitanti circa, c’è la scuola tra il degrado e la speranza. È un punto su cui da anni, mica soltanto col virus, si è abbattuta una contraerea senza sosta».

Eugenia non accetta l’alibi della pandemia: «A marzo hanno scoperto che non eravamo pronti per la didattica a distanza, ma se non avevamo mezzi per la didattica in presenza! Ci siamo inventati di tutto per resistere e adesso tutto è stato vanificato. La colpa è del virus, certo, ma è anche di chi ha sbarrato le scuole e se n’è pure vantato. Semplice. La gente è contenta, si avverte sicura, nella paura accetta tutto, ma così non va bene, io lavoro per il futuro e il futuro ha bisogno di sapere, discernere, comprendere e infine deliberare con coscienza. Il caos lo creano i trasporti? A Caivano solo ogni tanto vedi un autobus. I ragazzi vengono a piedi. Oppure una mamma ne carica 4 o 5 in macchina per 5 euro in nero. Dal 24 settembre i nostri ragazzi sono venuti per una dozzina di giorni. Siccome la legge lo permette, noi abbiamo aperto le aule ai ragazzi con disabilità per non lasciarli da soli, per non abbandonare i genitori e loro hanno frequentato sempre con gioia, con lo stupore, per una volta, di essere speciali. Io non so che scuola avremo dopo la pandemia, credo che più della metà degli iscritti non li rivedremo più, mentre l’altro Stato, quello silenzioso che non ti fa respirare, li ha già reclutati per scaricare merce, frutta, carni e verdure, per fare le sentinelle del buio, per trascinarli all’autodistruzione».

Il prefetto Marco Valentini è arrivato a Napoli un mese prima della pandemia: «Fin dall’inizio del mio incarico mi è apparso subito chiaro che le problematiche dei minori e l’abnorme circolazione di armi illegali fossero assolutamente centrali nelle politiche di prevenzione, non solo nell’ottica della tutela della sicurezza pubblica, ma anche nel senso più proprio della prevenzione sociale. Penso al fenomeno delle “stese”, sparatorie che avvengono in luogo pubblico e spesso in pieno giorno, a scopo intimidatorio, non di rado ad opera di giovanissimi già gravitanti nell’orbita dei clan, ma anche all’utilizzo di armi da fuoco nel compimento di reati minori, che vedono Napoli al primo posto in Europa. È chiaro che più allentiamo il contatto fisico con l’educazione e la cultura, più diradiamo incontro e socialità, più mettiamo a rischio i valori positivi di convivenza, che crescono nelle esperienze di comunità, prima tra tutte la scuola. Ci aspetta, dunque, un grande lavoro per mitigare gli effetti negativi delle pur necessarie chiusure. La questione che ci sta a cuore è la salvaguardia della coesione sociale. Questa si assicura partendo da coloro che sono più in difficoltà, mitigando le disuguaglianze e garantendo giustizia e diritti. Un immobile fatiscente, un quartiere deprivato, un cantiere infinito, un cumulo di immondizia abbandonata, non lavorano per la fiducia nelle istituzioni».Eugenio Moreno è il fondatore dell’associazione “maestri di strada” che si prende cura di centinaia di ragazzi nella parte est di Napoli: «Per chi come me insegna la vita in strada, la pandemia è un bel guaio». Campagne nelle fabbriche, la mensa proletaria, la militanza in Lotta Continua, Moreno non si arrende alle convenzioni mediatiche e politiche: «Si lanciano gli allarmi su Napoli? Io non li voglio sentire. Io sto in mezzo agli allarmi. I ragazzi sono esausti, in casa da mesi, reclusi con i genitori che hanno perso il lavoro in nero, che sono nervosi, che predicano. Diventano dipendenti da tutto mentre stavano cercando di diventare indipendenti. Io li accolgo, li ascolto. Facciamo musica, teatro, parliamo. I ragazzi si vergognano, le file per i pacchi viveri aumentano. Così subiscono un altro taglio addosso che poi sarà un’altra cicatrice. Senza la scuola e senza contatti, stiamo crescendo uomini e donne amorfe. Un terzo dei ragazzi qui non prosegue gli studi né cerca lavoro. Stiamo immettendo nella società una massa enorme di gente che non farà nulla, che una volta consumati i soldi di “mammà e papà” cercherà di sfangarla con gli espedienti, qualche rapina, qualche spaccio, un po’ di criminalità. E noi ci dovremmo stupire di questo pericolo? Di cosa ci stupiamo? Dove non ci sono luoghi di aggregazione, dove c’è abbandono, non c’è nessuna possibilità di redenzione. Solo un’eterna condanna sociale».

Ogni giorno a Palermo decine di ragazzi si congedano in silenzio dalla scuola. I conti li aggiorna una funzionaria dell’ufficio comunale dispersione scolastica, una struttura guidata dall’assessora Giovanna Marano e creata vent’anni fa da un’assessora delle giunte della Primavera (l’esperienza politica di Leoluca Orlando, tra metà anni Ottanta e primi anni Novanta, con un’alleanza tra una parte della Dc e la Sinistra), scomparsa troppo presto e però non dimenticata da insegnanti e studenti: Alessandra Siragusa. La funzionaria si chiama Sabrina Di Salvo, figlia di Rosario, l’autista di Pio La Torre che morì con il sindacalista e politico comunista nell’agguato mafioso del 1982. Sabrina Di Salvo ha ricevuto nei primi mesi di questo tribolato anno scolastico 840 segnalazioni di ragazzi non più reperibili dalla scuola, 250 soltanto a Brancaccio e nella zona che si estende verso Bagheria. «Lo scorso anno sono stati in tutto 1.200, se siamo già a questi numeri è evidente che c’è un problema molto grave. La pandemia ha reso tutto più difficile: noi recuperiamo moltissimi ragazzi dopo che riceviamo la segnalazione. I nostri operatori sul territorio, nove in tutto, fanno un grande lavoro e da vent’anni conoscono ogni famiglia. Ma il virus non consente quel contatto fisico necessario per conoscere le situazioni e far capire ai bambini e soprattutto alle famiglie l’importanza di andare a scuola. La pandemia ha ampliato il divario sociale: molte famiglie non vivono in contesti abitativi idonei a fare lezioni a distanza e non hanno le risorse per dare a tutti i loro figli pc e tablet».

Di Salvo coordina una squadra di nove operatori che conoscono bene i quartieri e le piaghe del disagio. Come Antonina La Malfa, che lavora a Brancaccio: «Molte famiglie stanno vivendo come un lutto questa pandemia e sono entrate in uno stato depressivo che coinvolge anche i bambini e i minori. La mamma di un ragazzino l’altro giorno si è messa a piangere: il piccolo, 11 anni, dorme in classe, mangia in continuazione dolci e spesso non va a scuola perché vuole dormire. Prende dei farmaci per riposare. E di situazioni simili ne sono sorte tantissime con la pandemia». Invece Salvo Giuffré lavora nel quartiere Zen: «Le mamme spesso decidono insieme di non mandare i bambini a scuola per paura del Covid, e così le assenze aumentano – racconta Giuffré – mentre la dispersione è cresciuta soprattutto nella fascia tra i 13 e i 16 anni». La paura è che questi bambini e ragazzi non rientrino nel circuito della formazione, della scuola, spesso l’unico appiglio per poter fare “altro” nel quartiere. Ed entrino invece in circuiti di microcriminalità o, peggio, vengano utilizzati dalla mafia per ”lavoretti” legati allo spaccio.

Fiammetta Borsellino, figlia del giudice Paolo trucidato da Cosa Nostra con la scorta in via D’Amelio il 19 luglio del 1992, in città sta conducendo una battaglia, spesso solitaria, per sensibilizzare le istituzioni a non chiudere le scuole e a mettere tra le priorità proprio l’istruzione nella prevenzione del Covid: per evitare che l’unica soluzione per limitare i contagi sia lasciare i bambini e i ragazzi a casa. Davanti al Teatro Massimo ha organizzato un sit-in con alcune mamme. Ma nessuna delle istituzioni le ha risposto: «Il presidente Giuseppe Conte ha commemorato mio padre al Senato nel giorno in cui avrebbe compiuto 81 anni, ma se c’è un regalo che il Paese può fare davvero a mio padre Paolo è l’apertura delle scuole: la maggiore forma di lotta alla mafia è la scuola, questo ripeteva sempre lui», dice Fiammetta Borsellino, preoccupata per il rischio che una generazione scivoli nelle fauci della criminalità, comunque in un destino segnato dalla marginalità sociale: «Anche gli adolescenti più impegnati si consegnano all’apatia. Lo Stato è assente. Abbiamo preteso che i medici degli ospedali andassero al lavoro, ma non c’è differenza tra medici e maestri che si prendono cura dei nostri figli. Si doveva mettere tra le priorità la sicurezza della scuola: invece è stata fatta la cosa più semplice, chiudere tutto. I ragazzi stanno diventando dei fantasmi, nella migliore delle ipotesi, nella peggiore rischiano di prendere pessime strade: mio padre l’ha sempre gridato che la “mafia si nutre del consenso giovanile, con guadagni facili in cambio di rapine, spaccio e rischi enormi per questi ragazzi molto giovani”. L’età adolescenziale è l’età nella quale si forma una persona, i danni sono irreparabili e se non si interviene lo saranno prestissimo».

Le fosche previsioni di Fiammetta Borsellino sono già realtà per gli operatori del carcere minorile Malaspina di Palermo. Salvatore Inguì osserva il fluire delle cose dall’Ufficio servizio sociale giustizia minorile: «Molti ragazzi non stanno più frequentando la scuola, anche tra i mille segnalati dall’autorità giudiziaria e che cerchiamo di seguire. Spesso perché non hanno i mezzi: con la Caritas e altre associazioni benefiche abbiamo cercato e stiamo cercando di dare intanto gli strumenti, come tablet e pc. Ma è tutto il sistema che sta crollando, perché i luoghi di aggregazione sono chiusi. Stiamo perdendo questi ragazzi dai nostri radar. Molti ragazzi rischiano così di entrare in circuiti ben più gravi legati alla mafia: si inizia facendo la vedetta per 100 euro, poi c’è il passaggio a corriere con 200 euro, e poi diventi anche spacciatore a tutti gli effetti. E ti diplomi per la vita sbagliata. Quella che di sicuro non porta gioia».