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Il Fatto Quotidiano, 16 gennaio 2018

Aemilia, il pentito Marino: “A Reggio soldi come balle di fieno”. E parla di un piano “per uccidere un assessore e giornalista”

A pochi giorni dall’inizio delle arringhe del maxi processo per ‘ndrangheta, il collaboratore di giustizia accusa: “In città c’era un corpo di ‘ndrina distaccato; una Famiglia che dal 2000 al 2006 disponeva di talmente tanto denaro che poteva dare fastidio al pil italiano”

di Paolo Bonacini

A Reggio Emilia c’era un vero e proprio corpo di ‘ndrina distaccato; una Famiglia che dal 2000 al 2006 disponeva di talmente tanto denaro che poteva dare fastidio al pil italiano. I soldi venivano ammucchiati come balle di fieno, arrivavano giù a Cutro con i camion per i mobili”. Parola di Vincenzo Marino, detto Vichs, o Nano, uomo di ‘ndrangheta e collaboratore di giustizia dal 2007 che martedì 16 gennaio, chiamato a deporre dal giudice Caruso, scarica in videoconferenza una valanga di accuse da prima pagina nell’aula bunker del processo Aemilia. Testa rasata, voce squillante, una grinta e una sicurezza nelle affermazioni da togliere spesso la parola di bocca agli avvocati difensori.

Non ha vissuto a Reggio Emilia, ma quando ci veniva non mandava preavvisi: entrava nelle case degli uomini della consorteria perché “era casa mia, perché dove erano i Grande Aracri ero io, perché ero passato di grado nella Maggiore e chi è a quel livello nella ‘ndrangheta decide della vita e della morte degli altri. L’ultima parola era la nostra signor giudice, e io nella famiglia Grande Aracri ero il ministro della Difesa.

Che aveva il compito tra gli altri di organizzare i gruppi di fuoco, di attaccare le Famiglie nemiche e di difendere la propria.

Lei per cosa è stato condannato?” è la prima domanda del Presidente Caruso.
Risposta: “Di tutto quello che c’è nel Codice Penale, esclusa solo la prostituzione”. Dagli omicidi al riciclaggio, dall’usura all’estorsione, Marino ha fatto ciò che si doveva fare per cosca, anche se non tutto è andato in porto. Come nel caso di quell’assessore che metteva la firma solo sugli atti regolari: “Che problema c’è” ricorda Marino che fu detto in un summit della cosca: “Lo facciamo fuori, ne mettiamo un altro al suo posto e la firma ce la mette lui”. Stessa sorte ipotizzata per un giornalista rompiscatole e non meglio identificato, se avesse continuato a romperle. Ma dei due, fortunatamente,
non c’è traccia né nome nella lista dei morti ammazzati. Per ora sono solo materiale per altre indagini della DDA.

Il “capo società”, padrone assoluto della ‘ndrina, conferma il collaboratore, era Nicolino Grande Aracri detto Mano di Gomma, definito “un vero giocatore di Serie A, con un cervello che vale dieci dei nostri”. Poi il capo a Reggio Emilia chiamato “il Contabile”. E’ Nicolino Sarcone, l’unico oltre ai fratelli di Grande Aracri col quale si intratteneva Marino quando saliva al nord: “Perché io parlo solo con gli squali, non con le alici”.

Sotto Sarcone, a conferma delle geometrie variabili e delle linee parallele già tracciate dall’altro collaboratore Antonio Valerio, ci sono uomini importanti e di eguale autorevolezza, per grado o per storia, per famiglia o per meriti. Franco Grande Aracri per primo, alla cui impresa edile arrivavano dal sud i soldi da riciclare e investire; poi Palmo Vertinelli, definito “la cassaforte” oppure “la lavatrice di Mano di Gomma”, arrivato a Reggio Emilia “con un ciuco e una carriola”, poi diventato un grande e affermato imprenditore “anche se neppure una bicicletta era sua”.

Un’altra “lavatrice” è Giuseppe Giglio, il ministro delle Finanze che al nord, sempre secondo il colorito parco mezzi di Marino, c’era salito “con una Topolino per poi ridiscendere dopo poche settimane con una Ferrari. Noi siamo stati in galera dal 2004 al 2006”, diceva il pentito in un precedente interrogatorio dei pm di Aemilia, e “intanto lui ha costruito un impero”.

Poi tocca a Michele Bolognino, un altro dei sei capi in Emilia Romagna secondo la DDA, uno “che era nelle braghe di Nicolino Grande Aracri, per dire secondo Marino quanto i due fossero intimi, e che si arrabbia nell’udienza mentre segue in diretta dal carcere dell’Aquila le parole del pentito e replica in contro-videoconferenza: “Come ha fatto quella persona che neppure conosco ad incontrarmi a Cutro nel ’99, visto che non sono mai uscito di galera tra il 1993 e il 2004? Dice che mi portava i camion rubati; e dove me li portava, nel parcheggio del carcere?”

Tra poche settimane le requisitorie e le arringhe finali inquadreranno questi fiumi di parole dei collaboratori nei diversi scenari di attendibilità o di contraddizione che pm e avvocati difensori proporranno ai giudici. Intanto si registrano nuove conferme di quanto già narrato in aula da chi ha preceduto Marino, come l’organizzazione moderna della ‘ndrangheta post 2007, meno vincolata ai riti arcaici e disponibile ad accettare ai suoi vertici anche chi non è formalmente battezzato. Con la sola esclusione dai summit nei quali si decideva chi ammazzare.

E’ una ‘ndrangheta che cambia dopo la tregua al Sud sancita nel vertice tra le cosche del 2006 a Cirò Marina e subito violata con l’uccisione di Luca Megna. Che al nord si è “imbastardita” ed ha preso una propria fisionomia autonoma, nella quale possono esistere anche uomini a “statuto speciale”, come si è autodefinito Antonio Valerio e come Vincenzo Marinoconferma: una sorta di 007 della mafia per i quali l’unico vincolo è portare vantaggi alla ‘ndrina.

Tra i non battezzati a Reggio Emilia c’era Palmo Vertinelli, che “non è uomo” dice Marino, nel senso che non è uomo di ‘ndrangheta affiliato nel nome di Minofrio, Mismizzu e Misgarru, i tre cavalieri protettori dei mafiosi calabresi. Nei primi anni 2000, dopo essere stato assolto al processo Scacco Matto, Vertinelli era finito in disgrazia per dei soldi fatti scomparire ed un vertice ad alti livelli a Cutro aveva deciso che dovesse essere eliminato a Capo Colonna durante le feste di Natale. Poi le cose si chiarirono e Palmo è oggi lì dietro le sbarre in aula ad ascoltare queste rivelazioni da brivido. Ed ascolta anche l’opinione piuttosto sprezzante che di lui ha Vincenzo Marino: “Se non intervenivamo noi, non sapeva fare neanche un marciapiede”.

Come restituivano i soldi investiti dalla cosca questi imprenditori?
“Gli appartamenti non si mangiano signor giudice” è la risposta di Marino. Per dire che tutti gli immobili e le società intestati alle tante “
teste di legnosparse per il nord Italia sono in realtà della consorteria e alla consorteria faranno prima o poi ritorno.

E nessuno si ribella?” viene chiesto.

Signor giudice, non solo chi è amico, ma anche il vicino di casa si fa togliere tutto il sangue piuttosto che parlare. Questo è il sistema calabrese”.

C’è tempo per un’ultima chicca prima di chiudere il collegamento con il luogo segreto dal quale parla Marino. Una conferma indiretta di quanto detto qualche mese fa da Antonio Valerio a proposito degli affari che la ‘ndrangheta avrebbe fatto grazie a funzionari o amministratori compiacenti nei comuni dell’Emilia. Dice Marino: “Quando noi compravamo i terreni agricoli perché l’assessore ci diceva che in tre anni sarebbero diventati edificabili, noi ce li dividevamo già per il futuro. Oggi me li intesto io, domani passano a Tizio, dopodomani a Caio. Perché a determinati tavoli non ci si limita a fare ipotesi, a prevedere il futuro. Lo si decide.