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Così la mafia ha conquistato Roma Sud: parla il boss pentito

L’Espresso, MERCOLEDÌ 5 GIUGNO 2019

Così la mafia ha conquistato Roma Sud: parla il boss pentito

Le affiliazioni, gli omicidi, i tradimenti. Ecco come i clan 
hanno conquistato il litorale della Capitale. E ora le famiglie si spartiscono il traffico di droga lungo la costa e controllano il territorio tra Torvaianica, Nuova Florida e la statale Pontina

DI FLORIANA BULFON

Il mafioso siciliano lo dice apertamente, senza giri di parole: «Lì è più facile stabilirsi come cosca, c’è meno rischio che ti riconoscano l’associazione mafiosa». Sta parlando del litorale laziale: una terra felix – fino a qualche anno fa – per fare affari, rifugiarsi da latitanti, uccidere chi non rispetta le regole. E con un vantaggio in più: l’idea diffusa, in passato, che se si sta sulla costa di Roma non si sia accusati di mafia.
Eppure i boss sbarcati a due passi dalla capitale non solo hanno l’obiettivo di «prendere il controllo» ma chiedono anche la massima fedeltà, con tanto di rituale di affiliazione: «Un nuovo mafioso è tra noi», viene scritto; segue lo spazio bianco per inserire il nome del giovane “onorato” pronto a diventare “picciotto”. Le votazioni per il conferimento della dote prevedono perfino un’incisione sul corpo. L’officiante si chiama Salvatore Fragalà e vive a Torvaianica, centro balneare a una trentina di chilometri da Roma. Catanese di nascita, Salvatore Fragalà ha alle spalle una lunga carriera criminale. A 17 anni ha ucciso un coetaneo con un fucile da caccia perché sospettava parlasse con la polizia. Poi, una vita tra violenze e intimidazioni. L’ultima volta ha preso a calci e pugni un imprenditore libanese urlandogli: «Sono delinquente nato, appartengo alla prima famiglia catanese. Se non mi fai trovare i soldi ti sparo». Ad accompagnarlo nella spedizione punitiva c’erano il cugino Vincenzo D’Angelo e Francesco Loria, il giovane figlio di un capomafia catanese che da ricercato aveva trovato rifugio proprio in casa Fragalà.

Per le regole di famiglia, “l’infamità” è la macchia più grave, un tradimento da punire con la morte. Oggi però a rinnegare il patto di fratellanza e il vincolo di omertà è proprio il fratello di Salvatore Fragalà, Sante. Sconta una condanna a 26 anni per duplice omicidio e ha deciso di raccontare tutto al pubblico ministero Giovanni Musarò della Direzione distrettuale antimafia di Roma. «Mio fratello e mio cugino sono affiliati ai Santapaola di Catania. Ho iniziato con i miei zii che sono arrivati dalla Sicilia. Uno di loro, Piero Cantella, mi dava da portare la droga».

La testimonianza di Sante Fragalà svela così le dinamiche dell’invasione alle porte della Capitale, che ha origini lontane: già nel lontano 1991 Cantella incendiò la caserma dei carabinieri di Torvaianica e per uccidere un maresciallo incaricò il nipote Sante, poco più che adolescente, di andare a prendere un fucile di precisione. Di Piero Cantella si persero le tracce in una giornata di pioggia di vent’anni fa: lupara bianca nel Lazio. Un altro zio di Fragalà, Alessandro, è invece ai domiciliari dal 2015. Vanta una lunga carriera criminale e la capacità di intervenire per dirimere controversie con gli uomini di Michele Senese, re del narcotraffico della Capitale, e con il boss di Ostia “don” Carmine Fasciani.

Nella loro colonizzazione del litorale laziale, i Fragalà si accordano e fanno affari con tutti. «A me non mi tocca nessuno, dalla mia parte ho siciliani, calabresi e romani», dice Sante dal carcere, prima di “pentirsi”. I summit si tengono in luoghi protetti; da dietro le sbarre si spediscono minacce di morte e si stringono alleanze. È così che Gaetano Loria, il braccio destro di Santo Mazzei del clan catanese dei Carcagnusi, diventa il padrino di Fragalà e spedisce i parenti da Catania a Roma. Gli trovano un’adeguata sistemazione in una bella palazzina con giardino a Nuova Florida, quartiere di Ardea a due passi da Torvaianica. Le due famiglie sono ormai unite e vivono in simbiosi: vanno insieme anche al carcere di Rebibbia ai colloqui. Francesco Loria, il figlio del boss, incontra pregiudicati romani e calabresi. Frequenta anche Francesco D’Agati, l’anziano palermitano amico di Pippo Calò. È il consigliori a cui rivolgere le richieste più delicate. Per muoversi utilizza la stessa auto con cui scorrazza Francesco Condorelli, legato anche lui ai Santapaola.

Sul litorale di Roma dunque i clan prosperano. Ma un giorno scoppia l’incidente: Santo D’Agata, pluripregiudicato catanese, tenta di fregare don Carmine Fasciani, prendendosi una partita di cocaina senza pagare gli 80 mila euro dovuti. I Fasciani sono amici: Azzurra, una delle due figlie del “don”, conserva ancora sul comò una foto di Daniele, il più piccolo dei Fragalà ucciso nel 2006 per una lite. E quando Fasciani finisce a Rebibbia chiede di dividere la cella proprio con Sante. «Mi vuole bene quell’uomo», scrive orgoglioso Fragalà alla moglie Ausonia. Insieme in Alta Sicurezza, come fossero al lungomare di Ostia. Nello stesso braccio ci sono pure i fratelli del “don” e suo figlio Alessandro. Le famiglie non si separano mai, anche nelle sezioni femminili.

«Caro Sante, finalmente sono riuscita a mettermi in cella con tua moglie!», fa sapere entusiasta Sabrina, l’altra figlia di Fasciani. Per comunicare si scrivono lettere su fogli colorati con i disegnini di cuori e api, ma come in una telenovela Sante scopre il tradimento: Santo D’Agata, l’uomo che ha incrinato i rapporti tra le famiglie, s’è fidanzato con sua sorella. È furioso. «Tu sei infame come a lui!» le dice. «Ma come, io lo volevo ammazzare, e tu ti ci metti?». A risolvere la questione ci pensa Gaetano Loria, lui è uomo d’onore: «Facciamo una cosa, te lo ammazzo io». Il piano è di ucciderlo non appena otterrà un permesso per uscire. D’Agata per Sante è «un parassita», un «viscido», insomma «una merda». Ha fatto qualcosa di grave, destinato a produrre pesanti conseguenze. È richiesto l’autorevole intervento di Salvatore, deputato ad «accarezzarlo». Nulla di delicato, deve essere «pistato di botte». Per giunta s’è preso pure i soldi. I Loria per l’unione sancita «garantivano mille euro al mese per il mantenimento in carcere, visto che io ero con loro. Più l’extra, magari facevano una rapina». Nella onorata società vengono riconosciuti anche i premi produzione.

Le complicazioni non finiscono qui. Un giorno infatti i catanesi del clan Cappello-Carateddi si presentano dal padre di Sante, che gestisce una pasticceria a Torvaianica: cannoli, paste di mandorla e un carretto siciliano. Arrivano al negozio e gli urlano: «Tu figghiu ni futtiu centotrentamila euro». Quindi lo caricano su un’auto e scendono lungo la Salerno-Reggio Calabria. Sante si preoccupa e dal carcere chiama Tano “cipudda”, al secolo Gaetano Mirabella, ergastolano, condannato per strage e omicidio ma in semilibertà. E al telefono cercano di sistemare la questione. Sante tenta anche di recuperare crediti per saldare il debito. Nei passeggi girano bigliettini e lame. E quando il detenuto ancora debitore ritorna in libertà, si seguono le indicazioni di Romolo Casamonica, un esperto del settore: «Levaje i soldi». E dopo aver riavuto il denaro «me lo pistate e me lo lasciate quasi morto davanti all’ospedale». Questo è l’ambiente che controlla il territorio sul litorale del Lazio.
Quando la voce di Sante Fragalà rimbomba nell’aula di tribunale, la sorella seduta tra il pubblico si mangia le unghie. Alza lo sguardo solo quando il fidanzato, Santo D’Agata, sorridendo le sussurra: «È impazzito». Ha svelato i segreti dell’organizzazione e la capacità dei boss di individuare una dimora accogliente per attecchire e svilupparsi. Il territorio romano come luogo in cui si corrono meno rischi, forti dell’incertezza nel riconoscere che si tratta di mafia. Eppure non è un’infiltrazione: è un sistema.