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Così la camorra ha creato l’ecomafia

Alla sbarra a Napoli Cipriano Chianese, considerato “l’inventore del sistema rifiuti”. I pentiti lo descrivono come un uomo potentissimo e temuto. Ma l’imprenditore nega e tra mille reticenze ricorda solo i rapporti con i politici, l’Arma dei Carabinieri, i ministri dell’Ambiente. Parole pronunciate in un’aula di tribunale semideserta dove si tenta di ricostruire come è stato possibile compiere il disastro ambientale fruttato ai clan milioni di euro e che seminerà morte fino alla fine del secolo. Un genere di crimine, avverte il pubblico ministero Alessandro Milita, che le nuove norme sugli ecoreati rischiano di lasciare impuniti

 Processo fra indifferenza e silenzi
di LUCA FERRARI e NELLO TROCCHIA
NAPOLI – Il più importante processo contro le ecomafie in Campania si celebra in un’aula vuota. Non ci sono associazioni, pochi giornalisti, zero televisioni, e quando vengono chiamati gli avvocati delle parti civili, tranne rare eccezioni, sono assenti. Eppure per la prima volta, tocca proprio al principale imputato rispondere alle domande del pubblico ministero della direzione distrettuale antimafia di Napoli Alessandro Milita. Alla sbarra c’è Cipriano Chianese, avvocato, imprenditore, candidato alla Camera senza successo nel 1994 per Forza Italia. Il processo si celebra nell’aula 116 davanti alla V Sezione della Corte di Assise del Tribunale di Napoli. Chianese risponde di associazione mafiosa, disastro ambientale, estorsione, avvelenamento delle acque. La Procura lo considera “l’inventore e ideatore dell’Ecomafia in Campania”. Insieme al vertice del clan dei Casalesi, in particolare Francesco Bidognetti, conosciuto come Cicciotto ‘e mezzanotte, ha imbastito il grande affare del pattume tossico. Con loro Gaetano Cerci, in aula dietro le sbarre, imparentato con Bidognetti e legato con la massoneria di Licio Gelli. Al termine di un’udienza, Chianese si avvicina a Cerci e sussurra, intercettato dai microfoni di ReInchieste: “Quando vi deciderete a parlare sarà forse troppo tardi”.

Ecomafia, alla sbarra Chianese il broker che inventò il business dei rifiuti

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Chianese è un uomo potentissimo, capace di cenare con ministri, interloquire con generali delle forze dell’ordine, favorire trasferimenti di agenti dei servizi, finanziare, grazie alla sua enorme disponibilità economica, perfino l’Arma dei Carabinieri. Lo racconta a processo tra gli sguardi sorpresi dei giudici popolari. Lo Stato si presentava nell’ufficio dell’avvocato con il cappello in mano: “Ogni tanto ho dato soldi in occasioni di feste dei Carabinieri, l’ultima volta 25mila euro. Qualche volta regalavo frigoriferi e televisori. Mi chiedevano anche di poter entrare nel mio studio per scrivere un verbale con la mia macchina da scrivere”.

L’interrogatorio di Chianese si aggroviglia nelle dispute sulle autorizzazioni e l’organizzazione della sua creatura, la discarica Resit di Giugliano. Alla Resit erano indirizzati camion dei veleni e pattumi provenienti dalle aziende del nord. Una perizia consegnata alla Procura di Napoli, nel 2010, ha ipotizzato che nel 2064 ci sarà il picco della degenerazione delle sostanze inquinanti e in particolare del percolato prodotto dalle 341mila tonnellate di rifiuti speciali pericolosi (a cominciare dai fanghi dell’Acna di Cengio). A questi vanno aggiunte poi le 500 tonnellate di rifiuti speciali non pericolosi e le 305mila tonnellate di rifiuti solidi urbani che raggiungeranno le falde più profonde avvelenando irreversibilmente centinaia di ettari di terreno.

Chianese si rende conto delle accuse che gli vengono mosse? “Non posso parlare con voi, comunque sono tranquillo, non serafico, il serafico ha qualcosa da nascondere. I media enfatizzano”. In giacca e cravatta, Chianese è un distinto signore, capace, secondo l’accusa, di imbastire il traffico illecito dei veleni dal nord al sud del Paese. Lui invece ricorda rapporti e amicizie, così come il suo curriculum ricco di incarichi e incontri prestigiosi compreso un convegno con il consolato americano del 1999 per organizzare video-conferenze e dare consigli  su come gestire lo smaltimento dei rifiuti.

Quando si passa al nodo dei rapporti con la politica il sostituto procuratore chiede: “Ha mai cercato di essere nominato consulente del ministero dell’Ambiente?”. E l’avvocato, già condannato in primo grado in un altro processo per estorsione, risponde: “Io non ho mai cercato nessuno, sono sempre gli altri a cercarmi. Me l’hanno proposto nel 1994, nel 1995, nel 2000. Me l’hanno proposto sempre”. Ma Chianese i nomi non li ricorda: “Vari personaggi politici, funzionari del ministero dell’Ambiente che bontà loro mi ritenevano esperto. I nomi erano talmente tanti che, in questo momento, non me li ricordo. Si possono ricavare dalle intercettazioni”.

L’accusa insiste e Chianese risponde elencando i suoi incarichi così come le vicinanze politiche “Loro mi portarono pure a cena con l’allora ministro Matteoli”. La serata con l’allora responsabile dell’Ambiente, estraneo all’inchiesta, è documentata in un’informativa inedita depositata agli atti del processo e firmata dall’investigatore della polizia Roberto Mancini, ammalatosi di cancro indagando sulla terra dei fuochi e morto mesi fa. Nello studio di Chianese sono state trovate anche delle bozze non ufficiali di documenti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti. Il sospetto è che Chianese fosse in rapporti con alcuni parlamentari della Commissione, rapporti tendenti a controllare e modificare gli atti prima della pubblicazione. “Non è una cosa irrilevante – sottolinea il pm Milita – avere contatti con membri della Commissione per correggere le bozze”.

Chianese è ancora avvocato, come risulta dal sito dell’ordine e si dichiara innocente. La discarica Resit, con il suo carico di veleni, è ancora un inferno. Qualche settimana fa ha preso fuoco e aspetta la messa in sicurezza mentre il suo padrone racconta alle sedie vuote tre decenni di compromissione e contiguità tra Stato, imprenditoria criminale e camorra.

Patto sciagurato tra crimine, politica e impresa
di DARIO DEL PORTO
NAPOLI – “Avevano iniziato questo traffico mio cugino Sandokan e Francesco Bidognetti insieme ad un certo Gaetano Cerci, che aveva intrattenuto rapporti con dei signori di Arezzo, Firenze, Milano e Genova. Il coordinamento generale era comunque curato dall’avvocato Chianese”. L’affare di cui già vent’anni or sono, anche davanti a una commissione parlamentare di inchiesta, parlava il primo grande pentito del clan dei Casalesi, Carmine Schiavone, è quello dei rifiuti. L’oro della camorra, secondo la definizione di un altro pentito. Ma soprattutto il business illegale che ha cambiato per sempre il volto di una regione umiliando amplissime parti del territorio, trasformato da Campania Felix in terra dei fuochi. Negli anni ’90 era “un affare autorizzato, che faceva entrare soldi nelle casse dei clan”, come lo definisce Schiavone, che davanti alla commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti aveva lanciato il suo terribile anatema: “Gli abitanti di quelle zone rischiano di morire tutti di cancro entro venti anni: non credo infatti che si salveranno”.

Come la ricostruzione post terremoto negli anni ’80, il giro economico legato ai rifiuti costituisce la grande occasione sulla quale politici, imprenditori e malavitosi si tuffano per fare cassa. E non solo loro. Le indagini condotte nel corso degli anni faranno trasparire anche tracce di coinvolgimenti di ambienti massonici, come quelli con i quali, secondo Carmine Schiavone, aveva rapporti Gaetano Cerci: “So che stava molto bene con un signore che si chiama Licio Gelli”, il maestro venerabile della loggia P2. L’avvocato Cipriano Chianese, invece, sarebbe stato “il coordinatore a livello un po’ massonico e un po’ politico” del settore che cominciava a decollare. Accuse che l’avvocato-imprenditore ha sempre respinto con energia, ma che restano sullo sfondo delle storie legate a un’emergenza che, diventata  opportunità per pochi, si è poi trasformata nel disastro che ha indignato il mondo.

Le inchieste hanno evidenziato il coinvolgimento a pieno titolo nel business del clan dei Casalesi e dei loro referenti imprenditoriali e politici. La camorra, in particolare, ha sfruttato la capacità di mettere in campo mezzi e risorse per la raccolta e il trasporto dei rifiuti, come nel caso della società mista Eco4 dei fratelli Orsi, uno dei quali, Michele, viene assassinato in un agguato a Casal di Principe il 3 giugno del 2008. Quando gli sparano, Orsi ha da poco iniziato a rendere dichiarazioni ai magistrati proprio sul sistema dei rifiuti, raccontando delle richieste di assunzioni arrivate dalla politica: circa il 70 per cento del personale era entrato “in concomitanza con le scadenze elettorali o per conquistare il favore di persone che potevano tornare utili”.

Per le vicende legate alla società mista per i rifiuti Eco 4 e sulla ipotizzata infiltrazione della camorra è imputato l”ex potentissimo leader regionale del PdL, il partito di Silvio Berlusconi, Nicola Cosentino, ora in carcere perché coinvolto in tre diversi processi che configurano collusioni con il clan dei Casalesi. Ma con le storie di questo affare si incrociano anche le dinamiche in parte ancora oscure che hanno visto protagonista, negli anni della sua latitanza, l’ultimo padrino del clan, Michele Zagaria detto il Monaco, catturato il 7 dicembre del 2011 nel covo bunker di Casapesenna. Intrecci di un romanzo nero, di cui forse non è stata ancora scritta l’ultima pagina.

“Potente e temuto”, Chianese secondo i pentiti
di LUCA FERRARI e NELLO TROCCHI
NAPOLI – Di Cipriano Chianese hanno parlato i collaboratori di giustizia indicandone il ruolo e la posizione di indiscusso rispetto nella gerarchia criminale. A pesare più di ogni altra c’è la dichiarazione del pentito Raffaele Ferrara, resa durante il processo che si celebra davanti alla V Sezione della Corte di Assise di Napoli. Ferrara riporta un dialogo. A parlare è il boss dei boss Francesco Bidognetti che, nei primi anni Novanta, alla presenza di Ferrara redarguisce il capozona del clan Domenico Feliciello intimandogli di lasciare in pace Chianese altrimenti ‘lo avrebbe ammazzato’: “Qualsiasi cosa che ti serve di Chianese – dice Bidognetti a Feliciello – devi passare tramite me, qualsiasi (…) Anche se devi pisciare vicino ai muri, ai muri confinanti di Chianese lo devo sapere prima io”.

Un capozona bastonato e minacciato dal capo dei capi perché l’avvocato non poteva essere disturbato senza l’autorizzazione del vertice criminale. Chianese è il mondo di sopra e Bidognetti lo chiarisce ai suoi sgherri. La cupola così descritta vedeva a capo oltre allo stesso Bidognetti, condannato a 20 anni per disastro ambientale nel novembre 2013, la diarchia imprenditoriale composta dal suo referente Gaetano Cerci e da Chianese appunto, indicato dalla Procura di Napoli come “l’ideatore ed esecutore mafioso” del grande affare.

Un altro collaboratore che ha chiarito il ruolo di Chianese è Gaetano Vassallo, tra gli artefici della mattanza ambientale che ha raccolto nella sua discarica, a Giugliano, in provincia di Napoli, ogni tipo di pattume. Si è pentito nel 2008 per paura di essere ucciso dagli uomini di Giuseppe Setola. Vassallo è stato il “ministro dei rifiuti” del clan dei Casalesi e conosce benissimo Cipriano Chianese.

Chianese, il pentito Vassallo: “Soldi al sicuro prima dell’arresto”

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L’inventore. “L’avvocato Chianese – spiega Vassallo – era come me. Era l’impresa del clan dei casalesi per quanto riguarda i rifiuti tossico-nocivi. Lui ha inventato il sistema delle commerciali, ha creato tutto”. L’accordo prevedeva un pagamento al clan per ogni chilo smaltito. La grande mattanza si poteva interrompere 22 anni fa quando ci fu l’occasione per fermare il ciclo industriale del crimine. Nel 1993 lo Stato, infatti, aveva individuato la piramide criminale arrestando i presunti responsabili del grande affare dei rifiuti. Anche l’avvocato Cipriano Chianese finì in manette, ma fu assolto. Nelle ultime inchieste che lo hanno coinvolto, però, si evidenzia quanto emerse allora. In particolare in un’ordinanza di custodia cautelare eseguita dagli uomini della Dia nel dicembre 2012 il gip Anita Polito chiariva che Chianese fu assolto “benché il contributo causale reso dallo stesso al traffico illecito di rifiuti fosse stato pacificamente ammesso”.

I rapporti con Arma e massoneria. Vassallo racconta i rapporti di alto livello dell’avvocato. “Si è sempre vantato – spiega ancora il pentito – dei suoi rapporti con Cagnazzo, generale dei Carabinieri, e con il magistrato Maresca. Erano i suoi beniamini. Lui sapeva, prima del 1993, che sarebbe stato arrestato e sapeva che sarebbe stato scarcerato visto che aveva le autorizzazioni necessarie. Lui contava sul rapporto con un professore universitario molto importante, si parlava di un rettore, ma non conosco il nome”. Il generale è Domenico Cagnazzo, mai indagato.

“In realtà Chianese – aggiunge Vassallo – si vantava anche di conoscere Licio Gelli tramite Gaetano Cerci”. “Quanto rivelo mi è stato detto da Gaetano Cerci che frequentava casa di Licio Gelli. Gelli teneva rapporti con gli imprenditori, era un procacciatore di materiale e produttori”. Il “venerabile maestro” è stato anche indagato nel 2006 proprio nell’ambito dell’inchiesta che portò in carcere Chianese. I pm scrivevano: “I rapporti preferenziali tra Gaetano Cerci e Licio Gelli appaiono poi assolutamente certi, essendo riferiti da Schiavone, De Simone, la Torre, Quadrano, Di Dona (tutti collaboratori di giustizia, ndr), sia de relato che per scienza diretta”. Diversi pentiti, insomma, hanno raccontato il ruolo del fondatore della P2 nel grande affare dello smaltimento dei rifiuti tossici. La posizione di Gelli, però, è stata archiviata.

I soldi ‘spariti’. L’affare rifiuti fruttava soldi perché “la monnezza è oro”, come spiegò il primo pentito Nunzio Perrella: molti guadagni, pochi rischi. Gaetano Vassallo ha raccontato di aver preso per l’affare dei rifiuti tossici 5 milioni di lire come percentuale di un incasso di 150 milioni di lire,  “ogni santo giorno”. Al clan andavano 10 lire al kg. A questo, per Vassallo, si aggiungeva l’affare dei rifiuti solidi urbani per un ulteriore incasso di 10 miliardi di lire all’anno.

Anche durante il processo in corso Chianese ha ricordato la montagna di soldi fatta con l’affare rifiuti. Il suo patrimonio – ville, auto, conti correnti – è stato sequestrato, ma secondo Vassallo l’avvocato avrebbe fatto in tempo a occultarne una parte. “Io, personalmente, quando gestivo l’albergo ho incontrato Chianese prima che gli facessero il sequestro e lui già lo sapeva. Andai a trovarlo, gli andai a chiedere un favore economico e lui mi rispose che non poteva aiutarmi perché doveva spostare i soldi in vista del sequestro. Lui sapeva che gli dovevano sequestrare i beni, era già riuscito a portare una parte dei soldi fuori, li ha occultati. Un’altra parte dei soldi li stava ripulendo, ma non saprei come. Di certo quanto sequestratogli non è l’intero suo patrimonio”.

Il pm: “Ora c’è il rischio prescrizioni”
di LUCA FERRARI e NELLO TROCCHIA
NAPOLI – “La nuova legge sugli eco-reati è piena di trappole e può avere un impatto non solo sui numerosi processi in corso ma, soprattutto, sul futuro delle generazioni a venire”. È Alessandro Milita che parla, il pubblico ministero che sta sostenendo l’accusa nel “più importante processo  mai svolto sull’Ecomafia” che vede sul banco degli imputati Cipriano Chianese. Quello che, secondo la procura di Napoli, insieme alla Camorra dei Casalesi, è stato uno dei più importanti responsabili del disastro ambientale della terra dei fuochi. Ci sono voluti vent’anni per fare una legge sugli eco-reati ma, secondo il magistrato, non tutti i problemi sono stati risolti. Persiste il nodo della prescrizione: i tempi sono raddoppiati ma la definizione del reato resta ambigua. Questa ambiguità interpretativa lascia aperta un’altra importante questione, quella delle bonifiche: non è chiaro chi le debba fare, in che modo e con quali soldi.

Lei ha lavorato per anni sull’ecomafia in Campania. Come considera la legge sugli eco-reati?
“Qualcuno dice che spesso il meglio è nemico del bene. Questa legge nasconde delle trappole. La contraddizione principale riguarda l’ambiguità interpretativa della natura del reato di ‘disastro ambientale’. La norma lascia aperta una questione: non è chiaro se si tratti di ‘reato permanente’, che quindi può essere punibile sempre; o se il reato sia qualificabile come ‘istantaneo a effetti permanenti’ – ipotesi che comunque escludo – e quindi vi sia il rischio che intervenga la prescrizione. In base a questa ambiguità potrebbe essere difficile anche iniziare le indagini, in relazione a fatti pregressi. Se ad esempio si scaricano illegalmente dei rifiuti tossici in una cava provocando un disastro ambientale rivelabile dopo 30anni e il delitto dovesse essere interpretato come ‘istantaneo’, allora il reato cadrebbe in prescrizione perché lo sversamento risale a trent’anni prima. Soltanto se il reato venisse interpretato come permanente sarebbe perseguibile. Anche dopo trent’anni. Per questo motivo l’ambiguità dovrebbe essere superata e il disastro ambientale dovrebbe essere unanimemente ritenuto, al di fuori di ogni ragionevole dubbio, un reato permanente”.

Quindi malgrado il raddoppio dei termini di prescrizione il problema non è stato del tutto risolto?
“Il raddoppio dei termini di prescrizione, ora 30 anni per il disastro ambientale, ha mitigato il problema. È norma utile per il futuro ma non per i disastri ambientali già accertati, che affondano le radici nel tempo. Facciamo l’esempio astratto di una discarica quale quella dell’area ex Pozzi Ginori di Calvi Risorta ed ipotizziamo che in un’area simile, anche nel futuro, vi siano stati scarichi di rifiuti tossici, avvenuti fino a 30 anni prima dall’accertamento, ipotesi affatto remota visto che che è spesso accaduto che non sia mai stato denunciato lo sversamento illecito di fanghi industriali, vernici e solventi. In questo caso, interpretando il delitto come istantaneo ad effetti permanenti, sarebbe già intervenuta la prescrizione. Per condotte del passato la prescrizione risulterebbe peraltro molto più breve, sempre seguendo tale interpretazione. In Italia sono molti i disastri ambientali di questo tipo e sarebbe stata una scelta razionale e giusta – ossequiosa della giurisprudenza della Corte di Cassazione civile e della Corte Europea dei Diritti dell’uomo – quella di specificare chiaramente, nella nuova Legge, la natura di reato permanente propria del disastro ed inquinamento ambientale. In un tema così importante non è pensabile vi possano essere eccessivi spazi interpretativi. Il Disastro ambientale è infatti un delitto di evento – tendenzialmente occulto – a consumazione progressiva ed esteriorizzazione differita, con danno lungo-latente”.

La legge definisce il disastro ambientale e dice che questo è tale solo se viene “cagionato abusivamente”. Ciò significa che se un’azienda commette un crimine ambientale rispettando la legge e senza commettere un “abuso” non può essere punita?
“Il problema è che il termine ‘cagionato abusivamente’ apre una questione interpretativa per casi definibili come ‘disastro ambientale di Stato’, ipotesi non remote ma comunque limitate. Esempi possibili possono essere quelli dell’Italsider di Bagnoli o del porto di Marghera. Se un’azienda produce materiali nocivi per l’ambiente e la salute collettiva e lo Stato, in senso lato, la autorizza a farlo con una legge o regolamento, allora c’è il rischio che il disastro ambientale diventi “a norma” e per questo non possa essere perseguibile penalmente. Il termine “abusivo” può trasformarsi in un filtro capace di rendere non punibili condotte disastrose, in ipotesi astratta frutto di accordi criminali tra pezzi dello Stato Apparato e potentati economici. Si tratta di specificazioni, queste, che non solo conducono al rischio di impedire di sanzionare i disastri più rilevanti ma anche di porre un freno alle bonifiche: è necessario sempre ricordare il nesso ineludibile che vi è tra l’accertamento del reato, la sanzione, il sequestro e confisca delle risorse finanziarie appartenenti agli autori del reato e le bonifiche, da realizzare anche con quelle risorse. Se si spezza o indebolisce uno degli anelli della catena, l’ultima fase  –  la bonifica dell’ecosistema  –  viene compromessa”.

Con la nuova normativa è stato risolto il problema del riutilizzo dei beni sequestrati all’ecomafia per la bonifica dei territori?
“In parte si in parte no. In questo caso la legge è mal pensata e presenta importanti criticità. Il primo punto fondamentale riguarda la differenza tra disastro ambientale “doloso” e disastro ambientale “colposo”. La confisca è prevista solamente nei casi di “dolo” e viene esclusa nei casi di delitto ambientale “colposo”. Ciò è irrazionale, solo se si pensi alla difficoltà di distinguere i casi di colpa cosciente da quelli di dolo eventuale. Un’ulteriore falla è aver legato la confisca commisurata al solo profitto e non al danno ambientale provocato. E’ noto che vi sia una mostruosa sproporzione, proprio nel caso dei delitti ambientali, tra il profitto ottenuto e danno arrecato all’ambiente. In altre parole se il criminale agisce per guadagnare (o risparmiare) 100 euro, si danneggia l’ambiente per 1.000 euro. Per questo motivo è impossibile, già in partenza, raccogliere dagli autori dei delitti – cosa possibile  peraltro nel caso di delitto doloso – il denaro necessario per risanare l’ecosistema o l’area inquinata”.

E gli appalti per le bonifiche?
“Un altro punto critico della norma è “il ravvedimento operoso” per cui è prevista una riduzione di pena per l’imputato che prima dell’inizio del processo ” provvede concretamente alla messa in sicurezza, alla bonifica e ove possibile, al ripristino dello stato dei luoghi”. In pratica lo Stato prevede la possibilità di “appaltare” la bonifica di un’area all’imputato in cambio di una riduzione dei giorni di carcere. Ed è logico che l’imputato intenderà risanare l’area danneggiata a basso costo e cercherà di svilire la gravità della propria condotta, minimizzando il danno arrecato all’ambiente. Si può persino ipotizzare il caso in cui l’imputato possa ottenere la restituzione di quanto sequestrato  –  corrispondente al solo profitto – proprio per provvedere alla bonifica. E questo è un paradosso inaccettabile”.

C’è la sensazione che chi ha utilizzato un sistema criminale di gestione e smaltimento resti impunito per la prescrizione di eventuali reati e l’impossibilità di attribuire una responsabilità penale alle imprese che hanno affidato gli scarti industriali alla filiera criminale. E’ così?
“Per accertare eventuali responsabilità dei principali beneficiari dei crimini ambientali, bisognerebbe disporre della collaborazione di un broker dei traffici di rifiuti e sapere, dalla sua viva voce, come si siano articolati gli accordi con le aziende: solo in tal modo è possibile accertare e dimostrare l’irregolarità sostanziale, di fronte a una regolarità formale. Ossia il concorso dei produttoridi rifiuti con le cosiddette Ecomafie. I produttori, sia consapevoli sia ignari, hanno certamente richiesto che la documentazione attestante lo smaltimento fosse formalmente ineccepibile, sicché la via unica per smascherare il tutto è quella della deposizione testimoniale, oppure l’abilità dell’investigatore – seguita dalla buona sorte – nel predisporre un adeguato apparato di intercettazioni. Quest’ ultima via vale ovviamente solo per il futuro”.