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Consip, la vendetta del Giglio nero contro il “traditore” che ha parlato con i magistrati

Consip, la vendetta del Giglio nero contro il “traditore” che ha parlato con i magistrati

L’Espresso, Martedì 27 giugno 2017

Consip, la vendetta del Giglio nero contro il “traditore” che ha parlato con i magistrati
Al di là dei risvolti penali, la bufera su Marroni architettata dal Partio democratico rivela un abuso politico ai danni dell’anello più debole. Mentre il ministro indagato viene difeso

DI EMILIANO FITTIPALDI

Come il vaso di Pandora, dallo scandalo Consip può spuntare qualsiasi nefandezza. Le ipotesi di reato dell’inchiesta nata a Napoli e spostata a Roma sembrano un bignami del codice penale: corruzione di pubblici ufficiali per vincere appalti miliardari, ipotetiche mazzette per aggiustare sentenze del Consiglio di Stato, traffico di influenze illecite, fughe di notizie da parte di ministri e dei vertici dei carabinieri, cartelli tra aziende e cooperative rosse, depistaggi ipotizzati per altri militari dell’Arma.

Al netto di colpi di scena e funerali all’inchiesta organizzati troppo in fretta da politici e giornalisti poco avvezzi alla materia, a quasiquattro mesi di distanza dall’inchiesta dell’Espresso sul “Giglio nero”che rivelò le accuse dell’amministratore delegato della spa pubblica Luigi Marroni contro Tiziano Renzi, Denis Verdini e Luca Lotti, il cuore dell’indagine è rimasto solido, e il suo perno invariato. È vero, interi pezzi dell’informativa del Noe sono da buttare nel cestino dopo la scoperta che il capitano Giampaolo Scafarto del Noe si sarebbe spinto a falsificare prove pur di inchiodare il babbo dell’ex premier. Ma le accuse del super testimone Marroni restano tutte in piedi.

Il manager scelto da Renzi per guidare la stazione appaltante dello Stato, a dispetto di quanto temuto (o sperato) da osservatori interessati, il 9 giugno davanti ai pm Paolo Ielo e Mario Palazzi ha confermato punto per punto la versione già consegnata lo scorso dicembre a Henry John Woodcock. Sia riguardo al filone riguardante la fuga di notizie («ho saputo dell’inchiesta e delle cimici dal generale dei carabinieri Emanuele Saltalamacchia e dal ministro Lotti», entrambi indagati per violazione del segreto istruttorio) sia sulle pressioni ricevute da Tiziano Renzi e il suo sodale Carlo Russo («Russo mi ricattava, Tiziano mi diceva di accontentarlo»), coppia iscritta nel registro degli indagati per traffico di influenze illecite.

Se altri personaggi hanno deciso di ritrattare o addirittura mentire ai pm per proteggere se stessi o qualche potente (il vicecomandante del Noe Alessandro Sessa e il presidente dimissionario della Consip Luigi Ferrara dopo gli interrogatori da persone informate sui fatti si sono trasformati in indagati), Marroni ha tenuto la barra dritta. Il suo racconto è considerato attendibile. Seppur non è detto che esistano le prove necessarie ad affrontare un dibattimento, il suo resoconto è stato verificato, e molte circostanze e incontri (tra cui quello con Tiziano Renzi a Firenze) sono stati confermati dai fatti. Sorprende, così, che un testimone considerato finora affidabile dai magistrati, mai indagato e sempre silente, pochi giorni dopo aver fatto il suo dovere di cittadino sia stato messo nel mirino dal Partito democratico e da chi, nel Giglio magico, lo ha piazzato in Consip. In due diverse occasioni il ministro Pier Carlo Padoan, a chi sosteneva che uno tra Marroni e Lotti era un bugiardo e doveva saltare, ha spiegato che non esistevano «motivazioni tecniche o statutarie» per chiedere le dimissioni del manager.

Improvvisamente, il gruppo al Senato del Pd ha invece preso una strada diversa, decidendo di uscire dall’impasse con una scelta di campo: tra Marroni e Lotti, hanno scelto il ministro dello Sport e il miglior amico del segretario del partito. Attraverso l’approvazione di una mozione ad hoc in Parlamento per silurare Marroni. Una mozione che aveva il parere favorevole del governo, nella quale, senza fare mai cenno al ministro indagato, si sollecitava il rinnovo dei vertici coinvolti nello scandalo per garantire «la legalità» e «l’immagine della società». Se l’incensurato Marroni lede l’immagine della Consip, perché l’indagato Lotti non rovina quella del governo?

La mozione è stata approvata, anche grazie all’appoggio di Forza Italia. Ma la mossa segnala ancora una volta la malattia che affligge il partito di Renzi: un’arroganza sistemica mista a una sciatteria strategica che sfiora, spesso e volentieri, l’autolesionismo. Marroni è stato abbandonato al suo destino, Lotti salvato ancora una volta. Nonostante anche l’altro testimone renziano, Filippo Vannoni, abbia spiegato ai pm che fu il ministro a spifferargli l’esistenza di un’inchiesta della procura di Napoli su Romeo e Consip.

Al di là delle vicende penali, la sensazione è quella di un abuso politico. Perpetrato nei confronti dell’anello più debole. O, peggio, di una vendetta nei confronti di un “traditore”, che ha cantato ai pm segreti inconfessabili che oggi minano i petali più preziosi del Giglio Magico di Matteo Renzi. Una sensazione assai sgradevole.