Il grande potere criminogeno della mega-opera è stato confermato da numerose indagini che hanno evidenziato, da una parte, come le cosche locali puntino ad inserirsi nei sub-appalti, nelle opere secondarie e nell’imposizione di pizzo; dall’altra, come la grande mafia internazionale abbia provato a finanziare direttamente l’opera, grazie alle enormi disponibilità economiche in suo possesso.
“Circa il 40 per cento delle opere potrebbe teoricamente alimentare i circuiti mafiosi”1. È lo scenario che emerge da uno studio sull’impatto criminale del Ponte commissionato al Centro Studi Nomos del Gruppo Abele di Torino dall’Advisor della Società Stretto di Messina. Gli interessi mafiosi potrebbero manifestarsi nella fase di scavo e realizzazione delle fondazioni e della movimentazione terra, ed in questo caso imprese mafiose – già esistenti o più probabilmente costituite ad hoc – potrebbero rivendicare una partecipazione diretta ai lavori.
Identico rischio di penetrazione criminale per quanto riguarda le strutture di ancoraggio dei cavi di sospensione, per le quali è previsto un volume di 328.000 metri cubi in Sicilia e di 237.000 in Calabria.
Se si tiene inoltre conto che per la realizzazione del manufatto occorrono in totale circa 860.000 metri cubi di calcestruzzo, il rischio criminalità appare di gran lunga più elevato, data la tradizionale specializzazione dei gruppi mafiosi in Calabria e Sicilia nel cosiddetto “ciclo del cemento”.
Ma è nell’ambito dei lavori per i collegamenti ferroviari e stradali, in buona parte previsti in galleria e nelle rampe di accesso al Ponte, che il rischio criminalità è ancora più alto ed evidente.
Un altro settore particolarmente sensibile alla penetrazione mafiosa è quello relativo all’offerta di servizi necessari per il funzionamento dei cantieri.
Oltre alla tradizionale funzione di guardianìa – secondo il sociologo Rocco Sciarrone – “i mafiosi cercheranno con molta probabilità di inserirsi nelle fasi di installazione e organizzazione dei cantieri, e successivamente anche nella gestione dei loro canali di approvvigionamento.
È dunque ipotizzabile il tentativo di controllare il rifornimento idrico e quello di carburante, la manutenzione di macchine e impianti e la relativa fornitura di pezzi di ricambio, il trasporto di merci e persone”.2
Nelle mani di mafia e ‘ndrangheta, in più, potrebbero finire cemento, ferro, finanche il catering e gli alloggi per gli operai.
Questa è però una visione “minimalista” che non tiene conto delle evoluzioni dell’impresa mafiosa e della sua forza finanziaria e di inserimento nei mercati “legali”.
Nella relazione trasmessa al Parlamento nel novembre 2005, la Direzione Distrettuale Antimafia (Dia), affermava che “la mafia è pronta a investire il denaro del narcotraffico nella costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina”.
Nello specifico, le indagini avrebbero accertato che “ingenti capitali illecitamente acquisiti da un’organizzazione mafiosa a carattere transnazionale sarebbero stati reinvestiti nella realizzazione di importanti opere pubbliche, con particolare riguardo a quelle finalizzate alla costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina”.3
Il primo allarme degli inquirenti sugli interessi delle organizzazioni mafiose nella realizzazione dell’infrastruttura risale comunque al 1998. Anche allora fu la Dia a denunciare la “grande attenzione” di ‘ndrangheta e Cosa Nostra per il progetto relativo alla realizzazione del Ponte.
La Dia approfondiva il tema nella sua seconda relazione semestrale per l’anno 2000. Soffermandosi sulla ristrutturazione territoriale dei poteri criminali in Calabria e in Sicilia, si segnalava come le indagini avessero evidenziato che “le famiglie di vertice della ‘ndrangheta si sarebbero già da tempo attivate per addivenire ad una composizione degli opposti interessi che, superando le tradizionali rivalità, consenta di poter aggredire con maggiore efficacia le enormi capacità di spesa di cui le amministrazioni calabresi usufruiranno nel corso dei prossimi anni”.
Nel mirino, secondo l’organo investigativo, innanzitutto i progetti di sviluppo da finanziare con i contributi comunitari previsti dal piano Agenda 2000, stimati per la sola provincia di Reggio Calabria in oltre cinque miliardi di euro nel periodo 2000-2006.
“Altro terreno fertile ai fini della realizzazione di infiltrazioni mafiose nell’economia legale – aggiungeva il rapporto – è rappresentato dal progetto di realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina, al quale sembrerebbero interessate sia le cosche siciliane che calabresi. Sul punto è possibile ipotizzare l’esistenza di intese fra Cosa Nostra e ‘ndrangheta ai fini di una più efficace divisione dei potenziali profitti”4.
Dal Canada allo Stretto di Messina via Arabia Saudita
Intanto alcuni faccendieri lanciavano l’assalto, per conto delle più potenti cosche mafiose d’oltreoceano, alla gara per il general contractor del Ponte di Messina.
L’intrigata ragnatela di interessi è venuta alla luce il 12 febbraio 2005, quando la stampa dava notizia dell’emissione di cinque provvedimenti di custodia cautelare per associazione per delinquere di stampo mafioso e delle perquisizioni in diverse città italiane.
I provvedimenti venivano notificati al boss Vito Rizzuto, capo dell’organizzazione legata ai mafiosi Cuntrera-Caruana e sospettato di rappresentare in Canada la “famiglia” Bonanno di New York, all’ingegnere Giuseppe Zappia (residente in Canada ma arrestato a Roma), al broker Filippo Ranieri (originario di Lanciano in Abruzzo), all’imprenditore cingalese Savilingam Sivabavanandan e all’algerino Hakim Hammoudi.
L’inchiesta (denominata “Brooklin”), coordinata dal capo della Dda di Roma Italo Ormanni e dal pm Adriano Iassillo, sulla base di numerose intercettazioni, individuava un’operazione concepita da Cosa Nostra per riciclare 5 miliardi di euro provenienti dal traffico di droga nella realizzazione del Ponte. Ad ordire le trame il boss Vito Rizzuto, originario di Cattolica Eraclea, figlio di Nicola “Nick” Rizzuto, personaggio eminentissimo della mafia internazionale.
Stando alle accuse dei magistrati romani, il mafioso italo-canadese si sarebbe avvalso dell’imprenditore Giuseppe Zappia che aveva capeggiato una cordata partecipante alla gara preliminare per il general contractor, avviata dalla Società Stretto di Messina il 14 aprile 2004. Sei mesi più tardi, tuttavia, la “cordata Zappia” e un non precisato raggruppamento di aziende meridionali venivano escluse nella fase di pre-qualifica, perché non in possesso dei requisiti richiesti5.
Zappia ha negato i contatti con la criminalità italo-canadese e a sua difesa ha prodotto un affidavit, una sorta di accordo sancito con una società, la Tatweer international company for industrial investiments, in mano ad uno dei principi della famiglia reale dell’Arabia Saudita6. I soldi per il Ponte, cioè, dovevano venire dagli immensi profitti del petrolio.
In realtà i faccendieri internazionali avevano fatto la spola tra Canada e Arabia Saudita, intrecciando inquietanti relazioni tra mafiosi e sovrani mediorientali, ed avviando i contatti con i manager delle maggiori società di costruzione in corsa per il Ponte sullo Stretto. La mafia, consapevole delle loro difficoltà a reperire capitali freschi per avviare i lavori, si era offerta a metterceli lei e per intero.
Come ha evidenziato Stefano Lenzi, responsabile dell’Ufficio istituzionale del WWF Italia, “l’attuale salto di qualità vede la holding mafiosa mettere sul tavolo dei suoi rapporti con le imprese il suo ruolo di ‘intermediatore finanziario’, con enormi disponibilità economiche. Un mediatore che non ha nemmeno bisogno di condizionare il general contractor per realizzare l’opera ‘con qualsiasi mezzo’, ma tenta, addirittura, di diventare esso stesso (attraverso le necessarie coperture) l’elemento centrale di garanzia del GC, che dovrà redigere la progettazione definitiva ed esecutiva e realizzare l’infrastruttura”.7
Ma più di tutto, l’establishment criminale aveva colto l’alto valore simbolico del Ponte, comprendendo che con il finanziamento e la realizzazione della megaopera era possibile ottenere nuova legittimazione istituzionale e sociale.
“Quando farò il ponte – dirà in una telefonata l’imprenditore Zappia – con il potere politico che avrò io in mano, l’amico (il boss Rizzuto ndr) lo faccio ritornare…”.
Dal 19 marzo 2006 è in corso presso il Tribunale di Roma il processo contro i protagonisti dell’operazione Brooklin. In esso, incomprensibilmente, la Società Stretto di Messina ha scelto di non costituirsi parte civile.8
Indipendentemente da quello che sarà l’esito giudiziario, un verdetto storico è inconfutabile: in vista dei flussi finanziari promessi ad una delle aree più fragili del pianeta, è avvenuta la riorganizzazione di segmenti strategici della borghesia mafiosa in Calabria, Sicilia e nord America. Ma non solo.
Dietro tanti dei Padrini del Ponte, infatti, si celano i nomi più o meno noti di mercanti d’armi e condottieri delle guerre che insanguinano il mondo. Quasi a voler enfatizzare il volto “moderno” del capitale. Saccheggiatore di risorse naturali e dei territori; generatore prima, beneficiario dopo, di ogni conflitto bellico.9
Infiltrazioni criminali sui lavori autostradali
In attesa del Ponte, la criminalità organizzata ha scelto di sedere attivamente al banchetto dei lavori di ammodernamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria (oltre 1.200 milioni di euro), lavori appaltati proprio ad alcune delle grandi società italiane di costruzione che guidano l’Associazione temporanea d’imprese “Eurolink”, general contractor per la progettazione definitiva e la realizzazione del “Mostro sullo Stretto”.
Per l’ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria, mafia e ‘ndrangheta avrebbero riscosso il pizzo da quasi tutte le aziende coinvolte. Lo ricorda l’ultimo rapporto su criminalità e imprenditoria di Sos Impresa/Confesercenti. Impregilo, ad esempio, capofila Eurolink, “aveva insediato nelle società personaggi che, secondo gli inquirenti da sempre avevano avuto a che fare con esponenti della criminalità organizzata e con imprese di riferimento alle cosche”.11 Lo stesso sarebbe accaduto con la Società Italiana per Condotte d’Acqua S.p.a., partner del gruppo di Sesto San Giovanni nella costruzione del Ponte sullo Stretto.
Il modus operandi delle due società è stato delineato dall’inchiesta condotta nel luglio 2007 dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria che ha portato all’arresto di quindici persone, tra cui gli esponenti di spicco dei clan Piromalli di Gioia Tauro, Pesce di Rosarno, Condello di Reggio Calabria, Longo di Polistena e Mancuso di Vibo Valentia.
Per i lavori autostradali nel tratto compreso tra gli svincoli di Rosarno e Gioia Tauro, le cosche avrebbero imposto ad Impregilo e Condotte l’assegnazione dei lavori e la fornitura di materiali e servizi ad imprese a loro vicine, più una tangente del 3% sul valore delle commesse.
Spiega Confesercenti: “La scelta da parte di entrambe le imprese di investire personaggi discussi della carica di capo aerea della Calabria, secondo gli investigatori non era casuale ed a testimoniarlo vi sarebbero delle conversazioni intercettate e le indagini pregresse che avevano già portato ad inquisire due professionisti. Nelle intercettazioni risalta la piena consapevolezza delle regole mafiose imposte dalle organizzazioni criminali e l’adeguamento ad esse da parte delle grosse imprese, le quali recuperavano il famoso 3% da destinare alle cosche mediante l’alterazione degli importi delle fatture”.
Ogni intervento sui cantieri era già stato attribuito a tavolino alle varie cosche, secondo rigide regole territoriali: ai Mancuso è toccata la competenza nel tratto Pizzo Calabro-Serra San Bruno, ai Pesce quello tra Serre e Rosarno, ai Piromalli l’area tra Rosarno e Gioia Tauro. “Le procedure di subappalto erano state avviate ancor prima dell’autorizzazione dell’ente appaltante, il tutto a scapito delle imprese pulite estromesse dalle gare in quanto non gradite all’ambiente”, conclude Confesercenti.11
La prefettura di Reggio Calabria aveva sempre negato la certificazione antimafia alle ditte sospette, ma puntualmente esse erano riammesse ai subappalti grazie alle benevoli sentenze del Tar della Calabria.
Destino beffardo quello dei lavori autostradali: il 1° aprile 2005 il consorzio Impregilo-Condotte aveva firmato con la Prefettura di Reggio Calabria e l’ANAS, un protocollo d’intesa per la “prevenzione dei tentativi di infiltrazione mafiose durante la realizzazione dell’opera”. Le due società si erano impegnate, in particolare, ad “adottare tutte le misure del caso atte ad evitare affidamenti ad imprese sub-appaltatrici e sub-affidatarie nel caso in cui le informazioni antimafia abbiano dato esito positivo”, e ad effettuare “controlli, verifiche e monitoraggi per scongiurare l’intromissione di imprese irregolari, forme di caporalato o lavoro nero”.
Chissà cosa faranno per il Ponte…
E il certificato antimafia?
Nell’euforia generale post-elezioni dove vincitori e sconfitti preannunciano il riavvio dell’iter progettuale ed esecutivo della megainfrastruttura tra Scilla e Cariddi, è finita nell’oblio una vicenda inquietante che in uno Stato di diritto, perlomeno avrebbe dovuto imporre a forze politiche, imprese, organizzazioni sindacali e sociali, organi giudiziari, una pausa di riflessione sull’intero sistema delle Grandi Opere.
Nella primavera 2008, infatti, è stato negato il certificato antimafia alla società Condotte, terza in Italia per fatturato e in gara – oltre al Ponte – per l’Alta Velocità ferroviaria e il Mose di Venezia.
Il fatto è stato reso noto direttamente dall’allora ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro.
“Nei giorni scorsi – ha spiegato il ministro – avevo segnalato al ministero dell’interno come dalle indagini della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria e di altri organi investigativi era emerso uno stretto legame tra la società e la criminalità organizzata calabrese, in particolare in merito alla gestione di alcuni cantieri dell’autostrada Salerno-Reggio Calabra e della nuova strada statale 106 Jonica”.
“Alla mia segnalazione – ha proseguito Di Pietro – il ministro Amato ha risposto rendendomi noto che a seguito del parere del comitato per l’alta sorveglianza, attivo presso il dicastero dell’interno, il prefetto di Roma ha adottato, lo scorso 20 marzo un provvedimento di diniego della certificazione antimafia nei confronti della società Condotte”.
“Tutto questo ho tempestivamente comunicato all’ANAS – ha concluso il ministro – oltre che agli altri organi competenti, affinché adottino tutti i provvedimenti del caso, in merito ai cantieri della A/3 e della 106, ma anche in relazione ad eventuali altri rapporti contrattuali, gestiti da controllate o dalle concessionarie autostradali”.11
Il nulla osta antimafia è richiesto nelle distinte fasi dell’appalto e non solo all’inizio e serve per ottenere i pagamenti in ogni fase di avanzamento dei lavori. Anche se ogni prefettura è autonoma nella valutazione discrezionale sul provvedimento, buon senso impone che le altre prefetture vi si adeguino, negando la certificazione per gli altri appalti ricadenti nella loro giurisdizione.
Il provvedimento di revoca del certificato antimafia è stato pure commentato dal prefetto Bruno Frattasi, alla guida del Comitato di sorveglianza sulle grandi opere. Frattasi, in particolare, ha fatto riferimento a “numerose verifiche del gruppo interforze di Reggio Calabria, che ha visitato più volte i cantieri trovando un contesto ambientale inquinato”.12
Si è pure appreso che sempre in data 20 marzo 2008, la stessa Prefettura di Roma ha provveduto ad invitare la capofila Impregilo a “procedere alla estromissione, con eventuale sostituzione, della Società Italiana per Condotte d’Acqua S.p.a. dalla propria compagine sociale” nel termine di trenta giorni, pena il “recesso del contratto ai sensi dell’art. 11, comma tre, del DPR 3.6.1998, n. 252”.
A seguito della comunicazione del ministero delle Infrastrutture, l’ANAS ha provveduto in data 2 aprile alla “revoca di tutti i contratti con Condotte”, ma il diniego è stato poi tamponato con un ricorso della società di fronte al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, che l’11 aprile ha concesso la sospensiva del provvedimento, in attesa della causa di merito.
Al colosso delle costruzioni italiane non è comunque mancata la piena solidarietà dell’associazione di categoria dei general contractor, l’AGI (Associazione Grandi Imprese).
Un suo comunicato recita che “la revoca dei contratti avrebbe effetti di devastante gravità per una delle maggiori, più antiche e più qualificate imprese del settore”. Per la cronaca, vicepresidente di AGI è l’ingegnere Duccio Astaldi, vicepresidente di Condotte d’Acqua.
Con la mafia, parole dell’ex ministro delle Infrastrutture Lunardi, si deve pur convivere.
Così, forse, nessuno richiederà più il certificato antimafia a chicchessia. Oggi, di certo, nessuno ritiene tuttavia ingombrante sedere accanto ad un’impresa fortemente censurata dall’autorità giudiziaria e dai ministri di un esecutivo. Nelle isole Eolie, ad esempio, Condotte d’Acqua ha costituito da poco una società mista con il comune di Lipari, la “Porti di Lipari S.p.a.”, per la realizzazione di un devastante programma di porti e porticcioli.
Grande sponsor dell’iniziativa l’intero stato maggiore di Alleanza Nazionale nella provincia di Messina.
L’assedio allo Stretto continua.
(Tratto da PeaceLink)