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Collaboratori e testimoni di giustizia in pericolo!

Collaboratori e testimoni di giustizia in pericolo!

Jamil El Sadi 01 Febbraio 2023

Le dure critiche della Commissione Antimafia sulle lacune normative a loro tutela

Il 3 novembre 1988 il giudice istruttore di Palermo Giovanni Falcone, dinnanzi alla Commissione parlamentare antimafia della X Legislatura, disse: […] Fermo restando l’esigenza di valutare rigorosamente l’attendibilità di chi collabora, è comunque fondamentale porre in condizione chi collabora e i suoi familiari di effettuare serenamente queste dichiarazioni. Non si tratta né di riconoscere premi né di attribuire medaglie, ma di garantire le condizioni minimali per evitare le rappresaglie ed i condizionamenti esterni. Si tratta di personaggi che hanno vissuto nel crimine e del crimine, che sono ampiamente assistiti dall’organizzazione criminosa anche nel caso di restrizione carceraria e che nel momento in cui decidono di collaborare perdono tutta questa assistenza e in più hanno fondatissimi timori di subire rappresaglie. In queste condizioni se non si modifica efficacemente questa situazione, avremo sicuramente grossi problemi per il futuro…”. Inizia così il lavoro di “analisi dei programmi e dei procedimenti di protezione dei testimoni e dei collaboratori di giustizia” condotto dal X Comitato della scorsa Commissione parlamentare antimafia, relatrice l’On. Dott.ssa Piera Aiello. Una disamina storica partita da un punto fermo: l’idea che aveva Giovanni Falcone sulla necessità di tutelare i collaboratori e (ai posteri) i testimoni di giustizia. La disciplina in materia è da sempre un argomento nevralgico della Giustizia in Italia, in particolare per quanto concerne la lotta alle organizzazioni criminali di stampo mafioso. Proprio per questo motivo, l’abolizione di questo istituto era una delle richieste del “papello” con cui Salvatore Riina ricattò lo Stato a suon di bombe e delitti eccellenti nel biennio ’92-’93.


Nel corso del tempo, sono state istituite nuove leggi e riformate alcune già vigenti per tutelare sia coloro che dall’interno dell’organizzazione mafiosa decidono di recidere i legami con la stessa collaborando con la giustizia, sia chi in qualità di terzo – la società civile –, spesso vittima delle vessazioni delle mafie, denunciando i fatti a sua conoscenza. Anche se ovvio, occorre ugualmente sottolineare che tali decisioni espongono chi le pone in essere a gravi pericoli, al punto da mettere a repentaglio la propria vita, quella dei familiari e delle persone più care. Per questo motivo esistono organi istituzionali preposti al fine di garantire la salvaguardia dei collaboratori e dei testimoni di giustizia. Tra gli attori di riferimento ci sono: la Commissione Centrale, appositamente istituita presso il Ministero dell’Interno, presieduta da un Sottosegretario di Stato per l’interno, che è l’organo politico-amministrativo cui compete decidere in merito all’ammissione, alla definizione del contenuto, alla durata e alla cessazione delle misure di tutela e assistenza; il Servizio Centrale di Protezione, struttura interforze istituita nell’ambito del Dipartimento di Pubblica Sicurezza, con una sede centrale e nuclei periferici ripartiti sul territorio (i cosiddetti Nuclei Operativi di Protezione), che è l’organo preposto a dare attuazione allo speciale programma di protezione, provvedendo alla tutela, all’assistenza e a tutte le esigenze delle persone sottoposte a protezione; i NOP, invece assicurano il reperimento delle abitazioni, l’assistenza sanitaria, scolastica, e, in generale, tutti gli adempimenti burocratici per i quali i tutelati necessitano di un filtro necessario a garantire la mimetizzazione e la sicurezza. In tutto questo, il Servizio Centrale di Protezione costituisce la “cabina di regia” del complesso meccanismo della protezione.

Tra criticità e “solite doglianze”


A volte non bastano né gli istituti né i decreti ministeriali o le leggi realizzare “ad hoc” per tutelare questa tipologia di soggetti. Dalla corposa istruttoria svolta dalla Commissione parlamentare antimafia – articolatasi in 34 sedute cui hanno partecipato 64 soggetti (“17 testimoni, 22 collaboratori e familiari, 11 imprenditori vittime di racket, 14 tra avvocati, direttori di carcere, magistrati e associazioni”) – emergono numerose problematiche. L’obiettivo del X Comitato era quello di “dare nuovamente voce a vecchie criticità ancora irrisolte, alla ricerca di possibili soluzioni non ancora rinvenute, e quello di indagare, soprattutto nella materia della tutela dei testimoni di giustizia se, nonostante la nuova normativa, il sistema sia ancora da implementare”. Una notevole parte delle criticità, si legge, “continuano a palesarsi, come già in passato, sul piano della esecuzione delle misure di protezione”.
L’Antimafia le definisce “solite doglianze” per i soggetti destinatari di tali misure. Si tratta di: “Deficit informativo circa i diritti e doveri connessi con l’assunzione del status di collaboratore o testimone di giustizia; sistemazioni logistiche carenti e utilizzo di immobili già destinati a famiglie di soggetti sottoposti a misure di protezione con conseguenti pericoli per la sicurezza; inadeguatezza delle misure poste a tutela dell’incolumità sia in località protetta che in quella di origine; condizione di isolamento e mancanza di punti di riferimento; insufficienza e più in generale inadeguatezza del sistema delle misure adottate per il sostegno economico e il reinserimento lavorativo; lungaggini burocratiche e talvolta assenza totale di risposta da parte dell’apparato tutorio per risolvere le più svariate esigenze; difficoltà connesse all’utilizzo dei documenti di copertura e all’accesso alla misura del cambio di generalità”. Nel corso delle udienze è stata esaminata una vera e propria escalation di fatti criminosi a danno di collaboratori e testimoni di giustizia. Fatti da cui si evincono delle carenze normative, oltre a criticità e pericoli, relative ai soggetti che intraprendono questo percorso, “determinati dall’inadeguatezza del Servizio centrale di protezione”, scrive la Commissione parlamentare antimafia.


Il Caso Bruzzese: non un caso isolato


A fare “scuola”, in tutto ciò, è il caso di Marcello Bruzzese, germano del collaboratore Bruzzese Girolamo Biagio, crivellato di colpi per una vendetta la sera di Natale 2018 a Pesaro. Durante la prima audizione del generale Paolo Aceto – Direttore del Servizio centrale di protezione -, richiesta immediatamente dopo l’omicidio “lo stesso Gen.le riferì che tale omicidio era stato perpetrato in quanto Marcello Bruzzese aveva riportato il suo nome e cognome sulla cassetta postale senza previa autorizzazione del servizio centrale di protezione”, scrive il X Comitato. Una circostanza singolare che è stata poi categoricamente smentita della vedova Bruzzese, la quale “ha dichiarato sotto propria responsabilità che non solo il marito defunto era stato autorizzato verbalmente dai NOP territoriali”. Quest’ultima ha dichiarato inoltre che “non essendo in possesso di cambio definitivo di generalità e non essendo in possesso dei documenti di copertura non potevano fare diversamente – scrive la Commissione parlamentare antimafia -.

Il paradosso si cristallizza perché dall’omicidio Bruzzese ad oggi la cognata, ovvero la moglie del collaboratore Bruzzese Biagio Girolamo, lavora con i propri dati identificativi anagrafici in una zona limitrofa alla località protetta. La Sig.ra non richiede alcun cambio di generalità perché non le viene assicurato il mantenimento del posto di lavoro”. Il X Comitato ha inoltre constatato che “tale pericolo di perdita del posto di lavoro a seguito dell’istanza di cambio di generalità non è un caso isolato”. “Più Collaboratori e Testimoni, nonché i loro familiari, sono stati costretti a lascare la propria occupazione lavorativa su impulso del Servizio Centrale di Protezione che prevede una diffida con conseguente revoca dello speciale Programma di protezione se non si lascia l’attività lavorativa”, si legge nel dossier. Quanto all’omicidio di Marcello Bruzzese, il Comitato precisa di aver appreso che “gli inquirenti a seguito dello svolgimento delle indagini preliminari avevano rilevato che l’intero nucleo familiare Bruzzese era da più di un anno pedinato ed osservato, a scopo ritorsivo, da soggetti appartenenti alla criminalità organizzata”. “Da tale circostanza giudiziaria si evince palesemente che l’omicidio non è maturato esclusivamente per la apposizione dei propri dati personali sulla cassetta postale – si legge -. I Bruzzese erano già osservati molto tempo prima dell’omicidio. Invero, la seconda audizione del generale Aceto è stata preceduta dalla richiesta, al medesimo rivolta, di trattare in particolare alcuni temi sui quali si addensano le principali doglianze dei collaboratori e testimoni auditi”.

L’ingresso nel sistema di protezione


Alcuni degli auditi dalla Commissione fin da subito hanno fatto emergere un primo profilo di “attrito” tra i soggetti che fanno ingresso nel sistema tutorio e il sistema stesso. Alcuni soggetti adulti, scrive il X Comitato, “hanno addotto che, dopo aver avuto comunicato dalla Procura della Repubblica che ‘trattava’ la loro posizione che ne sarebbe stata proposta l’ammissione quali ‘Testimoni di giustizia’, invece la decisione finale della Commissione centrale sarebbe stata di segno diverso, essendo stati ammessi alle misure tutorie nella veste di ‘Collaboratori di giustizia’, comportante una posizione ‘deteriore’ sia quanto alla definizione del loro status, presupponente una contiguità con le associazioni criminali da loro assolutamente contestata, sia quanto alle misure, soprattutto di carattere economico, applicabili”. Una vicenda che deriva da un “rilevante contenzioso amministrativo”. Durante l’ingresso nel sistema di protezione, alcuni auditi hanno anche lamentato una “scarsa informazione fornita in ordine ai diritti e doveri derivanti dal nuovo status, e in ordine alle effettive conseguenze scaturenti dalla scelta effettuata […] che consentissero loro di assumere in maniera consapevole gli impegni previsti dalla legge e contenuti nella c.d. ‘dichiarazione di impegni’ che essi hanno l’obbligo di sottoscrivere”. Carenze anche nell’assistenza durante l’“intervista tecnica”. Ovvero, il primo atto con il quale “vengono assunte le informazioni necessarie per la corretta e adeguata scelta del luogo ove dovranno risiedere […] per la presa in carico delle problematiche assistenziali e tutorie, con particolare riguardo a quelle sanitarie e scolastiche, per la modulazione delle misure di natura economica. Gli ‘intervistati’ devono fornire tutte le informazioni circa la loro situazione pregressa, ivi compresa quella patrimoniale: tali informazioni devono necessariamente essere chiare, complete e aderenti alla effettiva loro condizione, e devono anche essere supportate da idonea documentazione”. Viene quindi redatta la dichiarazione di impegno.


La assegnazione del luogo di abitazione a collaboratori e testimoni


Tra gli auditi dal X Comitato, coloro i quali, a causa delle condizioni di rischio elevato derivato dalle loro testimonianze, sono stati trasferiti in luoghi protetti, hanno evidenziato come “una delle doglianze maggiormente ricorrenti riguardi proprio la nuova collocazione”. Viene lamentata, per esempio, l’attesa a volte “assai prolungata (anche di diversi mesi, ndr), in sistemazioni alloggiative provvisorie, con evidenti ripercussioni negative soprattutto per i minori, costretti in tal modo a sospendere per lunghi periodi i percorsi scolastici che in un momento fortemente traumatico sono essenziali ai fini di un loro riorientamento”. Ad aggravare questa situazione vi sono le spese della locazione che ricadono sul nucleo familiare protetto detraendo la cifra dal contributo mensile. È inoltre emerso che “quando il protetto riceve un ordine di carcerazione ovvero di esecuzione della pena per tutto il periodo della detenzione le spese dei servizi relativi al cespite locato e rimasto inoccupato gravano sul protetto che a fine pena si ritrova ad avere contratto un debito senza esserne responsabile”. Molti dei soggetti interrogati dalla Commissione, hanno anche dichiarato di “essere stati pressoché abbandonati con la mera consegna delle chiavi e senza il supporto”.
Grazie al coinvolgimento del Direttore del Servizio Centrale di Protezione Dott. Nicola Zupo, il X Comitato ha constatato, inoltre, che “gli appartamenti consegnati ai Collaboratori ed ai Testimoni sono sempre gli stessi. Tale circostanza implica un palese disvelamento e un palese rischio in quanto i proprietari e gli altri inquilini già sono a conoscenza che quel cespite servirà ad altre persone sottoposte a speciali status, con conseguenti effetti negativi sul dispositivo generale tutorio di sicurezza”. Gli auditi hanno riferito a più riprese “di essere stati collocati in località protette unitamente ad altri soggetti protetti” e che “più sottoposti a speciale status si sono ritrovati sullo stesso piano nello stesso palazzo”. Taluni hanno anche assicurato di “avere incontrato in località protetta, soggetti sottoposti allo speciale Programma di protezione appartenenti ai contrapposti sodalizi criminali”. Certo, come ha evidenziato il Direttore del Servizio Centrale di Protezione, l’individuazione delle “località protette” è una scelta operata in considerazione di quanto emerge, “anche sulla scorta delle segnalazioni dell’Autorità Giudiziaria proponente e dell’organo investigativo, in ordine ad aree ‘controindicate’”. Inoltre, come ha sottolineato il Gen.le Aceto, vengono presi in considerazione gli elementi informativi contenuti nell’“intervista tecnica”. Ad ogni modo, però, resta il fatto che si è davanti ad una “inadeguatezza dei luoghi deputati”, scelti dal servizio centrale di protezione, che “non permette il sicuro reinserimento socio lavorativo per incompatibilità ambientale”, scrive la Commissione parlamentare antimafia.

Le interlocuzioni con gli organi centrali


In merito alle criticità intercorrenti con gli organi centrali, è stata lamentata “l’assenza frequente di comunicazioni scritte da parte di detti organi: a dire degli auditi essi vengono sovente informati dei provvedimenti che li riguardano tramite mere dichiarazioni verbali degli operatori locali affidatari delle loro tutele, e quindi non documentabili”. Così come è stata evidenziata la “mancanza di documentazione che possa attestare la consegna a detti operatori di istanze e missive dirette alla Commissione centrale o al Servizio Centrale di Protezione, destinate quindi, a dire degli auditi, a ‘cadere nel nulla’, senza la possibilità di avere neanche traccia dell’invio”. La Commissione antimafia altresì scrive che “quanto ai collaboratori, dalle audizioni svolte è emerso come l’assenza di una previsione analoga a quella contenuta nell’art. 17 della l. 6/2018 dettata per i testimoni di giustizia (che prevede il diritto di questi ultimi di essere ascoltati dalla Commissione centrale ex. Art.10, ndr), determina nei già menzionati una sensazione di frustrazione e di abbandono, sentendosi essi del tutto privi di un interlocutore nel sistema tutorio, tanto che esso viene spesso impropriamente cercato nell’Autorità Giudiziaria inquirente”. Più in generale, alcune audizioni hanno evidenziato come “il collegamento della composizione della Commissione centrale alla compagine governativa, ne determini un parziale rinnovamento ad ogni mutamento di essa, con possibile dispersione delle conoscenze e delle attività in precedenza svolte”.

Il supporto psicologico: tra carenze e disuguaglianze


Un ruolo fondamentale nella decisione di avviare un percorso come Collaboratori o Testimoni di giustizia lo gioca il supporto psicologico del dichiarante e dei familiari. “Coloro che intraprendono un percorso ‘collaborativo’ (in senso ampio) e fanno così ingresso nel sistema tutorio, hanno dovuto a monte effettuare una scelta ‘forte’, di contrapposizione ad un sistema che appare potente, pervasivo e certamente reattivo, e quindi foriera di possibili gravi conseguenze – scrive la Commissione -. Per i collaboratori, in particolare, la decisione di recidere i legami con il precedente vissuto incide fortemente anche sulla loro identità personale e psicologica, dovendo comunque comportare un radicale mutamento di regole e parametri di vita e di comportamento, oltre che di prospettive”. Spesso, infatti, i soggetti protetti presentano “pregnanti ragioni di fondo di fragilità psicologica, che necessitano di attenzione, monitoraggio, nonché cura ed assistenza. A maggior ragione ciò deve ritenersi per i minori implicati nei sistemi di protezione”. Stando ai dati forniti dal Direttore del Servizio Centrale di Protezione, si rileva che “il 40% dei familiari di collaboratori e testimoni attualmente sotto tutela è costituito da minori (si tratta di 1615 soggetti), un quinto dei quali, corrispondente a 323 unità, è addirittura in età prescolare”. Anche sotto questo profilo, il sistema tutorio si presenta “fortemente carente”. La Commissione scrive di “plurime voci” di soggetti auditi, sia collaboratori che testimoni, che “hanno lamentato la pressoché totale mancanza di assistenza e supporto psicologico da parte della struttura tutoria durante il loro percorso, soprattutto per ciò che concerne i minori, e taluni hanno addotto di aver dovuto fare ricorso a professionisti esterni, e benché autorizzati dal Servizio Centrale, di aver dovuto sopportare il relativo onere economico”. Queste gravi lacune sono state confermate anche dal Presidente del Tribunale per i Minorenni di Catania, dottor Roberto Di Bella, il quale ha sottolineato “la situazione di ‘profonda sofferenza’ determinata dalla assoluta carenza di supporto psicologico”.

Le carenze in questione si palesano come “particolarmente gravi nella fase iniziale del percorso collaborativo, quella che intercorre tra il momento in cui interviene la proposta di ammissione al programma di protezione da parte del Procuratore della Repubblica e il momento in cui la Commissione centrale delibera l’adozione delle misure, ancorché in via provvisoria – scrive l’Antimafia -. Trattasi del momento più traumatico, nel quale il soggetto che ha reso le dichiarazioni che hanno dato luogo alla proposta e i suoi familiari si trovano in una sorta di ‘limbo’, essendo in questa fase ancora incerta la loro sorte”. In questa delicatissima fase, in cui l’assistenza psicologica è fondamentale anche per il prosieguo dell’attività di collaborazione che, come sottolinea il X Comitato “viene spesso scoraggiata dalle difficoltà inziali”, secondo l’esperienza del dottor Di Bella “è assente ogni forma di supporto, tanto che, nelle vicende venute alla sua attenzione, il suo ufficio, competente per i minori coinvolti, si è dovuto attivare ‘in modo artigianale’ ricorrendo alla rete del volontariato e garantendo l’assistenza in questione tramite gli psicologi di ‘Libera’”, prosegue il dossier. Vi è poi un fattore ancor più grave e preoccupante. Nonostante le norme vigenti prevedano che “gli organi competenti all’attuazione delle speciali misure di protezione del programma speciale di protezione assicurano la necessaria assistenza psicologica sui minori in situazioni di disagio”, per ciò che riguarda la possibilità di farsi assistere da specialisti di fiducia con oneri a carico del Servizio Centrale, il Gen.le Aceto ha fatto presente che “le vigenti disposizioni normative e regolamentari garantiscono tale facoltà per i testimoni di giustizia e i loro familiari, che possono richiedere il rimborso integrale delle spese sanitarie sostenute; per il collaboratori di giustizia, invece, tale rimborso è ammesso solamente in via eccezionale, qualora la prestazione sanitaria in questione non sia fornita dal servizio sanitario pubblico o non sia accessibile per motivi di sicurezza”. Circostanza che, come sottolineato dalla Commissione parlamentare antimafia, “appare incostituzionale ovvero priva di fondamento logico, giuridico e scientifico la ‘differenza’ di trattamento rispetto alla prole dei testimoni e dei collaboratori rispetto a determinate problematiche mediche”.

La mimetizzazione


Uno dei temi più sensibili per i Collaboratori e i Testimoni di giustizia è la “mimetizzazione”, ovvero uno strumento volto al cambiamento delle generalità. La Commissione antimafia, però, denuncia la normativa vigente relativa ai documenti di copertura perché “lacunosa, frammentaria e carente”: risulta obsoleta. L’ordinario utilizzo dei documenti di copertura per garantire le esigenze di sicurezza, riservatezza e reinserimento sociale di coloro che siano stati trasferiti dalla località di origine, “ritorna pressoché costantemente nelle dichiarazioni dei soggetti auditi, il tema della inadeguatezza, sotto plurimi profili, dell’utilizzo di tale strumento tutorio”. A tali documenti, infatti, “non corrisponde una posizione anagrafica: è quindi escluso che possano essere utilizzati per stipulare alcun negozio giuridico – scrive la Commissione antimafia -. Da ciò conseguono effetti e ripercussioni soprattutto per ciò che concerne il reinserimento socio-lavorativo, ma anche sotto l’aspetto della effettività della sicurezza che essi dovrebbero garantire, e che talvolta risulta addirittura a rischio di essere compromessa”. Inoltre, i documenti di copertura “non possono essere utilizzati per la sottoscrizione di un contratto di lavoro: il collaboratore o il testimone di giustizia deve quindi a tale scopo utilizzare la sua reale identità e per tale ragione, qualora non voglia rassegnarsi all’inattività, è costretto a lavorare in località diversa e spesso lontana da quella ove ha l’abitazione”. È capitato in diverse occasioni che “non fossero ‘oscurate’ negli archivi dell’INPS le posizioni lavorative, riportanti la reale identità, di taluni soggetti sottoposti a programma o a speciali misure di protezione”.

Ciò che appare evidente è “la mancanza di efficienza dei documenti di copertura la cui utilizzazione in concreto può arrivare addirittura a compromettere, anziché tutelare, in alcuni casi, la sicurezza dei soggetti sottoposti a programmi (siano questi provvisori o meno) di protezione. Sicuramente tale strumento tutorio deve essere ripensato e attualizzato. La mancanza di una corrispondenza anagrafica tra la nuova identità ed i documenti di copertura dei testimoni e dei collaboratori di giustizia si è rilevata il vulnus principale di questo strumento”. Per questo motivo, la Commissione parlamentare antimafia suggerisce di valutare come ipotesi “la trasformazione del documento di copertura in una identità di copertura che abbia, una corrispondenza anagrafica, almeno per quanto attiene a quei documenti funzionali all’esercizio, da parte del collaboratore o testimone di giustizia, di diritti ad esso costituzionalmente garantiti. Tale identità di copertura avrebbe comunque natura provvisoria, come è attualmente per i documenti di copertura, salvo, in caso di ammissione al cambio di generalità, la possibilità di mantenere in capo alla persona i dati e le generalità della suddetta nuova identità”. Il X Comitato, infatti, precisa che “l’identità di copertura, al pari dei documenti di copertura, non sarebbe di fatto un cambio di generalità, non consentendo detto strumento, al pari del documento di copertura, il ricongiungimento della storicità del vissuto del soggetto”, e come “ciò potrebbe indurre a temere un pericoloso ritorno al passato” quando vi era un abuso di questo strumento. Trattandosi di uno strumento finalizzato a favorire il reinserimento sociale, ma di una misura estrema da adottare solo in situazioni eccezionali, tale rischio si può ottemperare con la sottoscrizione del programma di protezione – da parte del collaboratore o testimone che ha adottato l’Identità di copertura – in cui il soggetto si impegna a “non utilizzarla per usufruire di diritti e posizioni giuridiche che gli sarebbero precluse con la identità reale”.

Il sostegno economico e il reinserimento sociale e lavorativo


Dal lavoro della Commissione parlamentare antimafia è emerso un profilo di problematicità anche sulla misura di sostegno in merito “all’acquisizione al patrimonio dello Stato dei beni immobili di proprietà dei testimoni di giustizia e degli altri protetti, laddove le speciali misure di tutela ne abbiano determinato il definitivo trasferimento e non sia risultata possibile la vendita nel libero mercato”. È stato più volte sottolineato, inoltre, come “gli immobili in questione, una volta che essi siano stati allontanati dalla località d’origine, il più delle volte rimangono del tutto privi di cura e sono destinati all’abbandono e a rovinare in condizioni di degrado, con conseguente riduzione del ‘valore di mercato’ al quale saranno valutati nell’ipotesi di acquisto da parte dello Stato”. Peraltro, i beni in questione “continuano a generare oneri economici di cui i soggetti tutelati si troveranno gravati al momento della fuoriuscita dal circuito tutorio”. L’Antimafia sottolinea, inoltre, come “l’assenza di analoga previsione per i collaboratori di giustizia viene da costoro considerata frutto di una ingiustificata disparità di trattamento, laddove anch’essi siano costretti per ragioni di sicurezza, in conseguenza della scelta di collaborare con la giustizia, ad allontanarsi dalla terra di origine e ad abbandonare e non poter più curare i loro beni”.


Oltre, quindi, ad essere destinati al degrado, “non saranno collocabili nel libero mercato anche a causa della titolarità in capo a soggetti che hanno fatto parte di organizzazioni criminali, o addirittura a causa proprio della scelta compiuta di allontanarsi da dette organizzazioni e collaborare con la giustizia, che allontanerà possibili acquirenti per timore di possibili ritorsioni. La circostanza che siano state considerate per tale aspetto soltanto le esigenze dei testimoni di giustizia viene vissuto come segno di disinteresse e lontananza dello Stato nei loro confronti. Denso di criticità, secondo quanto rassegnato nelle diverse audizioni, il reinserimento sociale e lavorativo”. Infine, stando a quanto riscontrato dal X Comitato, vi sono “enormi difficoltà di accesso al credito bancario, riscontrate dopo aver effettuato la scelta di denunciare i fatti delittuosi di cui erano stati vittima: da questo momento si sono scontrati con un tangibile atteggiamento di sfavore, quando non di vera e propria ostilità, da parte degli istituti finanziari che avevano revocato gli affidamenti prima concessi e imposto il ‘rientro’ dalle morosità nei mutui e nelle linee di credito”. Inoltre, qualora il testimone di giustizia trasferito in località protetta e dotato di documenti di copertura, “abbia ottenuto l’elargizione ex lege 44/99, poiché essa deve essere destinata ad attività economiche di tipo imprenditoriale, trovandosi nell’impossibilità di realizzare tale condizione, andrà incontro alla revoca del beneficio, secondo quanto previsto dall’art.16 del già menzionato testo normativo”. I soggetti tutelati, quindi, “il più delle volte hanno dovuto rassegnarsi all’inattività e alla percezione dell’assegno di mantenimento”.

L’uscita dal circuito tutorio


Le speciali misure di protezione (per collaboratori e testimoni) così come il programma speciale di protezione (per i collaboratori) hanno un termine. Non possono, infatti, superare i cinque anni per i collaboratori e sei anni per i testimoni di giustizia. A fissare il periodo è la Commissione centrale con il provvedimento con cui essi vengono adottati. Come è ovvio, alla scadenza, sulla base delle informazioni fornite dall’Autorità Giudiziaria che aveva formulato la proposta e degli elementi forniti, secondo il tipo di misure adottate, dal Prefetto o dal Servizio Centrale di Protezione, “la Commissione centrale delibera la proroga delle misure, qualora ritenga che permangano i presupposti afferenti alla situazione di pericolo grave e attuale che ne avevano giustificato l’adozione, ovvero la mancata proroga delle medesime”. I collaboratori e i testimoni auditi hanno denunciato lacune e carenze nel sistema di sicurezza anche nel momento successivo alla fuoriuscita dal circuito tutorio, il più delicato per certi aspetti. “Il trascorrere del tempo dal momento in cui vennero rese le dichiarazioni e il compimento degli impegni giudiziari, circostanze con le quali vengono motivati la mancata proroga delle misure tutorie speciali o, successivamente, l’affievolimento o la cessazione di quelle ordinarie, non terrebbero conto, a giudizio degli auditi, del fatto che le organizzazioni criminali consumano le loro vendette anche a distanza di molti anni – scrive il X Comitato -. […] Disposta la mancata proroga delle misure tutorie, e motivata la stessa anche con l’assolvimento degli impegni giudiziari, accade però che essi vengano nuovamente citati dall’Autorità Giudiziaria per rendere dichiarazioni in nuovi procedimenti: ciò determinerebbe rinnovati profili di rischio, non considerati nella modulazione delle misure di sicurezza loro garantite”. In particolare, uno degli auditi ha riferito che, “dovendo tornare per ragioni di salute nella regione di origine, non gli è stato riconosciuto il diritto alla scorta, garantitagli invece per le occasioni in cui doveva rendere testimonianza”. “Analoga doglianza è stata addotta da altro audito che ha riferito dell’esigenza di recarsi presso gli uffici della Prefettura della località d’origine, ove era in corso il procedimento relativo alla richiesta di risarcimento del danno biologico”, si legge nel dossier.

Serve colmare le lacune normative


Dal meticoloso lavoro svolto dal X Comitato della Commissione parlamentare antimafia, si evince che mentre non ci sono soluzioni per alcune problematiche afferenti alla sfera emotiva in conseguenza all’ingresso nello speciale programma di protezione (ad esempio l’allontanamento dagli affetti e dai luoghi cari), per gli altri aspetti meramente inerenti alla qualità della vita della persona protetta “lo Stato potrebbe fare di più”. Inoltre, alcuni accorgimenti e modifiche potrebbero anche comportare un risparmio di danaro pubblico. I beni di proprietà dei Testimoni di giustizia, per esempio, “dovrebbero essere valutati ed acquisiti a patrimonio dello Stato; non si può valutare un bene lasciato incustodito, per ovvie ragioni, data l’impossibilità della persona protetta di potersene occupare personalmente”, suggerisce il Comitato. Così come i beni immobili, “non frutto di attività illecite, dei Collaboratori di Giustizia dovrebbero essere acquisiti nel patrimonio dello Stato, applicando la stessa norma che prevede l’acquisizione dei cespiti di proprietà dei Testimoni di giustizia”. Questo contribuirebbe ad evitare che tali beni possano essere oggetto di ricatto nei confronti del collaboratore o del testimone attraverso atti vandalici volti a intimidire il soggetto collaborante.
Per quanto concerne la fase iniziale della collaborazione o della testimonianza, urge invece velocizzare il cambio di generalità speciale, “in quanto è l’unico modo che permette, non solo la piena mimetizzazione del soggetto protetto ma soprattutto il suo inserimento in un nuovo tessuto sociale”. Vista la quasi totale inutilità del documento di copertura, scrive la Commissione, “si propone una ipotesi di riforma al documento di copertura in attesa del cambio di generalità definitivo. In considerazione che l’istituzione della ANPR (Anagrafe Nazionale Popolazione Residente, ndr) presso il Ministero degli Interno, permette la creazione in sicurezza di una scheda anagrafica informatica contenente una identità di copertura, recante nome, cognome e dati anagrafici diversi da quelli della identità originale del soggetto sottoposto alle speciali misure di protezione”. L’ANPR agevolerebbe la creazione di una identità di copertura con “l’inserimento all’interno della banca dati di ANPR di una scheda informatica contenente tutti dati della nuova identità del testimone o collaboratore di giustizia sottoposto a programma di protezione”.


Per quanto concerne gli alloggi, fa sapere la Commissione “questi potrebbero essere scelti anche con l’aiuto del soggetto protetto o comunque mediante agenzie”. È emerso che spesso si locano immobili di proprietà di soggetti preposti alla Tutela ed alla Sorveglianza di Testimoni e Collaboratori di Giustizia (parenti o affini del personale NOP). Inoltre, “non dovrebbero essere utilizzati, per decenni, gli stessi alloggi applicando semplicemente il principio della rotazione. Tale procedura di rotazione di fatto disvela ancor prima di arrivare, i nuovi inquilini, dato che il proprietario dell’immobile per consuetudine conosce il suo cespite a chi materialmente viene locato”, si legge nel documento. Per la Commissione è di fondamentale importanza la questione della capitalizzazione in quanto, per quanto concerne i collaboratori, “alle somme indicate sovente vengono decurtate, dal Servizio Centrale di Protezione, somme non documentate esclusivamente sulla base di una ‘nota’ dei NOP chiamata ‘statino’. Tale nota di parte non rappresenta alcuna fattura o documento fiscale/contabile”. I testimoni di giustizia, invece, che sono per lo più imprenditori con redditi precedenti altissimi, la legge 6/2018 – spiega la Commissione – “li penalizza totalmente, ovvero o si accontentano di un posto di lavoro nella pubblica amministrazione, calcolando che uno stipendio medio si aggira a circa 1.200,00 euro al mese, oppure di contro realizzano un progetto lavorativo che non può superare la somma di circa 240.000,00 euro, cifra che sembra altissima, ma non adeguata sicuramente al tenore di vita precedente”. Particolare attenzione dovrebbe essere rivolta agli “imprenditori” Testimoni di Giustizia. Questi, infatti, “sono la categoria più esposta al fenomeno del racket e dell’usura nonché vittime anche di usura bancaria”.

Non solo. L’entrata nel programma di protezione spesso “culmina nell’attivazione di procedure concorsuali non per responsabilità dell’imprenditore ma derivanti dallo status applicato in quanto limita l’imprenditore per problemi di disvelamento relativo alle incombenze burocratiche”. Inoltre, “l’imprenditore vittima di racket o usura subisce innumerevoli processi civili e penali a suo carico”. I procedimenti contro gli imprenditori vittime di racket e usura “si attivano in genere quando l’imprenditore vittima diventa insolvente. L’insolvenza nasce dalle limitazioni relative allo status di Testimone di Giustizia nonché dalle lungaggini burocratiche connesse al Sistema Tutorio. Inoltre, la situazione debitoria si inasprisce perché l’Antiracket non tratta le pratiche secondo i tempi di rito stabiliti dalla Lex. Un Testimone di Giustizia non può e non deve subire tutto questo; lo Stato dovrebbe, da buon padre di famiglia, tutelare gli interessi dell’imprenditore vittima”.

A questo punto sorge spontanea una perplessità: Come si può chiedere agli imprenditori di denunciare se poi dalla collaborazione scaturisce inevitabilmente una procedura concorsuale? La Commissione sottolinea come “tale scelta della permanenza in località d’origine si rivelerebbe certamente uno strumento ‘suscettibile di favorire nuove denunce’ dimostrando che opporsi alla criminalità organizzata è possibile anche senza ‘dover fuggire dalla propria terra’, come ha ben dimostrato l’imprenditore ex testimone di giustizia Ignazio Cutrò, il quale ha fatto terra bruciata di mafiosi nell’area del Bivonese (AG) facendo trarre in arresto decine di soggetti socialmente pericolosi oltre che mafiosi conclamati”. Detto ciò, è bene che la Politica e gli organi competenti in materia di collaboratori e testimoni di giustizia prendano atto del dossier della Commissione parlamentare antimafia e agiscano per sopperire le lacune denunciate. Non farlo potrebbe comportare il sabotaggio di uno strumento fondamentale per il contrasto alle organizzazioni mafiose: l’istituto dei Collaboratori e dei Testimoni di giustizia.
(Prima pubblicazione: 27-01-2023)

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