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Collaboratori e Testimoni di Giustizia dimenticati da questo Stato ingrato. Il governo dica chiaramente se vuole fare o no la lotta alle mafie

COLLABORATORI E TESTIMONI DI GIUSTIZIA VANNO ONORATI ED ADDITATI COME ESEMPIO DI ONESTA’ E DI SENSO CIVICO AL PAESE ED INVECE VENGONO MALTRATTATI ED EMARGINATI.
VIGLIACCHI!!! MAFIOSI!!!

C’è una differenza sostanziale tra Collaboratori e Testimoni di Giustizia. I primi provengono dalle fila delle cosche, i secondi sono vittime o semplici testimoni di ciò che hanno visto e denunciato. Entrambi hanno deciso che occorre aiutare lo Stato a debellare le organizzazioni mafiose e le loro reti di relazioni, dalle contiguità alle complicità. Entrambi rischiano perché le cosche non dimenticano chi tradisce il vincolo associativo, così come non dimenticano chi rompe la cappa di omertà e denuncia… Il valore di chi sceglie di essere collaboratore e di chi si fa testimone, nell’azione di contrasto giudiziario alle organizzazioni mafiose, è quanto mai centrale e determinante. Senza questo contributo che permette la ricerca di informazioni e riscontri e, quindi, delle responsabilità, la lotta alle organizzazioni mafiose, sarebbe quanto mai più complessa e si troverebbe a combatterla con un arma spuntata. Senza le informazioni dall’interno dell’organizzazione mafiosa – che è portata dai collaboratori – l’impenetrabilità del sodalizio sarebbe quasi impossibile da rompere. Senza le denunce delle vittime non ci sono i carnefici da arrestare e perseguire. Se le mafie non dimenticano ed anzi sono solo in attesa di colpire chi tradisce e chi denuncia, lo Stato, con l’attuale organizzazione del sistema di protezione è spesso il vero “latitante”. I limiti del sistema di protezione sono da tempo evidenti ed al contempo ignorati. Si pensi solo che la Commissione Parlamentare Antimafia approvò una Relazione che poneva con chiarezza il problema ma nulla si è poi concretizzato sulla necessità di riforma e riorganizzazione del sistema di protezione. Un documento approvato ad unanimità e dimenticato dall’unanimità, con la relatrice, Angela Napoli, che fu posta ai margini, isolata dalla politica. Nell’ultimo libro di Nicola Gratteri, procuratore aggiunto presso la DDA di Reggio Calabria, e Antonio Nicaso, storico ed esperto della criminalità organizzata, intitolato “Acqua Santissima”, nel capitolo “L’onore e
l’infamia”, leggiamo alcuni passaggi talmente diretti e chiari che possono aprire gli occhi a chi ancora, ottusamente, non capisce o non vuol capire di cosa si sta parlando: Luigi Bonaventura, ex reggente dell’omonimo clan a Crotone, racconta di aver infranto il codice del silenzio per una questione di onore. “Non potevo negare ai miei figli l’opportunità di un futuro migliore. Oggi mi sento più onorato di prima, l’onore di cui mi riempivo la bocca era falso e vacuo. ” Nel 2006, quando decide di saltare il fosso lo confida al padre. “Ci rimase male, prima cercò di dissuadermi, poi, per due volte, di uccidermi. Non poteva tollerare un infame in famiglia, spettava a lui il compito di lavare questa vergogna. La seconda volta, ho risposto al fuoco, ferendolo all’inguine. Così sono riuscito a fuggire e a salvarmi. ” Oggi vive una vita difficile, nonostante sia entrato nel programma di protezione. “Il quel periodo, il prete del mio quartiere venne a trovarmi per la benedizione della casa. Lo faceva ogni anno nel periodo di Pasqua” racconta ancora Bonaventura. “Ne approfittai e gli raccontai ciò che avevo in mente di fare. Anziché incoraggiarmi, mi disse di stare calmo, di riflettere, che la situazione si sarebbe sistemata. Non l’ho più visto. ” Qualche settimana dopo, la moglie di Bonaventura va in parrocchia, ma l’atteggiamento del sacerdote non cambia. “Fu come parlare al muro. ” Bonaventura ora vive in un’altra regione, dove la mentalità non è molto diversa da quella lasciata in Calabria. “Neanche qui ho trovato comprensione, aiuto, sostegno. Ho chiesto al parroco del luogo di poterlo incontrare, l’ho invitato a prendersi un caffè a casa mia, ma non è mai venuto a trovarmi. ”. Succede la stessa cosa anche all’imprenditore Gaetano Saffioti, quando decide di testimoniare contro il clan Gallico di Palmi che da tempo lo taglieggia. Uno dei pochi a scoraggiarlo è il parroco del suo paese. Riferendosi alla decisione di testimoniare contro i miei estorsori, mi disse. Quella cosa ai a vidiri comu u m’aggiusti, cioè devi vedere come risolverla. Ricordo che in chiesa, invitava sempre i fedeli a pregare per i carcerati, mai una una parola di comprensione per chi, come me, aveva deciso di sfidare i boss per poter guardare con fierezza negli occhi i propri figli, per non dover continuare a piegare la testa. Per me è stata una questione d’onore, nel senso di comportamento responsabile, virtuoso. La questione è che se per i mafiosi chi decide di collaborare, così come chi decide di denunciare e testimoniare, sono morti che camminano, in attesa dell’esecuzione, per gran parte della comunità sono come appestati che possono attirare guai se li avvicini, se gli sei vicino. L’indifferenza, questa indifferenza, è complicità. Dobbiamo dirlo chiaramente. E’ esempio sudditanza e resa della comunità alla cultura mafiosa. E’ il non riconoscere una scelta di coraggio, maturata nell’interesse di tutti ed a scapito della propria sicurezza, per timore di compromettersi. Così al sud come al nord… E così mentre i mafiosi continuano a tessere ed ampliare la propria rete di consenso sociale, consolidando relazioni di potere, chi da dentro l’organizzazione mafiose decide di uscirne ed abbracciare lo Stato, come chi vittima decide di denunciare e testimoniare per contribuire ad affermare Giustizia, subisce un isolamento sociale devastante. Non stiamo parlando, attenzione, di “finti” collaboratori. Chi si propone per collaborare e si verifica essere promotore di dichiarazioni false, volte a depistare, prive di qualsivoglia riscontro, non viene nemmeno inserito nel programma di protezione o, nel caso, vi sia stato ammesso in via provvisoria, viene posto fuori e nel caso arrestati. Stiamo parlando di chi decide di abbandonare l’organizzazione mafiosa, in cambio, certo, di sconti di pena, ma conquistandosi una condanna a morte per se e, quando li hanno, anche per i propri familiari. Non stiamo parlando nemmeno di testimoni che si inventano qualcosa pur di denunciare estorsioni o attentati. Prima di tutto, come per i collaboratori, per essere valutati “attendibili”, occorre che a quanto si denuncia e dichiara vi siano dei riscontri. E poi, non secondario, denunciare l’organizzazione mafiosa, verbalizzare accuse precise, fornire gli elementi per i riscontri, ed andare in un aula di Tribunale e confermare, non è una passeggiata. E’ mettere a rischio la propria vita e quella dei propri familiari. In entrambi i casi, forse è elemento che viene ignorato dal comune cittadino, chi compie una di queste scelte, singolarmente o con la propria famiglia, viene catapultato in una località protetta (che spesso non è affatto protetta) ed è costretto a tagliare i ponti con chiunque. Non più un parente, come una madre o un padre; non più gli amici… Ogni affetto deve essere lasciato alle spalle, come se fosse cancellato, inghiottito da un buco nero. Un trauma devastante. Un senso di vuoto assoluto che ti circonda e ti soffoca. Non è una scelta facile, tutt’altro.
Chi denuncia e testimonia in aula non agisce solo per salvaguardare la propria sete di giustizia, ma permette allo Stato di colpire i mafiosi e far sì che non possano minacciare e colpire altri. Chi denuncia e testimonia ha già subito la prepotenza mafiosa e facendo questa scelta impedisce che altri la subiscano. Chi decide di collaborare, portando a conoscenza dei reparti investigativi e dei magistrati, le proprie conoscenze sull’organizzazione mafiosa, sugli affiliati, sulla rete di pofessionisti ed “esterni” che la fiancheggiano, sulle dinamiche come sulle attività e gli affari, sui progetti criminali perseguiti come sulle dinamiche interne, non è solo uno che raccontando ciò che sa ottine uno sconto di pena dallo Stato (ma una condanna a morte dall’organizzazione mafiosa da cui è fuoriuscito), ma permette di fermare omicidi o punire quelli commessi, di contrastare traffici di armi, droga, rifiuti, così come individuare i canali di riciclaggio e le reti di prestanome utilizzati per inquinare l’economia locale, acquisire appalti o proteggere i beni illecitamente accumulati… Permette che si individuino i rapporti con pezzi delle Istituzioni e Pubbliche Amministrazioni che operano nell’interesse delle cosche ed a danno della comunità… Pertette, in sintesi, che sia debellata un’articolazione, più o meno ampia, dell’organizzazione mafiosa evitando che questa persegua nell’affermarsi con danno alla collettività. Questo dobbiamo comprendere una volta per tutte, come presupposto quando parliamo di collaboratori e testimoni di Giustizia. Ma nonostante questo presupposto, insipegabilmente, lo Stato, con le norme vigenti, non aiuta chi compie questa scelta. Non incentiva né chi vuole abbandonare l’organizzazione mafiosa e collaborare con la Giustizia, né chi decide di sottrarsi alla prepotenza mafiosa denunciando e deponendo in dibattimento, diventando Testimone. I limiti di un sistema di protezione che non è in grado di garantire a tutti un’adeguata sicurezza, con ritardi spaventosi per l’attivazione e gli sbandamenti quotidiani a cui vengono sottoposti coloro che, collaboratori e testimoni, in esso vengono inseriti, è intollerabile. E’ improponibile che vi sia una variabile costante, di sicurezza e supporto concreto, a seconda della squadra del “NOP – nucleo operativo protezione” a cui si è affidati. E’ improponibile che, spesso, non vengano posti in sicurezza tutti i soggetti che sono indicati a rischio (inseriti nel “patto con Stato”) e che quindi dovrebbero essere portati in sicurezza unitamente al collaboratore o testimone. E’ inaccettabile che continuino a persistere problemi con le “nuove identità”, con documenti che risultano non regolari, ad esempio, ad un pronto soccorso, mettendo a rischio concreto di vita chi lo Stato dovrebbe proteggere. Senza “nuova identità” si è bersaglio facilmente individuabile, non solo perché le mafie, a partire dalla ‘ndrangheta, ha una rete di presenza ampia anche in quei territori individuati come “sedi protette”, ma anche perché vi sono troppi servitori infedeli dello Stato che dall’interno possono scoprire la località ove è “trasferito” il testimone o il collaboratore con la propria famiglia. I bambini, ad esempio, sono iscritti a scuola, i ragazzi alle superiori come all’università… e se portano dietro il proprio nome e cognome non è difficile per le organizzazioni mafiose individuarli e colpirli. Si continuano a verificare casi assurdi come testimoni di giustizia o collaboratori che finiscono per restare senza una casa perché lo Stato, trascorso qualche tempo, si dimentica di loro. Casi in cui non si vedono garantita un’adeguata protezione per spostamenti a rischio oppure, uno degli ultimi episodi assurdi avvenuti, che finiscano arrestati, come nel caso di Luigi Bonaventura, collaboratore scambiato per latitante. Lo Stato deve tutelare chi sceglie di schierarsi contro le mafie, siano i collaboratori o siano i testimoni di giustizia. Sono strumento essenziale per i reparti investigativi e la magistratura al fine di assestare colpi decisi e netti alle organizzazioni mafiose. Ed anche la comunità dovrebbe dimostrare di esserci. Porsi non soltanto il compito di far sentire riconoscenza a chi ha scelto di schierarsi con lo Stato, denunciando le cosche mafiose ed i loro affari, ma anche il dovere di pretendere che lo Stato garantisca effettiva protezione a collaboratori e testimoni di Giustizia… così come lo stringersi vicino a quanti di loro, con ulteriore rischio per propria esistenza, hanno il coraggio di raccontare la loro storia personale per aprire gli occhi ad una società che ancora si ostina a considerarsi “estranea” al problema. Perché tutto questo, cioè una situazione nota ampiamente, non è all’ordine del giorno della politica? Perché tutto questo non è posto – da nessuno – come priorità nell’azione parlamentare e del Governo? Perché non si vuole riorganizzare questo sistema di protezione che fa acqua e che facendo acqua rischia di essere disincentivo per chi potrebbe decidere di collaborare, denunciare e testimoniare? Sentiamo molte parole in merito alla lotta alle mafie, ma su questo punto, su questo decisivo, determinante e
fondamentale fronte, nessuno osa porre la necessità di una svolta urgente a livello normativo ed organizzativo. Pretendiamolo.