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Chi può salvare la Calabria

Chi può salvare la Calabria

22 NOVEMBRE 2020

Impegno collettivo contro i clan

DI GIUSEPPE PIGNATONE

“Il mondo si divide in due: ciò che è Calabria e ciò che lo diventerà”.

Sono le parole di un boss calabrese, intercettato una decina d’anni fa, frutto – evidentemente – di una sorta di delirio di onnipotenza nel vedere l’espansione della ‘ndrangheta non solo nel nord Italia (dove i giudici hanno parlato di un fenomeno di colonizzazione), ma anche in molti Paesi esteri.Quelle parole mi sono tornate alla memoria in questi giorni leggendo della drammatica situazione della sanità calabrese, della difficoltà di nominare un commissario per quel settore e poi dell’arresto, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e di voto di scambio, del presidente del Consiglio Regionale.

Mi è sembrato che la situazione calabrese sia talvolta quasi lo specchio deformato in cui larghe zone del nostro Paese possono vedere l’immagine di quello che potrebbero diventare, o addirittura in qualche caso – specialmente, ma non solo, al Sud – sono già diventate, a causa dell’intreccio tra presenza delle mafie, debolezza della politica, corruzione, amministrazioni in affanno (quando non peggio), insufficiente coscienza civica. Naturalmente è necessaria un’azione repressiva di polizia e magistratura seria, costante ed efficace, che apra sempre nuovi spazi di libertà, restringendo l’area di influenza delle cosche. Credo che – pur tra mille difficoltà – questa azione si sia realizzata, specialmente negli ultimi anni, in Calabria. Come è peraltro accaduto in Sicilia, dove la sconfitta di Cosa nostra corleonese ha dimostrato che lo Stato è in grado di agire con successo, se assume il contrasto alla mafia tra le sue priorità, e se ha l’appoggio della società civile.

Non deve essere però la lotta di uno o di pochi “eroi” solitari, che appartengano essi alla magistratura o ad altre categorie. Così infatti si crea un (falso) mito doppiamente pericoloso: alimenta illusioni destinate a cadere perché nessuno da solo può sconfiggere un’organizzazione mafiosa, sia essa la ‘ndrangheta, Cosa nostra o la camorra e, allo stesso tempo, offre uno splendido alibi all’inerzia di tutti gli altri – singoli cittadini, istituzioni, realtà economiche, gruppi sociali – cui invece spetterebbe il compito più decisivo: costruire una società più sicura, organizzata, efficiente, pulita.

La questione del contrasto alle mafie è un problema innanzitutto politico e proprio per questo responsabilità e impegno della politica, (che dovrebbe essere la forma più alta di carità, secondo la definizione di Paolo VI), e delle istituzioni nazionali e locali, a partire dalla formazione e selezione della classe dirigente.

Non basta delegare tutto a polizia e magistratura: occorrono disponibilità di risorse adeguate e programmi politici veri e di lungo respiro, che contengano una visione del futuro anziché limitarsi a cercare di gestire un po’ meglio l’esistente.

Questo compito richiede impegno e competenza. Per questo vanno rimosse al più presto quelle condizioni che – come ha detto in questi giorni il presidente emerito della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli – allontanano tante persone perbene dall’assunzione degli uffici pubblici: dal generalizzato sospetto per chi ricopre un incarico pubblico all’equiparazione mediatica dell’inizio di una indagine o di un avviso di garanzia a una sentenza di condanna.

Resta poi indispensabile il contributo dei singoli cittadini, a cominciare da chi opera nella scuola, dalle medie all’università, nell’economia, nella cultura e nell’informazione. E questo non solo nel momento decisivo del voto, ma con l’apporto quotidiano, nell’ambito e nei limiti delle proprie possibilità, al bene comune. Anche con il coraggio di dire “no” a proposte e richieste che, se pure non costituiscono reato, minano l’interesse generale a vantaggio di quello di pochi.

Fonte:https://rep.repubblica.it/